Di Gaetano Rasi, Il Secolo d’Italia
Qualche lettore attento mi ha chiesto di essere più esplicito circa le affermazioni che sono apparse sul mio ultimo articolo, (Secolo d’Italia dell’11 marzo scorso) dal titolo “Banche e finanza non salveranno l’economia reale“. In particolare scrivevo «perché i pubblici poteri non assumono adeguate iniziative, né responsabilità dirette, volte a creare servizi infrastrutturali di durevole utilità sociale ?»
E più avanti ribadivo il concetto che, per uscire dalla crisi economica, ossia per dare un iniziale volano alla ripresa della crescita di tutta l’economia nazionale, è necessario puntare subito su massicci lavori pubblici rivolti all’ammodernamento e al potenziamento delle reti infrastrutturali nazionali in forte ritardo di sviluppo.
Infatti, concludevo, l’esperienza della storia economica degli ultimi due secoli dimostra che solo da una politica di investimenti in opere pubbliche possono derivare, poi, attraverso la distribuzione di redditi per questi lavori, una ripresa della domanda aggregata di beni e servizi in grado di indurre le imprese a nuove iniziative e ad investimenti, e quindi alla nuova occupazione di uomini e di capitali.
Ebbene, ecco le mie precisazioni. Due sono le strade da percorrere: quella della programmazione che mobiliti progettazioni e investimenti da parte degli enti pubblici (governo centrale e amministrazioni territoriali), e quella del partenariato pubblico-privato attraverso il sistema del project financing. Anche questa strada inserita in un’unica programmazione generale.
Per il primo aspetto siamo ancora molto lontani da affrontare in maniera risolutiva la crisi attraverso opere pubbliche. Attualmente non siamo andati oltre a quanto aveva cominciato a fare il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, il quale aveva avviato nell’agosto dell’anno scorso lavori pubblici per circa 9 miliardi di euro.
Il Cipe, allora, sotto la pressione di Matteoli aveva sbloccato un primo gruppo di iniziative (Piano per il Sud, progetto preliminare Tav Torino-Lione, Tem – tangenziale esterna di Milano), ma poi , caduto il governo Berlusconi in novembre, di questo programma e dei relativi stanziamenti dal governo Monti non si sono avute consistenti notizie.
Forse qualcosa si sta muovendo, ma al di fuori di un piano organico ben finalizzato.
Infatti si tratta di investimenti di poco conto come un piccolo stanziamento per il Mose, ossia per il sistema di dighe mobili a salvaguardia di Venezia e della sua laguna; una serie di piccoli interventi sulla mobilità nel Mezzogiorno; e qualche decina di modesti cantieri da attivare, sembra, quanto prima. E’ ancora sospesa la decisione circa la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina. Nel complesso, non più di 12 miliardi e mezzo, compresi quelli già decisi dal governo precedente.
Insomma si tratta di iniziative che sotto l’aspetto dell’entità sono assolutamente insufficienti a rilanciare l’economia e per di più sempre nell’ambito dell’assurdo sistema che è costituito da una serie di procedure lente e irrazionali, affatto produttivistiche.
Vi attendono infatti soprattutto organi burocratici i quali badano a mere garanzie di responsabilità come se l’opera da realizzare non fosse il fine del loro lavoro, ma solo un pretesto per tirare in lungo ai fini della propria occupazione.
Dunque, bisogna pensare alla mobilitazione di ben più grandi capitali da investire secondo una logica programmatica di breve e di medio-lungo periodo.
Proprio in questi giorni il Censis ha documentato che nell’ultimo ventennio gli investimenti pubblici sono scesi del 35% e lo sviluppo infrastrutturale si è praticamente fermato. Quindi non solo è necessario ripartire per stimolare l’economia indotta, ma anche perché siamo in ritardo con lo sviluppo civile.
Dal 1990 al 2010 la rete autostradale è cresciuta in Italia solo del 7%, mentre quella tedesca è aumentata del 16%, quella francese del 61 % e quella spagnola del 171 %. Eppure il traffico del trasporto su gomma in Italia è aumentato di almeno tre volte.
Quindi il ritardo è fortissimo. Il Presidente del Consiglio di Gestione di Finlombarda ha dichiarato che nel complesso delle 390 opere elencate nel Programma delle infrastrutture strategiche per un valore di 367 miliardi di euro, solo 186 sono state deliberate con una disponibilità finanziaria di appena 75,6 miliardi di euro.
Ma poi la realtà è ancor più cruda. Se si guarda allo stato di attuazione, solo 30 opere per 4,5 miliardi risultano ultimate. E ancora: il rapporto fra gare bandite e gare effettivamente aggiudicate è del 53%, ossia che quasi metà dei progetti, non vengono realizzati.
Sul piano decisionale vi è estrema incertezza da una parte si sostiene la necessità di puntare sulle strade di grande comunicazione (come per esempio sulla Napoli – Bari), mentre invece altri vorrebbero spostare le risorse sulle città e sulla mobilità urbana.
In conclusione, su questo argomento si rende necessario redigere un vero piano decennale finalizzato all’ammodernamento e allo sviluppo delle infrastrutture del nostro Paese che in realtà è un grande molo proteso tra l’Europa e il Mediterraneo e quindi con tutti i Paesi rivieraschi.
Non potrà essere certo l’attuale governo Monti, che si limita alla contingenza e all’emergenza – anche se una pubblicistica compiacente gli attribuisce un ruolo di modernizzazione -, a risolvere il problema del superamento della crisi. Il nuovo Governo, che uscirà dalle elezioni dell’anno prossimo, per riprendere lo sviluppo del nostro Paese dovrà varare immediatamente una prima trance di investimenti non inferiore ai 2 mila miliardi di un programma decennale il quale dovrebbe prevedere un importo totale 3-4 volte superiore e quindi reperire i mezzi necessari e insieme trovare la capacità di programmare il futuro. Insomma dare contenuti effettivi al Cipe che conserva solo il nome e non la sostanza di Comitato interministeriale per la programmazione economica e che tale programmazione non realizza.
Per quanto riguarda la seconda strada da imboccare, ossia quella del coinvolgimento delle amministrazioni locali e regionali, bisogna togliere i vincoli imposti dal cd patto di stabilità. Non vi è dubbio che gli amministratori locali sono i principali protagonisti dello sviluppo infrastrutturale del Paese in quanto storicamente realizzano quasi tre quarti degli investimenti pubblici complessivi.
Purtroppo questo motore dello sviluppo è rimasto inceppato da un meccanismo di controllo paralizzante dei conti locali. Il citato patto di stabilità si è risolto in sostanza nell’invischiare gli enti locali in una sorta di rispetto formale delle regole di bilancio, mentre per altri aspetti non ha avuto effetti soddisfacenti nemmeno per le entrate degli enti interessati.
Il Servizio studio e ricerca della Banca Intesa San Paolo elenca gli effetti distorsivi di questi comportamenti che hanno spostato “in modo strutturale la spesa da quella in conto capitale alla spesa corrente” e quindi hanno sterilizzato il potenziale anticiclico della spesa pubblica.
Un’altra strozzatura derivata dalla rigidità e dalla miopia del patto di stabilità è quella riguardante la paralizzante possibilità degli enti locali di accendere mutui. Infatti vi è un’ulteriore prospettiva di contrazione per il futuro.
Nel triennio 2012-2014 l’incidenza della spesa sul debito sul totale delle entrate correnti, degli enti locali, deve scendere di due punti all’anno passando dall’attuale 10% al 4% previsto per il 2014.
Già il limite del 10% era estremamente restrittivo; quindi se non viene rivista completamente la logica del patto di stabilità non si effettuerà più alcuna opera infrastrutturale.
Infine, va messo in forte rilievo che è necessario un coordinamento tra gli investimenti centrali e quelli periferici allo scopo di stabilire quali opere vanno considerate strategiche e capaci di vero impatto sull’indotto. Quello del coordinamento è un problema essenziale in pieno contrasto con un malinteso federalismo che rischia la dispersione e la non efficacia di investimenti poco produttivi e non finalizzati all’interesse generale.
L’altro grande indirizzo ai fini dell’ammodernamento infrastrutturale delle grandi reti e di volano per la ripresa dello sviluppo riguarda il sistema di partenariato pubblico privato, rivolto a mobilitare somme da investire in opere pubbliche.
Si tratta di quello che è chiamato il project financing che oggi viene reso difficile perché le banche sono restie a concedere prestiti a lunga scadenza in appoggio ai capitali privati che potrebbero essere mobilitati.
Va ricordato che questa del project financing è una tecnica finanziaria la quale rende possibile il finanziamento di iniziative sulla base del futuro flusso di cassa generato dal progetto e non sulla valutazione riguardante il patrimonio del proponente.
In altre parole la garanzia del rimborso del debito contratto per l’opera viene dai previsti incassi in sede di esercizio (per esempio i pedaggi per le autostrade, oppure gli affitti per gli edifici costruiti).
Attualmente non esistono norme e garanzie volte a regolare una contrattualizzazione delle obbligazioni che le parti assumono nella ripartizione dei rischi.
Negli ambienti specializzati in questo tipo di finanziamento per le opere pubbliche, fanno osservare che attualmente le banche sono già restie a concedere prestiti della durata di 15-18 anni e inoltre che, con l’avvio delle norme bancarie stabilite dal Basilea 3, dal primo gennaio del prossimo anno gli istituti bancari non potranno superare i finanziamenti rimborsabili da 5 a 7 anni.
Insomma non potrà essere il credito bancario a risolvere il problema delle infrastrutture in Italia, a meno che non entri in funzione quell’idea dei finanziamenti derivati dalla emissione di project bond da far sottoscrivere dal pubblico dei risparmiatori e degli investitori finanziari.
A tal riguardo si tratterebbe dunque di ampliare adeguatamente l’attività della Cassa Depositi e Prestiti aggiungendo facilitazioni fiscali per gli investitori nelle obbligazioni sopra indicate.
Quella della ulteriore mobilitazione della Cassa Depositi e Prestiti (che trae originariamente la propria liquidità dal risparmio postale) per farne un istituto di finanziamento di opere pubbliche ricorda l’azione dell’Imi e dell’Iri degli anni Trenta. Non vi è dubbio infatti che questi due istituti – il secondo rivolto anche alle grandi imprese – furono i protagonisti, insieme con le grandi bonifiche, dell’uscita dell’Italia dalla grande crisi del ’29.
Ancora una volta, se pur in forme diverse, la storia si ripete.
Ma gli uomini politici attuali – che ben poco conoscono la storia recente – da essa non traggono alcun insegnamento.