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Il 19 novembre 1945, a soli 43 anni, si spegneva Carlo Alberto Biggini ministro importante della Rsi e studioso di primo piano.

Appunto di Marcello Veneziani

Carlo Alberto Biggini sarebbe stato uno dei personaggi chiave per un’Italia postbellica che avesse avuto il coraggio e la possibilità di digerire e superare il fascismo anziché esorcizzarlo e criminalizzarlo. Comprendere che un’epoca era finita, una storia si era irrimediabilmente conclusa, ma alcuni germi, alcune tracce, alcune intuizioni, potevano ancora dare frutti importanti. Uomini come Biggini avrebbero potuto rappresentare la transizione indolore, nel segno della continuità dell’Italia dal fascismo al postfascismo, evitando la schizofrenia di un Paese che aveva tributato entusiasmo e consenso al fascismo e poi lo aveva ripudiato come il Male Assoluto. Biggini non appartenne alla generazione del fronte che aveva fatto la Grande Guerra e ne era stata segnata. Per ragioni anagrafiche – adolescente al tempo della guerra non visse l’esperienza terribile della trincea – Biggini si trovò a vivere in toto la parabola dal fascismo, dalla sua nascita al suo tramonto. Ma visse quell’esperienza senza mai cedere al fanatismo e all’estremismo, cercando un’esperienza sociale oltre il socialismo e un’esperienza di libertà oltre il liberalismo, collegandosi alla tradizione nazionale. Biggini non fu neanche repubblicano per scelta ideale ma solo per necessità storica. E fu soprattutto uomo di frontiera, che pur schierandosi schiettamente dalla parte di Mussolini al tempo del Gran Consiglio del fascismo, cercò tuttavia di capire i motivi di chi scelse la via opposta. Monarchico e conservatore sul piano dei principi quanto rivoluzionario sul piano degli assetti, Biggini riconosceva nella Corona uno dei riferimenti unitari della nostra storia e dunque visse drammaticamente la frattura tra dinastia e regime, tra regno e regime. E dopo, quando scoppiò la guerra civile, pur avendo assunto un ruolo così importante nella repubblica sociale, nonostante fosse all’inizio recalcitrante, cercò di tenere vivo e aperto un canale di dialogo coi partigiani, cercando di cucire la frattura tra le due Italie e tra fascismo e antifascismo. Sarebbe stato perciò un personaggio decisivo per ricomporre l’Italia lacerata uscita dalla guerra, e per far capire ai duellanti fratricidi che la storia passa ma l’Italia resta, salvando al tempo stesso la sovranità dell’Italia dalla soggezione in cui poi si lasciò vivere.

Nella Repubblica sociale Biggini proseguì la lezione di Gentile e di Bottai, non solo in senso ideale e ideologico, ma anche da ministro e riformatore, sia per quel che riguarda la scuola e la cultura che la salvaguarda dell’ambiente e il dialogo con il dissenso e la tutela degli antifascisti.
Il suo disegno costituzionale sarebbe stato la transizione perfetta da un regime autoritario con consenso popolare quale fu il fascismo a uno Stato libero, sovrano e democratico, partecipativo sul piano politico, sociale ed economico. Il suo fu un progetto di “democrazia responsabile” prima che diretta, in cui chi governa si assume tutta la responsabilità di decidere e di governare e poi risponde in pieno, senza alibi, di ciò che ha fatto e non ha fatto, al popolo.
Uno Stato comunitario e partecipativo, organico e nazionale, in cui la vita reale del popolo prevale sugli assetti contabili della finanza e in cui l’interesse  pubblico nazionale prevale sugli interessi oligarchici privati. Uno Stato nazionale del lavoro, fondato su una visione comunitaria.
Sarebbe interessante vedere quanti elementi sotto falso nome, provenienti da Biggini, ma anche da Gentile, da Rocco e da Bottai, sono presenti nella Carta costituzionale della nostra democrazia. Ho sempre avuto il sospetto che il famoso compromesso di alto profilo tra le culture del dopoguerra su cui si impiantò il patto costituzionale e poi la vigente Costituzione non riguardasse solo la cultura cattolico-democratica, quella laico-democratica e quella socialcomunista, ma coinvolgesse anche quella cultura nazionale e sociale da cui proveniva Biggini. A partire dall’articolo 1 e dalla configurazione di una repubblica fondata sulla centralità del lavoro. Resta un mistero comprendere perché la sinistra – a cominciare da Togliatti, la Cgil e il Partito comunista – non abbia recepito dell’ultimo fascismo e della Costituzione repubblicana di Salò la partecipazione agli utili e alla gestione delle imprese, che pure è contemplata nella Costituzione all’art. 46 ma che non fu mai di fatto tentata e incoraggiata. Fu salvato il Concordato con la Chiesa, il Codice Rocco, pur considerato frutto velenoso di un regime dittatoriale, furono salvate le leggi sull’ambiente di Bottai e alcuni importanti tratti di economia mista, di partecipazione pubblica, di formazione scolastica; ma non fu recepita la più avanzata apertura al mondo del lavoro tramite l’applicazione effettiva della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende, prevista nella Carta di Verona come nel progetto di Biggini. Nel nome utopico dell’autogestione operaia e nel segno della lotta di classe, si respingeva ogni progetto di collaborazione tra capitale e lavoro, dipendenti e proprietari, ma si lasciava di fatto l’impresa nelle mani del Capitale pur di non avviare quella fase di cogestione che era il corrispettivo della democrazia partecipata nel mondo del lavoro. D’altra parte non è un mistero che ai tempi della Rsi e della Resistenza, la Fiat di Valletta, i nuclei partigiani e le forze occupanti naziste raggiunsero in Torino accordi per boicottare la cogestione prevista dalla Repubblica sociale.

Il progetto di Biggini non era socialista o protocomunista perché non prevedeva l’abolizione della proprietà privata e nemmeno la sua statalizzazione o collettivizzazione; venivano salvaguardate la proprietà privata e la natura privata delle aziende ma era assegnata loro una funzione sociale, comunitaria.
Perciò quando si parla di Biggini non si fa solo riferimento a un esperimento in laboratorio di ingegneria costituzionale, rimasto virtuale, ma si parla di una grande occasione perduta per l’Italia di darsi un assetto coerente, originale ed efficace di democrazia partecipativa. Non è il tecnicismo della sua costituzione a colpirci e a rivelare una sorprendente, inesplorata attualità; ma l’umanità che anima e sorregge la visione politica e sociale di Biggini e del suo progetto.
Non è il “patriottismo della costituzione” che ispira il disegno di Biggini ma al contrario una Costituzione pervasa da amor patrio, fondata sulla tradizione nazionale e sorretta da una visione comunitaria e organica che dista anni luce dal nostro presente, individualista, cinico e globale. Non è una Carta che può suscitare amor patrio; semmai è l’inverso, è l’amor patrio che può generare una buona Costituzione. Perciò non diremo, alla Benigni, che quella di Biggini fu la più bella costituzione del mondo ma che restò bella e intonsa, nella sua verginità di promessa incompiuta. Fu un modello ideale, un archetipo celeste, ma non ha perso tuttavia il fascino delle cose realizzabili, ardue ma non impossibili, che possono ancora farsi attuali e calarsi nella realtà presente.

http://www.marcelloveneziani.com/biggini-e-lrsquoitalia-che-poteva-essere-e-non-egrave-stata.html

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