La drammatica eventualità della chiusura dell’acciaieria di Taranto, l’ILVA, é paradigmatica dell’allucinante mancanza in Italia – non solo da ora ! – di una politica economica, in particolare della politica industriale.
La patetica solitaria presenza ieri, in aula alla Camera, dai banchi vuoti del Governo del (ripeto) solo ministro dell’Ambiente, Clini, ad illustrare la vicenda, quando invece avrebbe dovuto esserci – e spiegare fatti, decisioni, prospettive e programmi – il ministro dello Sviluppo (?) Economico, Passera, ha sottolineato uno dei più bassi gradini della mancanza di una politica economica.
Va ricordato a questo riguardo che la nuova intitolazione del Ministero diretto dall’ineffabile Corrado Passera, si riferisce a quello che è tuttora il contenuto (e prima ne era anche il titolo esplicito) di Ministero dell’Industria, del Commercio, dell’Artigianato e del Turismo, insomma delle attività direttamente produttive dell’intero sistema economico nazionale. Ma di ciò non si tiene affatto conto.
Insomma non può non essere rilevato il vergognoso disimpegno, oltre che del Governo in carica (che pretende di giustificare la propria esistenza in base alle esibite competenze tecniche ed economiche), di un’intera classe politica nei confronti dell’immediato futuro dell’Italia, confermando, inoltre, l’irresponsabile ignoranza dei più elementari principi di come va governata una moderna economia industriale obbligata al quotidiano confronto con le economie europee e con il resto del mondo.
Tuttavia non vi è soltanto questo aspetto che va rilevato. Vi è pure, e in misura clamorosa, il fatto che tutta la questione viene dibattuta con estrema superficialità esasperando, uno o tutti insieme, i tre elementi conflittuali che la caratterizzano e che sono soltanto l’esito e non la causa del problema.
In effetti, l’accanita decisione di una miope magistratura che chiede l’arresto della produzione di acciaio; la necessità della strumentalizzata salvaguardia della salute dei cittadini di Taranto; e l’angosciante prospettiva della perdita della fonte di sostentamento di venticinquemila lavoratori e delle loro famiglie, sono il drammatico risultato di quella sconsiderata politica di privatizzazione della produzione siderurgica predicata e attuata da un quarto di secolo in omaggio al mito del libero mercato concorrenziale interno anche per la produzione di quei beni, materie prime e semilavorati, che sono l’essenziale condizione per l’esistenza di una libera e fiorente industria manifatturiera.
Ed infatti la produzione dell’acciaio – così come dell’alluminio, della chimica di base, e di altri beni destinati ad essere trasformati dalle imprese a carattere manifatturiero – se privatisticamente gestiti, al di fuori di un organico coordinamento a salvaguardia dell’intero sistema produttivo italiano, portano inevitabilmente a barare sull’osservanza delle norme di sicurezza ambientale e della salute dei cittadini e a non praticare sistemi di produzione tali da garantire, insieme con la costanza delle forniture di essenziali semilavorati all’industria manifatturiera, anche adeguati e continuativi redditi ai lavoratori diretti e dell’indotto.
Tutto ciò sta, per dipiù dolorosamente accadendo proprio in un’area nella quale l’esistenza o meno di tale industria di base significa la sopravvivenza di un’intera popolazione oppure la sua riduzione a condizioni di povertà estrema.
Abbiamo detto che la vicenda dell’ILVA è paradigmatica perché essa riassume nel suo dramma la mancanza di una programmazione organica secondo una coerente visione di sviluppo. A questo punto è inevitabile il confronto tra l’attuale cecità e la politica industriale dei decenni passati.
L’Italia già nel 1938 era il sesto produttore mondiale di acciaio con oltre due milioni di tonnellate, cifra ragguardevole per l’epoca tanto che proprio in quell’anno l’economia del nostro Paese si trasformò da sistema prevalentemente agricolo a sistema prevalentemente industriale.
Questa politica proseguì sulla stessa linea anche dopo il Secondo conflitto mondiale tanto che l’anno scorso, nel 2011, con 28 milioni di tonnellate prodotte l’Italia è diventata il secondo produttore di acciaio in Europa e l’undicesimo in un mondo che tende ormai ad essere dominato dalle produzioni asiatiche.
Il forte successo italiano nel dopo guerra, proprio nel settore siderurgico, fu dovuto alla prosecuzione del precedente piano industriale affidando al maggior esperto dell’epoca il suo piano siderurgico: Oscar Sinigaglia progettò e realizzò grandi stabilimenti il cui volume di produzione era l’unico che poteva garantire costi competitivi, sostenuti adeguatamente, a tale scopo, dalla loro ubicazione lungo i litorali per poter ricevere via mare il minerale di ferro e di là pure imbarcare l’acciaio diretto in varie parti del mondo. La nascita delle acciaierie di Bagnoli (Napoli), Cornigliano (Genova) e il polo siderurgico di Taranto nel 1961, rispondevano, appunto, alla razionalità di questo piano industriale.
La capacità produttiva del polo di Taranto è oggi pari ad oltre il 40% della produzione nazionale di acciaio (10 milioni di tonnellate). Gli addetti all’impianto sono quasi 12 mila, ma gli occupati salgono ad oltre 25 mila se si considerano gli altri stabilimenti del gruppo che lavorano in collegamento con l’impianto di Taranto.
L’eventuale chiusura dell’ILVA, dunque, non può non avere ripercussioni negli stabilimenti collegati in altre parti del nostro Paese ed inoltre, mancando la produzione dell’acciaio di Taranto e degli stabilimenti collegati, l’intera economia italiana subirà pesanti costi di approvvigionamenti a carico della bilancia commerciale. A questo riguardo gli oneri per il sistema italiano sono stati calcolati in almeno 10 miliardi di perdite che ridurranno ulteriormente il già calante PIL del nostro Paese. A ciò si aggiungono, ovviamente, i dolorosi costi sociali derivanti dall’ampliamento della Cassa Integrazione, nonché dalla perdita del potere d’acquisto delle famiglie.
Se davvero l’Italia perderà la possibilità di produrre all’interno del proprio territorio l’acciaio necessario alla sua industria trasformatrice, non sarà più il secondo Paese manifatturiero d’Europa (dopo la Germania) e finirà per essere un Paese periferico rispetto alla produzione industriale di una quantità di settori che ancora oggi sono in attivo grazie alla loro capacità di esportazione.
Già per colpa della suicida politica delle privatizzazioni ad ogni costo delle produzioni base – ricordiamo la fine della Olivetti e della Montedison – siamo stati privati di una forte industria chimica e dell’elettronica. Vogliamo chiudere anche l’industria siderurgica?
Gaetano Rasi