Alcuni di essi (mai individuati nominalmente) hanno in pugno la cultura, la comunicazione e la propaganda del cosiddetto Centro-Destra. Ecco perché, per il presente e per il futuro della Destra, in Italia, non c’è speranza.
Il 17 maggio 2002, in occasione del trentennale della morte di Luigi Calabresi, nel corso della commemorazione celebrata nel salone d’onore di Palazzo Barberini, monsignor Francesco Salerno, segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, diede lettura di un messaggio fattogli pervenire dal Santo Padre Giovanni Paolo II. Nel messaggio Papa Wojtyla definiva Calabresi “generoso servitore dello Stato e fedele testimone del Vangelo”, e, ricordandone “la costante dedizione al proprio dovere pur fra gravi difficoltà e incomprensioni”, auspicava che il suo esempio potesse diventare “uno stimolo per tutti ad anteporre sempre all’interesse privato la causa del bene comune”. Concludeva “assicurando per lui particolari preghiere e invocando da Dio Padre misericordioso sostegno per la sua famiglia”.
Due anni dopo, il 17 maggio 2004, il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, concedeva alla sua memoria la medaglia d’oro al valor civile. La Chiesa e l’Italia incominciavano finalmente a valutare nella corretta dimensione il sacrificio di quel Giusto. Erano passati più di trent’anni dal suo assassinio.
Luigi Calabresi ha rappresentato, nella mia vita di cronista e di testimone del tempo, un punto di riferimento essenziale. Nel ’72, quando fu assassinato, non esitai a denunciare, in una serie di articoli pubblicati su vari giornali, i miei colleghi giornalisti complici morali del delitto. Nel 1980 fui il primo giornalista a convincere la vedova di Calabresi ad uscire dalla cortina di silenzio che si era imposta da sempre, realizzando con lei la sua prima, dettagliata, approfondita intervista: l’intervista che pubblicai sul settimanale “Gente” diretto da Antonio Terzi, di cui ero il redattore capo.
Enzo Tortora, mio amico dai tempi del mio esordio nel giornalismo a Genova, aveva difeso Calabresi senza riserve, si era scagliato contro i suoi detrattori e i suoi assassini morali e pensava sempre di scrivere un libro sulla tragedia che aveva coinvolto il commissario. Non fece in tempo, perché a sua volta fu vittima di una crudele persecuzione giornalistica e giudiziaria, vera origine del tumore che lo portò a prematura morte. Mi passò il testimone: i fascicoli legali contenenti tutti i particolari del calvario subìto da Luigi Calabresi, che l’avvocato Michele Lener aveva promesso a Tortora, toccarono a me. Quella imponente documentazione contribuì non poco alla realizzazione, nel 1990, del libro di memorie di Gemma Capra «Mio marito il commissario Calabresi», da me curato, e costituisce la base del mio nuovo libro «Calvario», che narra una delle più tragiche storie della cosiddetta «Prima Repubblica».
Tra i miei ricordi affiorano le parole pronunciate, all’indomani del suo martirio, dal suo padre spirituale don Ennio Innocenti: «Approfondì la sua cultura religiosa e partecipò fervidamente a gruppi di giovani e di adulti che si riunivano, con periodica puntualità, a meditare la Sacra Scrittura. La sua frequenza ai Sacramenti diventò quella ideale e la sua vocazione al matrimonio fu perfettamente orientata. Fu seriamente preoccupato per la scelta della professione e fui proprio io a incoraggiarlo per la carriera in polizia, essendo anche questa una importante struttura dove i cristiani devono agire con buon fermento».
E fu proprio da cristiano che Luigi Calabresi si accinse a fronteggiare l’uragano di infamie abbattutosi su di lui dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli.
Pinelli era morto, precipitando dal quarto piano della Questura, il 15 dicembre 1969. Il 3 luglio dell’anno seguente, il giudice Amati aveva concluso l’istruttoria sulla sua morte attribuendola a suicidio. Fu in quel preciso istante che la buriana contro Calabresi esplose dilagando senza più argini. Centinaia di giornalisti e uomini di cultura (impossibile citarne i nomi: a partire da Alberto Moravia c’erano tutti) sottoscrissero il “messaggio di protesta” pubblicato da “L’Espresso”, nel quale si poteva leggere che “Calabresi porta la responsabilità della fine di Pinelli” e con cui si chiedeva che il questore Marcello Guida, il PM Giovanni Caizzi e il giudice istruttore Antonio Amati venissero cacciati dai loro posti.
La campagna diretta a colpire Luigi Calabresi culminò con il «manifesto degli Ottocento» pubblicato sul settimanale “L’Espresso”. Quel documento non solo definiva Calabresi “commissario torturatore” ma definiva i giudici che lo avevano assolto da ogni responsabilità in ordine alla morte dell’anarchico, “giudici indegni”. Seguì una serie impressionante di adesioni alla lettera-denuncia. Per ricordare chi veramente armò, dal punto di vista morale, la mano di Sofri, Pietrostefani, Bompressi, Marino e degli altri assassini che ancora mancano all’appello (ma ci sono, esistono, sanno di esserci, temono continuamente di essere scoperti e svergognati, e prima o poi qualcuno riuscirà a farlo, ne stiano certi), è sufficiente risfogliare “L’Espresso” numero 24 del 13 giugno 1971, numero 25 del 20 giugno e numero 26 del 27 giugno. Furono più di ottocento gli “uomini di cultura” che aderirono alla lettera-appello. Tra i filosofi, Norberto Bobbio e Lucio Colletti. Cinecittà era rappresentata praticamente al completo: Federico Fellini, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Luigi Comencini, Liliana Cavani, Giuliano Montaldo, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani, Paolo e Vittorio Taviani, Duccio Tessari, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Salvatore Samperi, Ugo Gregoretti, Nanni Loy. Tra i poeti, accanto a Pasolini, Giovanni Raboni e Giovanni Giudici. Dopo gli editori Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli e Vito Laterza, venivano i pittori: Renato Guttuso, Ernesto Treccani, Emilio Vedova, Carlo Levi. Ed ecco i critici (da Giulio Carlo Argan a Gillo Dorfles, da Morando Morandini a Fernanda Pivano), gli architetti (Gae Aulenti, Gio Pomodoro, Paolo Portoghesi) e nomi di prima grandezza come il musicista Luigi Nono e la scienziata Margherita Hack.
La letteratura era rappresentata, tra gli altri, da Alberto Moravia, Umberto Eco, Domenico Porzio, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Alberto Bevilacqua, Franco Fortini, Angelo M. Ripellino, Natalino Sapegno, Primo Levi, Enzo Enriques Agnoletti, Lalla Romano. Accanto ad Umberto Terracini, presidente del Senato, uomini politici come Massimo Teodori, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta. Quanto ai giornalisti, solo l’imbarazzo della scelta: Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Livio Zanetti, Paolo Mieli (che in seguito, assieme a pochi altri, riconoscerà il torto e chiederà perdono alla famiglia, ma non alla polizia e meno che mai al Paese), Sergio Saviane, Vittorio Gorresio, Carlo Rognoni, Carlo Rossella, ovviamente Camilla Cederna e infine Tiziano Terzani, che, dopo aver esaltato la rivolta dei khmer rossi in Cambogia, finirà, pentito, per narrarne i misfatti. Altri nomi, scelti a caso: Vittorio Vidali, l’uomo della NKVD che aveva organizzato il massacro degli anarchici ribelli a Stalin durante la guerra di Spagna, e ancora, il promotore della legge che aveva abolito i manicomi causando migliaia di tragedie famigliari, Franco Basaglia.
Tutti costoro condannarono Calabresi senza disporre di un benché minimo indizio, dopo che la magistratura lo aveva prosciolto in un regolare processo, senza assolutamente chiedersi, prima di firmare, chi veramente fosse l’uomo che accusavano di assassinio, che indicavano – con l’autorevolezza dei loro nomi – al pubblico ludibrio e al linciaggio dei fanatici boss dell’estrema sinistra (oggi, ormai tutti ultrasessantenni, assisi con stipendi stratosferici nelle propaggini informative e culturali del cosiddetto Centro-Destra, e scusate se mi viene da vomitare). Lo colpirono nel momento peggiore, quand’egli era impegnato a riscattare il proprio onore con i soli mezzi di cui dispone un cittadino rispettoso della legge e alieno da ogni violenza e da ogni desiderio di vendetta: cioè rivolgendosi all’autorità giudiziaria con l’appoggio di un avvocato penalista, visto che il cosiddetto potere esecutivo, che avrebbe dovuto schierarsi compatto al suo fianco, lo aveva abbandonato al linciaggio, come sempre aveva fatto e continuerà a fare, in questo avvilente e vergognoso Paese, nei confronti del personale di polizia.
Lo Stato disertò. Gli “ottocento” firmarono. E fu sulla base di quelle firme che i cialtroni di Lotta Continua uccisero.
Luciano Garibaldi