Impegnati nelle imminenti elezioni amministrative e in preparazione delle elezioni politiche del prossimo anno, il mondo politico italiano e la stampa d’opinione concentrano naturalmente l’attenzione sui problemi interni e, per quanto riguarda l’Unione Europea, sui riflessi che l’azione dei suoi organismi possono avere sul nostro Paese.
Tuttavia, subito dopo l’esito delle elezioni amministrative, e nella prospettiva di quelle politiche per il “dopo Monti”, sarà necessario affrontare il problema del futuro della U.E. e in particolare dell’euro non solo come moneta comune.
Trascuriamo per ora le ripercussioni dell’esito delle elezioni presidenziali francesi, ma deve essere chiaro che comunque l’Italia non avrà né ripresa economica né prospettive di sviluppo se non sarà tra i protagonisti delle politica europea e questa non sarà posta in grado di essere protagonista nella politica mondiale.
Lo strappo di Jean-Claude Juncker nel lasciare anzitempo la guida di presidente dell’Eurogruppo (il centro di coordinamento dei ministri dell’Economia e delle Finanze dei 17 Stati dell’UE che adottano l’euro) deve essere la spinta decisiva per la prossima politica del nostro Paese.
Insomma deve essere un esempio da non trascurare.
«Lascio perché sono stanco delle ingerenze franco-tedesche » ha detto Juncker l’altro giorno nel corso di una conferenza ad Amburgo. Va sottolineato che la situazione insopportabile nasce, prima della crisi finanziaria del 2008, già nel 2003 quando Francia e Germania – allora guidate da Gerhard Schroeder e Jaques Chirac – decisero unilateralmente di violare le regole europee del patto paritario di unione.
Già allora si scoprì che l’Europa per due delle maggiori potenze, la Germania e la Francia, non era quella figura costituzionale nuova definita “una comunità di diritto“ come concetto voluto dai fondatori ed elaborato nella dottrina costituzionale, ossia una unione dove tutti sono uguali indipendentemente dalla loro dimensione e dalla loro capacità economica.
Si trattava infatti di una «unione di nazioni europee», strutturalmente diversa da quella federale, e quindi di una unità nel rispetto delle diversità nazionali e come tali riconosciute e ritenute una caratteristica civile unica al mondo. E tuttavia legate da una solidarietà in grado di essere forte verso l’esterno e coesa all’interno.
Invece l’egoismo e la miopia hanno prevalso anche a causa delle preoccupazioni elettoralistiche degli esponenti politici francesi e tedeschi di avere all’interno dei loro Stati consensi e voti particolaristici.
Il patto franco-tedesco di Deauville nell’ottobre del 2010 , in sede di riunione dell’Eurogruppo riunito a Lussemburgo per discutere la crisi dell’euro, è stato la conferma di voler decidere solo nel proprio interesse le sorti degli altri partecipanti in difficoltà.
Si è fatto in tal maniera il gioco della finanza speculativa proveniente dall’area del dollaro e decisa a demolire la concorrenza mondiale che stava acquisendo sempre più l’euro, ossia la moneta che rappresentava la forza dell’Europa proprio nel momento nel quale gli Usa causavano ed esportavano la crisi economica mondiale.
Bisogna che la politica italiana abbia completa coscienza della situazione.
Per procedere insieme ed essere competitivi e protagonisti gli Stati europei devono riprender la consapevolezza iniziale di essere diversi e che questa diversità non va “punita”.
«L’uniformazione distruggerà l’unione» ha detto Juncker ad Amburgo, intendendo con ciò che non possono esservi le stesse regole di rigidità nei bilanci pubblici e nelle condizioni produttive e distributive quando manca un’unica politica economica europea; quando vi sono diversi costi dell’energia, diverse norme fiscali, differenti legislazioni sull’impresa e del lavoro, differenti efficienze nelle infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni e nei sistemi bancario e scolastico.
Ed ha proseguito «Le cause delle difficoltà di oggi derivano dalla mancanza di coordinamento delle politiche economiche che non si sono decise a Maastricht per l’opposizione di Francia e Germania ».
La politica del fiscal compact, la creazione del fondo salva-Stati e le misure di allargamento monetario della BCE sono tutti elementi d’emergenza. La situazione è tuttora pericolosa, per cui definirla “instabile” come si dice ufficialmente è solo voler ricorrere ad un eufemismo.
L’Europa si è caratterizzata soprattutto come regolamentazione qualitativa, e talvolta quantitativa (per es. le quote latte) nei singoli settori, ma si tratta solo di una uniformità priva di forza propulsiva, perché non è frutto di una politica economica complessiva . Insomma mancano obiettivi comuni e capacità di penetrazione organizzata nei mercati del resto del mondo in un’epoca di forte competizione.
Le capacità intrinseche del continente europeo sono enormi, tali da assicurare sia sul piano della innovazione scientifica e tecnologica che su quella delle produzione delle merci e dei servizi- nonché dei sistemi riguardanti i processi produttivi – un primato in linea con la sua tradizione di civiltà. Ma si tratta di una potenzialità finora avvilita, talvolta addirittura compressa.
La competizione con il dollaro è nelle cose, ma mentre gli Usa assicurano alla loro moneta, insieme con un forte governo presidenziale, una banca centrale (la Federal Reserv) prestatore di ultima istanza e, un sistema di titoli federali che assicurano la stabilità al pubblico bilancio, l’Unione Europea impone squilibrate forzature ai singoli bilanci nazionali e vincoli all’espansione degli investimenti e dei consumi negli Stati che la compongono.
O l’Europa raggiunge gradualmente – senza traumi crudeli come quelli che si vogliono propinare oggi anche in Italia – una integrazione che consenta nel tempo di avere una vita sociale ed economica organicamente adeguata, oppure l’eurozona, prima, e l’Unione, poi, finiranno per disintegrarsi.