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di Luciano Garibaldi

Da eroe di Verdun a imputato nella Norimberga francese. Ma certamente amò la sua patria non meno di Charles de Gaulle

 

petainVichy è una celebre cittadina termale nel cuore della Francia, a Sud di Parigi e a Ovest di Lione. Entrò nella storia allorché l’Assemblea nazionale (il Parlamento francese) la scelse quale sede del governo nella seduta del 10 luglio 1940, dopo l’occupazione di Parigi da parte dei tedeschi e la firma dell’armistizio nella foresta di Compiègne. Da quel giorno, Vichy è diventata sinonimo di «governo fantoccio», così come, nell’Italia della Repubblica sociale italiana di Mussolini, lo divenne Salò. Anche Salò, così come Vichy, era nulla più che una ridente cittadina di vacanze. Ma mentre Vichy fu espressamente scelta come sede del capo del governo (e poi dello Stato), maresciallo Pétain, Salò dovette la sua fama al fatto che vi si era trasferita l’agenzia di stampa Stefani (l’Ansa di allora), per cui tutte le notizie che pervenivano per telescrivente ai giornali erano datate Salò. In realtà, la Repubblica di Mussolini non ebbe mai una vera e propria capitale, essendo i ministeri dislocati in varie città (Brescia, Padova, Milano, e, prima della sua liberazione, o conquista, ad opera degli anglo-americani, il 4 giugno 1944, Roma) ed essendo Gardone la sede del capo dello Stato, cioé Mussolini. Al contrario, Vichy ospitava presidenza della Repubblica, Governo, ministeri e ambasciate. In ogni caso, «Repubblica di Vichy» e «Repubblica di Salò» rimangono sinonimo di due Stati privi di autentica sovranità, sottomessi alla potenza militare di Hitler.

Ma veniamo alla figura e all’opera di Pétain. Henri-Philippe Pétain nasce il 24 aprile 1856, quarto figlio di una pia famiglia contadina di Cauchy-à-la-Tour, nella regione del Pas-de-Calais, nel Nord della Francia. La madre muore di parto dando alla luce il quinto figlio, e Philippe cresce sotto l’influenza dello zio materno, l’abate Jean-Baptiste Legrand, che lo fa studiare nelle scuole cattoliche e poi lo avvia alla carriera militare.

Entra infatti all’accademia di Saint-Cyr nel 1876, 402esimo in graduatoria su 412 ammessi. Uscirà due anni dopo al 22esimo posto. Data da allora la sua attenzione per il soldato di truppa: «Non comandiamo dei soldati», dice, «ma degli uomini». Nel 1888 entra alla Scuola di Guerra e si qualifica con «bene». Nel 1900, Maggiore, è insegnante di tiro alla Scuola normale di Châlons-sur-Marne, ma entra in conflitto con un superiore, teorico dell’«ordine chiuso». Secondo Pétain, invece, «le pallottole uccidono» e i soldati dovrebbero agire in «ordine sparso» e curare la precisione di tiro. Viene sostituito e dal 1901 al 1907, insegnante alla scuola di guerra, è soprannominato «il principe che non ride». Si crea inimicizie tra gli apologeti dello slancio offensivo, sostenendo che «la volontà non basta, deve essere sostenuta dalla forza». Allo scoppio della Grande Guerra, con il grado di Colonnello facente funzione di Generale, comanda una Brigata durante la ritirata del 1914 e, allo stabilizzarsi del fronte, passa al comando di una Divisione. Nel 1915, Generale, è al comando di un Corpo d’Armata. Di fronte ai sanguinosi scacchi dell’offensiva nella Champagne, è amaramente ironico verso le velleità d’attacco dello Stato Maggiore, che lo considera «troppo sulla difensiva». Ottiene però notevoli successi difensivi a Reims e Arras.

Il 25 febbraio del 1916, comandante della seconda Armata di riserva, viene nominato dal capo dell’esercito, Joffre, alla guida del settore di Verdun, che è sotto un violento attacco tedesco. E qui «si valse la sua nobilitate». Durante la battaglia, Pétain chiede e ottiene lo sforzo supremo alla truppa con una frase diventata celebre, contenuta nell’ordine del 9 aprile alla Seconda Armata: «Courage, on les aura (coraggio, li avremo)». Ma quella frase celebre a lui attribuita è del suo vice, Serrigny. Anzi, il futuro Maresciallo, leggendola, protesta: «Questo non è francese corretto», ma Serrigny lo convince a non modificarla. Il segreto della vittoria di Verdun è il metodo di difesa organizzato da Pétain, poi mantenuto dal suo successore Nivelle. Per alleviare lo sforzo del singolo soldato, Pétain introduce il sistema del «tourniquet»: dei circa 330 battaglioni di fanteria dell’esercito francese del 1916, 259 passeranno a rotazione, per pochi giorni alla volta, nell’inferno di Verdun. La battaglia è un massacro: il primo luglio 1916, quando i tedeschi cessano gli attacchi, 350mila francesi e 400mila tedeschi sono morti su un fronte lungo quaranta chilometri e profondo al massimo dieci chilometri. Tutta la battaglia è costellata di episodi e luoghi saldi ancor oggi nella memoria dei francesi: la lotta per i forti di Douaumont, Vaux, la quota 304, limata da uno spaventoso bombardamento d’artiglieria, le creste de Le Mort Homme, la Côte du Poivre.

Ottenuta la Legion d’Onore, Pétain è chiamato al comando del Gruppo d’Armate centrale. Nell’aprile 1917, l’offensiva del generale Nivelle, che dovrebbe finalmente aprire una breccia nello schieramento tedesco, fallisce. I tedeschi bloccano i francesi con un devastante sbarramento d’artiglieria. E’ un massacro talmente grande che nella fanteria si scatena un’ondata di ribellioni. A Pétain viene affidato l’ingrato compito di reprimere la rivolta. Il generale è costretto a ordinare 54 esecuzioni.

Nel 1918 Pétain è a capo dell’esercito francese. Criticato dagli Alleati per il suo atteggiamento difensivo, risponde: «Io aspetto gli americani e i carri armati», americani e carri armati che arrivano nel maggio 1918 e contro i quali si infrangono le ultime offensive tedesche. Nell’estate 1918 inglesi, francesi e americani passano all’attacco, respingendo il nemico verso il Reno. Il giorno dell’armistizio, l’11 novembre 1918, un ordine del giorno appare sulla porta sbarrata del comando di Pétain: «Chiuso causa vittoria». E’ nominato Maresciallo di Francia e nel 1922 ispettore generale dell’esercito.

Nel 1925 è chiamato in Africa del Nord, dove reprime la rivolta marocchina nel Rif. Nel 1934 è ministro della Guerra. L’anno successivo è ambasciatore di Francia in Spagna. Ed è in questa veste che deve prendere atto – come tutti gli altri cittadini francesi – della dichiarazione di guerra presentata da Parigi, unitamente a Londra, alla Germania di Hitler che il 1° settembre 1939 ha invaso la Polonia. La sua avventura a capo del governo di Vichy sotto l’occupazione tedesca, ha inizio dopo la bruciante sconfitta che la Francia è obbligata a sottoscrivere a Compiègne il drammatico 22 giugno 1940. Mentre il generale Charles De Gaulle si ribella al governo che ha firmato l’armistizio e ripara in Gran Bretagna promettendo guerra ad oltranza alle truppe di Hitler, il capo del governo Paul Reynaud nomina Pétain suo vice e, poco dopo, si dimette, lasciandogli la carica di Primo Ministro. Da parte sua, il presidente della Repubblica, Albert Lebrun, gli concede i pieni poteri. Poi, il 18 aprile 1942, mentre in tutta la Francia infuria la guerra civile tra i soldati fedeli al governo e quelli che, divenuti partigiani, ubbidiscono a De Gaulle, Pétain assurge alla carica di capo dello Stato e affida la guida del governo a Pierre Laval.

Nulla di diverso da ciò che accadrà tra poco in Italia, spaccata in due: i fedeli all’alleato tedesco, e quelli che il tedesco lo odiano a morte. Ma la fine è ormai vicina. Incalzati dalle truppe alleate dopo lo sbarco in Normandia, i tedeschi rientrano in Germania. Pétain (in un certo senso il Mussolini bianco rosso e blu), è imprigionato e sottoposto a processo.

L’origine del processo a Pétain risale a un documento legale approvato il 3 settembre 1943 dal Comitato francese di liberazione nazionale. In questo testo, firmato da De Gaulle e dal generale Giraud, si dice che «Philippe Pétain e i suoi ministri sono colpevoli di tradimento per avere, il 22 giugno 1940, firmato un armistizio contro la volontà del popolo […] la Germania restando ciononostante il nemico fino alla firma di un trattato di pace, la collaborazione con essa costituisce un altro aspetto di tradimento». In sostanza, i capi d’accusa si basano 1) sull’assunto dell’illegittimità del governo di Pétain nel firmare l’armistizio senza consultare il Parlamento; 2) nella situazione di armistizio (che non è pace), la collaborazione con i vincitori, in particolare nelle operazioni di polizia e con l’invio di lavoratori francesi in Germania, costituisce tradimento.

L’Alta Corte si mette al lavoro il 18 novembre 1944, il processo inizia il 23 luglio 1945. L’istruttoria è incompleta a causa della mole di documenti da consultare, ed è contestata sotto l’aspetto formale. Senza entrare nel merito delle questioni giuridiche, le ambiguità maggiori sono sulla legittimità o meno del regime di Vichy. Pétain aveva sospeso di fatto l’Assemblea nazionale, aveva modificato la Costituzione, ne aveva progettata una nuova. Per l’accusa, questo è tradimento; per la difesa, è stato necessario nella situazione di emergenza e, nelle parole di Pétain, «per evitare alla Francia quello che è capitato alla Polonia [nel 1939]». L’accusa fa propria la tesi di un complotto premeditato da parte di Pétain per rovesciare la Repubblica e sostituirla con un regime autoritario, e trasforma questa fase del dibattimento in un processo alla politica francese degli anni ‘30, ma non si riesce a dimostrare un’attiva partecipazione di Pétain a nessun movimento eversivo di destra.

L’accusa vince sul punto della collaborazione. Gli argomenti giuridici sono solidi. Collaborare in regime di armistizio col nemico è tradimento. La difesa cade definitivamente su un punto delicatissimo, la repressione della Resistenza. E’ una sequenza drammatica.

Il difensore di Pétain, Jacques Isorni, chiama il generale de Lanurien, appartenente alla cerchia militare del Maresciallo e suo fedele, sul banco dei testimoni. La prolissa deposizione di de Lanurien, oratore efficace, segue la linea difensiva del «male minore per la Francia». Ma un giurato chiede al generale di chiarire alla Corte il pensiero di Pétain sulla Resistenza. Si riferisce ad una lettera del 15 marzo 1944, scritta da de Lanurien a Pétain. Ne legge due frasi: «Bisogna che si chiarisca che è il capo dello Stato stesso, e non il capo del governo, che ha voluto, concepito e precipitato la repressione […] il cui effetto benefico è stato immediato […]; che sia ben chiaro che queste due azioni benefiche, quelle di Darnand e di Henriot [due collaborazionisti fascisti, responsabili della repressione, n.d.A.], debbano essere Vostra opera personale». Il giurato chiede a de Lanurien se nega quanto scritto. De Lanurien: «Non nego nulla, riprendo come conclusione la frase del Maresciallo: ‘Non ho mai combattuto la Resistenza, ho sempre combattuto il terrorismo’». Ma la voglia di vendetta dei vincitori è più forte di qualsiasi ragionamento. Il 15 agosto 1945 viene emessa la sentenza di morte, con 14 voti favorevoli e 13 contrari. Vista la tarda età dell’imputato, la pena è commutata in ergastolo. Il provvedimento è firmato da De Gaulle, allora capo del governo provvisorio. Pétain, ormai quasi completamente sordo e con la poca memoria rimastagli, viene portato al forte di Portalet, sull’isola di Yeu. Qui morirà il 23 luglio 1951, all’età di 95 anni.

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