Invito il lettore prima di addentrarsi nella lettura di questo articolo, di soffermarsi su quanto ha scritto il fascista antifascista Giorgio Bocca nel suo “Storia dell’Italia partigiana”: <Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce>.
Oppure quanto scrisse, circa le conseguenze che la lotta partigiana poteva arrecare sulle popolazioni civili, il democristiano Benigno Zaccagnini: <La rappresaglia che veniva compiuta era un mezzo per suscitare maggiore spirito di rivolta antinazista e antifascista, e quindi si giustificava> (Dalla parte dei vinti di Piero Buscaroli).
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Siamo all’inizio dell’anno 2013 e nessuno può negare che, almeno in Italia, la situazione è catastrofica, come mai si è verificata nei decenni precedenti. In occasione della farsa dei festeggiamenti (non viviamo forse nell’era dell’immortale antifascismo? Ecco allora, festeggiare la sconfitta della nostra patria!) del 25 aprile e in questa occasione la presidente della camera, signora Laura Boldrini sentenziò che non esiste un fascismo buono. Queste parole sono state pronunciate in occasione della visita ad uno dei monumenti della lotta resistenziale: Marzabotto.
Marzabotto: allora vediamo cosa accadde a Marzabotto.
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Il film “Miracolo a Sant’Anna” di Spike Lee, in proiezione nelle sale cinematografiche italiane, ha sollevato un tale vespaio su fatti avvenuti nel lontano 1944, che avverto la necessità di riproporre un mio studio su quegli avvenimenti.
Come il lettore potrà constatare si tratta di Storia e come tale suffragata di documentazione e testimonianze.
Sono stati eventi veramente tristi, da qualsiasi lato li si vogliano esaminare.
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Qualche lettore avrà pur visto la trasmissione televisiva “Blu Notte” condotta dal bravo Carlo Lucarelli nella serata del 2 settembre 2007, dal titolo “L’armadio della vergogna”.
Lucarelli, tracciando la storia di questo “armadio tenuto nascosto” da decine di anni, attenzione! Dai Governi di Destra e di Sinistra, “armadio” che conterrebbe documenti sulle atrocità commesse dai nazisti e dai “repubblichini di Salò” (sic). Ebbene, Lucarelli ha toccato vari argomenti che vanno dalle stragi di Marzabotto alle Fosse Ardeatine, dall’Isola d’Arbe (perché Lucarelli non l’ha chiamata col nome di oggi: Rab e il racconto sarebbe stato più veritiero), ai gas gettati sugli etiopi, dal campo di Fossoli alle stragi della Xa Mas e così di seguito.
Ritengo opportuno, pertanto, prima di entrare in argomento presentare quanto andrò a scrivere in più capitoli, capitoli che saranno trattati nei prossimi numeri del giornale.
Cominciamo con. MARZABOTTO.
Lucarelli ha esordito affermando che alla strage hanno partecipato anche elementi della Xa Mas; è la stessa menzogna presentata da un collega di Lucarelli e precisamente da Arrigo Petacco. Ed ora entriamo in argomento.
Arrigo Petacco il 15 luglio 1989 presentò in televisione una delle settimanali trasmissioni “I giorni della storia”, la “storia delle mezze verità” naturalmente, la stessa “storia” presentata dal Lucarelli.
Sul video apparve una signora presentata da Petacco esattamente con queste parole: <La signora Clara Cecchin aveva otto anni il 19 agosto 1944, abitava a Valla, vicino S. Terenzio Monti, sulla strada per Marzabotto. Il suo paese fu visitato il 19 agosto 1944 dal famoso maggiore Reder dell SS con i suoi uomini e molti fascisti: G.N.R., Brigate Nere, forse anche Xa Mas che lo accompagnavano per fare quello che potete immaginare…>. A questo punto Petacco diede disposizioni di immettere, in video, un breve filmato sull’episodio, quindi riprese la trasmissione in diretta e riferendosi alle vittime disse: <Gente normale, bambini piccoli, anche feti, perché i fascisti e i tedeschi sventrarono anche alcune donne incinte. Sì, c’erano anche i fascisti e li comandava un certo Ludovici>. Indicando il nome “Ludovici”, Petacco passò dalla “mezza verità” che da sola è una menzogna, alla seconda “verità” che si trasforma in “Verità”. Se dimostrata.
Andiamo avanti. Petacco passò la parola alla signora Cecchin che testimoniò efficacemente il dramma da lei vissuto. In quel massacro dove persero la vita 107 persone la signora Cecchin fu l’unica miracolosamente sopravvissuta. Nella sua chiara e raccapricciante esposizione, sempre pungolata da Petacco, la signora Cecchin nominò sette volte i “tedeschi” e mai i “fascisti”. Terminata la testimonianza della superstite, Petacco riprese: <La lunga striscia di sangue tracciata da Reder e dai suoi dalla Versilia su in Lunigiana fino a Marzabotto, non fu un atto di ferocia gratuita, aveva un suo disegno strategico. I partigiani erano diventati una forza importante. Impegnavano tre divisioni tedesche e i tedeschi non avevano molte divisioni a disposizione sulla Linea Gotica, che era a ridosso della linea di sangue tracciata da Reder. Kesselring voleva avere le spalle al sicuro, quindi diede ordine a Reder di fare terra bruciata e spargere il terrore. I partigiani in quel momento erano già forti, potevano contare su circa 80.000 uomini impegnati in tutto il Nord Italia. Operavano ormai da mesi perché le prime formazioni erano nate subito dopo l’armistizio nel tardo autunno del ‘43>.
Nell’accusa lanciata da Petacco circa la presenza di “fascisti” nelle stragi, per quante ricerche abbiamo fatto, ci risulta che nessun “fascista” o componente dell’esercito della Rsi, abbia partecipato a quella serie di massacri.
Ne “I giorni dell’odio” pag. XXIV Alberto Giovannini attesta: <Uno degli episodi più noti della rappresaglia tedesca è rappresentato dalla strage di Marzabotto. Una cosa che al riguardo non è detta nella commemorazione ufficiale, è però che, con la popolazione locale, furono massacrati il cappellano delle Brigate Nere di Bologna e alcuni fascisti che, conosciute le intenzioni germaniche, si erano precipitati a Marzabotto per tentare, in qualche modo, se non di evitare, almeno di ritardare la feroce esecuzione di massa>. Mancano, purtroppo, più approfondite prove su questa interessante testimonianza. Infatti, se quanto riferito da Giovannini rispondesse a verità, si vorrebbe far passare per assassini, secondo la tesi di Petacco, coloro che, in effetti, sarebbero dei martiri.
Altra dichiarazione, simile a quella fornita di Giovannini ci viene riferita da Angelo Carboni nel “Elia Comini e i confratelli martiri di Marzabotto” pag. 86: <Un giovane, allora studente di Teologia, Alfredo Carboni, mi racconta come la vigilia di San Michele, il 28 settembre ’44, trovandosi nella località Fornace poco sotto la chiesa parrocchiale di Salvaro, un soldato della Guardia Repubblicana, già suo compagno di scuola alle elementari, di cui non può citare il nome, gli disse chiaramente: “O Alfredo, scappa e mettiti in salvo, perché domani ci sarà qui una tale razzia, che non resterà nemmeno il filo per tagliare la polenta”>. Frase caratteristica questa del nostro Appennino per significare che non sarebbe rimasto nulla.
Quale è stata la lunga striscia di sangue tracciata da Reder? Chi era Reder e quali furono le giustificazioni dei tedeschi per tante atrocità? Per una serena valutazione storica che non debba risentire di condizionamenti emotivi, è necessario immergersi in quel drammatico periodo che fu la guerra fra il ’43 e il ’45. In quegli anni l’attività partigiana si manifestava nel Centro Nord Italia con imboscate, attentati alle vie di comunicazione, colpi contro singoli soldati o civili. Questi fatti, che i partigiani chiamavano “azione di guerra” lasciano comunque comprendere le cause che portarono a spietate rappresaglie nell’Appennino emiliano, esattamente come attestato da Bocca e Zaccagnini. A seguito di queste “azioni di guerra”, il Maresciallo Kesselring, comandante supremo delle forze tedesche in Italia, lanciò, il 1° agosto 1944, un manifesto con il quale avvertiva che qualora quelle “azioni” fossero continuate di aver <impartito alle proprie truppe i seguenti ordini:
1) iniziare nella forma più energica l’azione contro le bande armate di ribelli, contro i sabotatori …
2) costituire una percentuale di ostaggi in quelle località dove risultano esistere bande armate e passare per le armi i detti ostaggi tutte le volte che nelle località stesse si verificassero atti di sabotaggio>.
Kesselring era un soldato d’onore, ma chi eseguì gli ordini non lo era.
Kesselring, nel compilare il sopraccitato ultimatum, si riferiva alle Convenzioni Internazionali firmate da quasi tutti i Paesi; tra questi la Germania e l’Italia. Dal volume “Diritto Internazionale” alla voce “Combattenti” fra l’altro si legge: <Sulla base delle Convenzioni de L’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre (…) si possono classificare quattro categorie di legittimi combattenti. Nella prima rientrano i militari delle Forze Armate regolari di uno Stato belligerante, purché indossino una uniforme conosciuta dal nemico, portino apertamente le armi, dipendano da ufficiali responsabili e dimostrino di rispettare le leggi e gli usi di guerra (…).
Gli illegittimi combattenti vengono dovunque perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti alla pena capitale. Nella guerra terrestre i franchi tiratori che operano nelle retrovie nemiche, infiltrandosi alla spicciolata sotto mentite spoglie, vengono passati per le armi in caso di cattura. Lo stesso dicasi per i “sabotatori”>.
Sempre dal “Diritto Internazionale”, voce “Rappresaglia”: <La rappresaglia si qualifica innanzitutto come “atto legittimo” (…). La rappresaglia condotta obiettivamente illecita, diventa, per le particolari circostanze in cui viene attuata, condotta lecita. La rappresaglia è, fondamentalmente una “sanzione”, cioè una reazione all’atto illecito e non un mero atto lecito, la cui liceità deriva dall’esistenza di un precedente atto illecito (,,,), Poiché la rappresaglia si pone come “risposta” ad un atto illecito, per essere legittima deve obbedire a queste condizioni: vi deve essere stata lesione di un diritto o di un interesse giuridico dello Stato autore e deve essere mancata la riparazione (…). Non può mai violare le leggi umanitarie, cioè fondamentali ed elementari esigenze di umanità (…). La scelta delle misure da infliggere spetta allo Stato offeso. Questo, però, prima di passare all’azione, deve assicurarsi che l’offensore non voglia o non possa riparare il danno (…). Compiuto inutilmente questi passi, potrà applicare le misure che meglio crederà, uniformando però la sua condotta alle condizioni di legittimità che abbiamo sopra esposte (…). La rappresaglia è, cioé, un atto di violenza isolato nel tempo e nello spazio, avente lo scopo di imporre il rispetto del diritto in relazione ad una violazione subita, sì che possa cessare appena riparata l’offesa. La nostra legge di guerra, approvata con R.D.8-VII-1938 n. 1415, regola poi la materia delle ritorsioni e delle rappresaglie in tempo di guerra con gli art.: 8-9-10, (1)”.
Come postilla è interessante riportare quanto previsto sempre dal “Diritto Internazionale”>.
<5 (…). L’art. 33 della IV Convenzione di Ginevra del 1949, in deroga a quanto prima era consentito dall’art. 50 dei regolamenti de L’Aja del 1899 e del 1907, proibisce in modo tassativo le misure di repressione collettive, di cui si ebbe abuso delittuoso nell’ultimo conflitto>. Dettato completamente dimenticato dai russi in Afghanistan, dagli americani in Corea, Vietnam, in Somalia e, ancor oggi in Irak; Afghanistan ecc., senza dimenticare le operazioni di spietata rappresaglia commessi dagli israeliani contro i palestinesi. Così si verifica che mentre si continua a condannare militari che operarono il “Diritto di rappresaglia”, quando questo era previsto dalle leggi, oggi, che è proibito “tassativamente” nessuno ne risponde ed il mondo si è dimenticato di quanto le leggi prescrivono.
Stabilite le parti essenziali del “Diritto Internazionale”, come si presentava il fenomeno partigiano nel territorio bolognese?
Le azioni partigiane, fra la fine del ’43 e gli inizi del ’44, furono isolate e a carattere individuale fino all’attentato condotto contro il Federale Eugenio Facchini, ucciso con sette colpi di pistola il 26 gennaio 1944 a Bologna.
Agli inizi di quell’anno i socialisti non disdegnavano di continuare il dialogo, iniziato da tempo, con esponenti della Rsi e si mantennero quindi decisamente neutrali. Furono i comunisti a prendere con decisione l’iniziativa di condurre la lotta contro il fascismo anche se, gradualmente seguirono tutti gli altri partiti, per non perdere l’opportunità di schierarsi dalla parte di coloro che avrebbero, poi, vinto la guerra.
Sulle montagne si organizzarono bande di partigiani, delle quali parleremo più avanti.
Nelle città i comunisti riuscirono costituire gruppi di guerriglia. Nei primi mesi del ’44, a Bologna, i comunisti, guidati da Giuseppe Alberghetti, nome di battaglia “Cristallo”, furono i primi a raccogliere adesioni per la nuova forma di guerriglia.
E’ opportuno riportare la tecnica adottata dai comunisti per radicalizzare la guerra civile, specialmente nell’Emilia e, come giustamente rileva Giorgio Pisanò nella sua “Storia della Guerra Civile in Italia”, a pag. 1162, osserva: <(…). Una tecnica che trova ancora oggi la sua spietata applicazione in ogni Paese del mondo dove i comunisti tentano la conquista del potere>.
Per capire con quale determinazione i comunisti applicarono quella “tecnica”, anticipiamo che nelle sole strade di Bologna furono uccisi, in attentati, più di 450 fascisti o “presunti tali”. I comunisti, con queste azioni, si aspettavano spietate rappresaglie, ma queste, sia per gli ordini di Mussolini, sia per il sangue freddo dimostrato dai Prefetti, furono rare e, in ogni caso, mai proporzionate alle perdite subite.
Per capire quale fosse la tecnica che i comunisti intendevano porre in essere, proponiamo un ampio stralcio del libro “7° Gap” di Mario De Micheli – Edizioni Cultura Sociale, Roma 1954: <Sin dall’ottobre 1943 il partito comunista aveva preso l’iniziativa di costituire le “Brigate d’assalto Garibaldi” e i “Gruppi d’azione patriottica”: le brigate dovevano operare sulle montagne, i gruppi dentro la città (…). I “Gap” dovevano essere gli arditi della guerra di liberazione, soldati senza divisa (…). Essi dovevano combattere in mezzo all’avversario, mescolandosi ad esso, conoscerne le abitudini e colpirlo quando meno se lo aspetta (…). I complici del fascismo e del tedesco non avrebbero più dovuto trascorrere i loro giorni indisturbati, in quiete e tranquillità; avrebbero, invece, dovuto vivere d’ansia, guardandosi continuamente attorno, trasalendo se qualcuno camminava alle loro spalle. Portare la morte a casa del nemico era insomma la direttiva con cui sorgevano i “Gap” (…)>.
Ecco come i capi comunisti riuscirono a superare gli scrupoli morali che nascevano negli animi dei componenti dei “Gap”: <(…). Creare la mentalità dell’attacco armato sull’uomo fu oltremodo difficile, occorreva vincere scrupoli e inquietudini morali oltreché il timore dello scontro diretto col nemico. Se può essere abbastanza semplice nel fuoco del combattimento, “a sangue caldo” diciamo, colpire e uccidere, non è altrettanto semplice colpire a sangue freddo con studio, premeditazione e calcolo (…). Il partito dovette, dunque, far sentire la sua volontà in maniera energica, dovette ancora una volta intervenire, illuminare, spiegare (…). E’ opportuno aggiungere che in quell’epoca non si era ancora creato quel clima di eroismo (?) che ha poi permesso tante memorabili gesta (…). Ai primi di gennaio, a Bologna, erano stati organizzati soltanto una decina di uomini con questi criteri. Dieci uomini divisi in due squadre. S’incominciò col deporre le bombe a scoppio ritardato nei luoghi di residenza del nemico. La prima bomba di questo tipo fu collocata alla finestra del Comando tedesco di Villa Spada, I tedeschi, che ancora non si attendevano colpi del genere in Bologna, furono irritatissimi. Lanciarono un manifesto carico di minacce e imposero il coprifuoco dalle 18 alle 6 del mattino: era il 18 gennaio (…)>.
E’ difficile credere che i capi e gli organizzatori di queste “eroiche” azioni non conoscessero quanto previsto nelle “Convenzioni Internazionali di Guerra” e le relative deliberazioni del diritto di rappresaglia. Tutto lascia credere, invece, che si volesse giungere ad estreme esasperazioni per ovvie finalità politiche che certi ambienti son riusciti, nel corso degli anni e sino ai nostri giorni, a così ben sfruttare.
Ecco in merito, qualora non fosse sufficiente quanto scritto dall’ex fascista ed ex partigiano Giorgio Bocca (in merito alla ricerca della rappresaglia) quanto si legge nel già citato “7° Gap”:<L’ostacolo più grande da sormontare per il timore delle rappresaglie contro la popolazione, il pensiero che per un’azione militare compiuta contro un tedesco o un fascista decine d’inermi e di innocenti sarebbero stati giustiziati. Allora non era ancora evidente a tutti che l’unico modo per stroncare il terrorismo (!) dei nazifascisti fosse quello di non dar tregua al nemico, di raddoppiare i colpi (…)>.
Così operavano i “gappisti” in città.. Come agivano invece, le «brigate» in montagna e principalmente nei più vicini contrafforti appenninici nei pressi di Bologna?
In questa località ed esattamente fra i fiumi Reno e Setta, operava, fra il settembre ’43 ed il settembre ‘44 la formazione armata dei partigiani della ”Stella Rossa”, denominata “Brigata” posta agli ordini di Mario Musolesi di anni 29. La leggenda racconta che (dalla citata opera “Storia della guerra civile in Italia” pag. 1176): «i partigiani si batterono con coraggio leonino contro le S.S. e difesero i monti di Marzabotto palmo a palmo, seminando il terreno di uomini caduti con le armi in pugno: anche il comandante della “Stella Rossa” restò fulminato da una raffica nemica; ma alla fine questi eroi furono sopraffatti e i superstiti riuscirono a stento a raggiungere le linee anglo-americane… i tedeschi si scagliarono come bestie feroci contro la popolazione civile della zona e 1850 innocenti caddero massacrati confondendo il loro sangue con quello dei gloriosi partigiani rossi…». A commento di quanto sopra Pisanò continua: «Ma se questa è la leggenda ben altra è la verità». Infatti la verità è completamente diversa. I partigiani uccidevano in agguati tedeschi isolati, fascisti in divisa e non. I tedeschi, guidati da Reder, regolarmente scagliarono la loro ira contro le popolazioni indifese e non solo nella zona di Marzabotto come vedremo appresso.
Si chiede Don Carboni nell’opera già citata (pag. 32): «Si era in tempo di guerra: la guerra ha le sue tremende leggi di sterminio e di vendetta: se ammazzate un tedesco (che importanza aveva l’ammazzare un tedesco nello svolgimento e nell’economia generale della guerra?) verranno fucilati dieci civili… Chi dobbiamo ringraziare noi, parenti delle vittime, delle reazioni tedesche? Non certo gli eroi che le provocarono e dopo si eclissarono dandosi alla fuga!». Questa è la domanda di don Carboni, giusta e naturale: «Che importanza aveva ammazzare un tedesco?».
Questa domanda va trasferita e analizzata nel contesto politico del disegno organico costruito dai più alti vertici del comunismo internazionale: uccidere un tedesco (o un fascista), attendere la rappresaglia e, di conseguenza, guidare il terrore e l’odio dei civili nella direzione desiderata e atteggiarsi, quindi, a giudici e vendicatori di tante vittime innocenti. Non possiamo che dar atto della loro cinica abilità.
Ma cosa accadde esattamente a fine settembre 1944 nella zona di Marzabotto?
Ancora dal volume “I confratelli Martiri di Marzabotto pag. 34: <Va pure ricordato che qualche giorno prima della strage qualcuno, segretamente, aveva avvertito la popolazione della imminente rappresaglia, ma quando si seppe che c’erano famiglie di agricoltori decisi ad abbandonare tutto, per mettersi in salvo, i partigiani li minacciarono con queste parole: «se non vi uccidono loro, vi uccidiamo noi se andate via: qui ci siamo noi a difendervi!» .
Questa testimonianza è stata resa da Bruno Paselli, agricoltore di San Giovanni di Sotto di Casaglia…».
Dato che i fascisti non parteciparono mai ad azioni di stragi. tralasciamo la lunga lista di “azioni di guerra” condotta dai partigiani nel colpire i militari fascisti (o supposti tali), in quanto desideriamo seguire la storia del maggiore Walter Reder e delle sue S.S., principalmente, ma non solo nella zona di Marzabotto.
La brigata partigiana “Stella Rossa” nella primavera del ’44 raggiunse la cifra di 500 effettivi. <Si trattava in gran parte di comunisti o simpatizzanti comunisti che non tardarono ad assimilare gli spietati sistemi di guerriglia instaurati dagli emissari del P.C.I.».
Gli attentati contro militari tedeschi iniziarono con proditoria sistematicità. A Rioveggio due ufficiali tedeschi stavano passeggiando con due ragazze. Furono presi alle spalle e uccisi. I nazisti concessero 24 ore affinché gli autori dell’attentato si presentassero, dopodiché scelsero 11 ostaggi. Da quel che si dice a Rioveggio gli attentatori erano del luogo, eppure lasciarono fucilare senza intervenire 11 innocenti.
I partigiani continuarono ad uccidere tedeschi e fascisti isolati.
Racconta Don Alfredo Carboni, parroco a Ronca di Monte S. Pietro. Di questi fatti poco eroici se ne verificarono decine. A Gabbiano di Monzuno, per esempio, due tedeschi che stavano acquistando uova dai contadini furono sorpresi da una pattuglia partigiana comandata da un certo “Aeroplano”. I tedeschi capirono subito di non essere in grado di opporre resistenza e alzarono le mani in segno di resa. Ma i comunisti spararono ugualmente uccidendone uno. L’altro venne trascinato prigioniero alla base partigiana. Conoscendo la ferocia dei guerriglieri il soldato tedesco tentò inutilmente di impietosirli mostrando anche le fotografie della moglie e dei suoi due bambini. Lo legarono con i piedi ad un paletto e gli inchiodarono le mani trafiggendole con due pugnali. Poi lo lasciarono morire così.
Il parroco di Riposa (un comune di Bologna), Don Libero Nanni, nativo del luogo dove si verificò un altro barbaro massacro, nel quale trovarono la morte anche suoi intimi parenti, si fece promotore di far erigere un tempietto titolato ”Monumento Sacrario ai Caduti di Piano di Setta”. Nel quarantesimo anniversario dell’eccidio fu scoperto un cippo marmoreo e una lampada votiva dalla fiamma sempre accesa. A ricordo dell’evento fu distribuito fra i presenti un foglio commemorativo ove fra l’altro si legge: <Una pagina di storia quasi dimenticata. “Nel lontano luglio del 1944, nel turbine della guerra sempre più distruttrice. l’alta valle del Setta e precisamente piano di Setta, fu scossa improvvisamente dalla feroce, fulminea, terrificante rappresaglia, che seminò morte, incendi, rastrellamenti”>.
Nella notte del 20 luglio, in un breve scontro fra partigiani e tedeschi (era una colonna che raggiungeva il fronte lungo la statale del Setta) ci furono feriti e morirono due tedeschi. Il 21 luglio trascorse lento e cupo; la mattina successiva si scatenò la rappresaglia: rastrellati gli uomini, razziato il bestiame, le donne e i bambini terrorizzati: gli anziani uccisi in un numero quasi imprecisato: forse 20. L’età? Dai 60 agli 80 anni!
<Tutta la valle fu percorsa dal pianto e dal terrore… Era la prima, grossa rappresaglia nella Provincia di Bologna, preludio alla grande rappresaglia di San Martino, Monte Sole, Casaglia, Gardelletta, Marzabotto, Pioppe di Salvaro, San Vincenzo, Piano di Setta – 15 luglio 1944».
Non si presentò alcuno a rivendicare la responsabilità dell’attentato né da parte dei partigiani fu tentato alcunché per salvare gli ostaggi>.
Il 23 luglio 1944 a Pioppe di Salvaro fu ucciso un altro tedesco. Furono rastrellati 10 infelici e uccisi a colpi di mitra. Né l’autore (o gli autori) dell’uccisione del tedesco, si presentò per salvare gli ostaggi né un colpo di fucile fu sparato dagli uomini del ”Lupo” per salvare quegli innocenti.
L’attività della Brigata partigiana “Stella Rossa” è un perpetrare di fatti del genere. Non va dimenticato che, nel frattempo, si susseguivano attentati mortali contro fascisti (o supposti tali) isolati. Ecco, ad esempio, quanto riporta uno dei “bollettini di guerra” diramato dalla “Stella Rossa”: <10 agosto: Una pattuglia del 4° distaccamento procedeva al fermo del fascista Bertoletti Duilio in località Farneto. È stato in seguito giustiziato»; “11 agosto: Una pattuglia del 1° distaccamento procedeva al fermo di un fascista repubblichino in permesso a Castel dell’Alpi. Veniva recuperato un moschetto con relative munizioni. Il fascista veniva più tardi passato per le armi”; ”14 agosto da una nostra pattuglia veniva catturato il fascista Zagnoni Lucio che veniva giustiziato”. E così di seguito. Tornando alle azioni che riguardavano la guerriglia contro i tedeschi, si legge sull’ ”Indicatore Partigiano” n. 4 del 1949, ove viene riportato uno dei «Bollettini di guerra» della ”Stella Rossa”: «1 agosto: Nostra pattuglia in servizio esplorativo si scontrava, nei pressi di Castel d’Alpe, con una pattuglia guardafili tedesca composta da un sottufficiale e un soldato. All’intimazione dell’altolà tentarono di fuggire. Venivano presi, interrogati e confessavano di trovarsi in servizio. Venivano passati per le armi». Pisanò osserva: «… lo strano principio, contrario alle norme e alle convenzioni accettate in qualsiasi Paese e da qualsiasi esercito, in base al quale dei soldati fatti prigionieri potevano essere fucilati perché ”confessavano di trovarsi in servizio”».
Ad ogni azione di questo tipo seguivano rappresaglie con incendi, distruzioni, massacri di ostaggi: sette fucilati a Molinelle di Veggio, dieci a Molpelle. Pochi giorni dopo tredici a Pontecchio di Sasso Marconi e così di seguito. Nessun partigiano osò alcunché per tentare di salvare quella povera gente. Eppure si trovavano nei pressi, ed erano numerosi.
Nel frattempo la guerra continuava e la pressione degli alleati, a sud di Bologna si stava intensificando: il comando tedesco aveva necessità di avere le spalle sicure e le strade senza minacce di attentati.
I tedeschi inviarono negli accampamenti dei partigiani della ”Stella Rossa” alcuni parlamentari con la proposta che, se i partigiani fossero rimasti al loro posto, senza intraprendere azioni di disturbo contro i tedeschi questi, a loro volta, si impegnavano a non iniziare alcuna rappresaglia.
I parlamentari tedeschi furono trucidati. Questo fatto indusse il Comando germanico ad agire con la più grande decisione.
E veniamo ai terribili giorni di fine settembre 1944 e alla cosiddetta “Strage di Marzabotto”.
Marzabotto fu insignita di Medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: «Incassata fra le scoscese rupi e le verdi boscaglie dell’antica terra etrusca, Marzabotto preferì ferro fuoco e distruzione piuttosto che cedere all’oppressore. Per quattordici mesi sopportò la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare la fierezza dei suoi figli, arroccati sulle aspre vette di Monte Venere e di Monte Sole sorretti dall’amore e dall’incitamento dei vecchi, delle donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovanetti, delle fiorenti spose e dei genitori caduti non la domarono ed i suoi 1830 morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l’amore per la Patria».
Abbiamo visto che alcune persone avevano preavvisato la popolazione dell’imminenza di un grande rastrellamento, dato che proprio in quei giorni nella zona di Marzabotto apparve un manifesto, un vero ultimatum, a firma delle SS und Polizeifuehrer-Oberitalien-West, ove, fra l’altro, era chiaramente indicato: «(…) 1) chi aiuta i. banditi è un bandito egli stesso e subirà lo stesso trattamento: 2) tutti i colpevoli saranno puniti con la massima severità (..). Gli autori degli attentati ed i loro favoreggiatori saranno impiccati sulla pubblica piazza. Questo è l’ultimo avviso agli indecisi …» Cosicché a seguito di questi ammonimenti la popolazione locale aveva iniziato ad allontanarsi dalla zona. Come abbiamo precedentemente indicato, i partigiani intervennero e proibirono a quella povera gente di mettersi in salvo costringendola a tornare indietro garantendo che, se i tedeschi l’avessero minacciati, i partigiani della ”Stella Rossa” l’avrebbero protetta.
Fra il 20 e il 25 settembre era affluita nella zona una formazione di ”SS PanzerGrenadieren” della divisione ”Reichsfuehrer”, ammontante ad 800 uomini circa. Alla loro testa era il maggiore Walter Reder.
Questi era un austriaco di 29 anni. Fu sospettato, a suo tempo, di essere coinvolto nell’assassinio del cancelliere Dollfuss nell’operazione nazista del 1934. Tentativo vanificato dal deciso e pronto intervento di Mussolini.
Durante l’estate del ’44 la brigata “Stella Rossa” aveva raggiunto una forza di 1500 uomini, ben armati e riforniti dai continui lanci aerei degli alleati.
La strage avvenne, come detto, sulle alture delimitate dai fiumi Reno e Setta e prese il nome da Marzabotto.
I tedeschi iniziarono i rastrellamenti all’alba del 29 settembre, bruciando e massacrando senza distinzione di sesso e di età: Cresta di Gizzana, 81 morti; Canaglia, 148; Casa Benuzzi, 38; Caprara di Marzabotto, 107; S. Giovanni, 47; Cradotto, Prunaro e Steccala, 145: Cerpiano, 49; Sperticano, 13; Pioppe, di Salvavo, 48. In totale 676 morti. E mentre si perpetravano questi eccidi dove erano i 1500 partigiani?
Va detto che gli uomini del ”Lupo” (Mario Musolesi) negli ultimi giorni del settembre ’44 erano in attesa dell’arrivo degli alleati. Avevano allentato la vigilanza e tutti si erano dati a libagioni, bevevano e dormivano con le loro donne, convinti ormai che, per loro, la guerra era finita.
All’attacco dei tedeschi i partigiani, anche per l’allentata cautela, non tentarono alcuna difesa e, mentre alcuni si ”ritirarono” verso Monte Sole, altri fuggirono verso le linee alleate. Chi difese i civili dalla rabbia teutonica? Ecco quanto racconta il partigiano Guerrino Avani in ”Marzabotto parla”, nelle pagine 46-47: «Prima dell’alba del 29 settembre, assalita da soverchianti forze nemiche la brigata si trovò stretta in una morsa di fuoco. Dopo alterne vicende, una parte di noi fu asserragliata sulla cima scoperta di Monte Sole, chiusa in una trappola impossibile da infrangere date le nostre scarse forze (?) in confronto al numero e all’armamento del nemico… Dalla cima del monte, col binocolo seguivo i movimenti dei ”nazifascisti” (?). Appena giorno, avevo contato 54 grandi falò di case isolate o a gruppi, bruciare intorno, vicino e lontano. Dal mio posto di osservazione vidi quanto i nazisti fecero nel Cimitero di Casaglia, la gente ammucchiata fra le tombe e loro che preparavano le mitraglie. Provammo a sparare, ma la distanza era troppa per un tiro efficace (perché non si avvicinarono? n.d.r.) … Vidi cinque nazisti trascinarsi dietro sedici donne legate una all’altra con un grosso cavo; una stringeva al petto un bimbo di pochi mesi… Era per noi straziante assistere a fatti simili, impotenti a intervenire e tale visione terribile era più debilitante che il fuoco nemico»..
Ecco il giudizio nel già citato volume di Angelo Carboni, a pag. 50: «(…). La verità è una sola: i partigiani della “Stella Rossa” provocarono coscientemente le rappresaglie tedesche, lasciando incoscientemente che le SS massacrassero centinaia di civili né mai poterono ritornare sui luoghi seminati dalle vittime da loro provocate».
Per una più esatta valutazione delle persone che componevano la brigata ”Stella Rossa” va ricordato che, “come qualcuno ha raccontato”, ai primi colpi dell’attacco tedesco, alcuni partigiani, approfittando della occasione, uccisero il loro capo Mario Musolesi detto ”Lupo” per rubargli un tesoro che questi aveva accumulato per distribuirlo, diceva, a guerra finita, per alleviare le sofferenze di coloro che, dalla guerra, avevano subito più dolorose conseguenze. Quindi è una mistificazione quello che sostengono i partigiani e, cioè che il Lupo cadde combattendo eroicamente per contrastare l’attacco delle SS.
Altra montatura riguarda il numero dei caduti nell’”Eccidio di Marzabotto” indicato in 1830 vittime, cifra imposta dai partigiani a guerra finita. Ma la mistificazione apparve palese quando risultarono fra le vittime, persone ancora in vita, caduti nella prima Guerra Mondiale, deceduti per polmonite o per bombardamenti e, addirittura, nomi di fascisti uccisi durante (e dopo) la guerra civile.
Scrive al riguardo Pisanò, a pag. 1136 dell’opera già citata: «E sufficiente del resto una rapida visita al Sacrario inaugurato a Marzabotto nel 1961 per rendersi conto della mistificazione comunista. Nel Sacrario, infatti, sono raccolte solo 808 salme. Di queste. però, 195 sono di persone che morirono per scoppi di mine, e di militari deceduti nella Prima Guerra Mondiale: solo circa seicento appartengono a vittime del massacro…».
I1 primo ottobre 1944, quindi a poche ore dall’eccidio, il Rag. Grava, segretario comunale di Marzabotto, inviò un dettagliato rapporto alle autorità di Bologna e si presentò al vice prefetto De Vita che non credette al racconto del Grava e minacciò di farlo arrestare.
Il povero segretario comunale di Marzabotto descrisse con tanta concitazione «lo spettacolo terrificante» da non essere creduto, tanto che lo stesso ”Resto del Carlino” smentì «(…) le solite voci incontrollate prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra (..).». Oppure ordini superiori imposero di sconfessare, quanto, in effetti, era avvenuto.
Ma molti profughi, fuggiti dalle zone colpite dalle rappresaglie, si riversarono nelle città del Nord e quelle notizie non poterono non giungere sino a Mussolini.
A questo punto, per meglio fotografare i fatti nel loro insieme, riteniamo opportuno tornare indietro nel tempo e ripartire dal momento dell’arrivo in Italia di Reder nel maggio 1944. Reder è reduce dal fronte russo ove ha lasciato il braccio sinistro e, per questo, veniva soprannominato ”il monco”.
Inizialmente il suo reparto, il 16° battaglione della 16a divisione ”SS Panzer Grenadieren Reichsfuehrer”, si schiera sul fronte di Cecina-San Vincenzo (Livorno) quindi, a seguito della sia pur lenta, ma persistente pressione degli alleati, segue il ripiegamento delle linee germaniche. Il 25 luglio Reder è sull’Arno, il 9 agosto è a Pietrasanta. Qui il suo reparto è ritirato dal fronte e riceve l’ordine di tener ”pulito” il retrofronte. Così inizia la marcia dell’orrore e sangue che lo guidò dalla Toscana all’Emilia sino a Marzabotto.
12 agosto: Sant’ Anna di Stazzema (Lucca) e zone circostanti, 560 morti. 19 agosto 1944: Bardine S. Terenzio: a seguito di un attacco di partigiani ad un camion tedesco che procurò ai nazisti la perdita di 16 militari, furono uccisi 53 civili.
Nello stesso giorno giunsero a Valla 107 persone (solo 5 uomini) posti sotto un pergolato e fucilati: in totale 160 innocenti trovarono la morte. Il conto esatto: 10 per ogni tedesco ucciso. Inutile ricordare che non solo non sì presentò mai alcun autore degli attentati alle autorità tedesche per salvare gli ostaggi, ma mai si arrischiò un intervento, da parte dei partigiani, per tentare di difendere i paesi ed evitare le rappresaglie.
24 agosto 1944; Vinca, Gragnola, Monte di Sopra, Ponte di Santa Lucia, Branza di Cucina; in questa zona, sembra che non ci fossero partigiani, così almeno attestava la sentenza di condanna di Reder: <(…) non c’erano partigiani, non c’erano combattimenti… c’era soltanto povera gente terrorizzata…». I tedeschi passarono per le armi chiunque incontravano.
17 settembre 1944: Bergiola (Carrara). Anche se non risulta che Reder in persona prendesse parte attiva alle stragi di questa zona, è certo che il suo reparto ne fu artefice. 107 persone furono trucidate lungo le sponde del Frigido. A Bergiola 72 le vittime, in maggioranza donne e bambini. (2)
E, infine, 29 settembre 1 ottobre: Marzabotto. E così il cerchio si chiude.
Ė doveroso ricordare che fra le tante centinaia di vittime di quei tristi giorni: 95 erano sotto i 16 anni, 110 sotto i 10 anni, 22 di 2 anni, 8 di un anno e, addirittura, 15 lattanti.
Il 4 agosto nel ricevere l’ordine di Kesselring di adottare contromisure nell’attività partigiana, il generale Wolf – responsabile delle azioni antiguerriglia – compilò una circolare che terminava: «L`onore del soldato richiede che ogni misura di repressione sia dura, ma giusta».
Da quello che abbiamo visto la repressione risultò al di là del limite della schizofrenia omicida e, quindi, decisamente ingiusta. Il grado di brutalità raggiunto forse è conseguenza non intenzionale di una operazione intenzionale. Ma le vittime innocenti furono reali; ed è altrettanto reale che tutto fu pianificato per cercare e procurare rappresaglie per un preciso e ben disegnato scopo politico.
Abbiamo visto con quale criterio i tedeschi intendevano la rappresaglia; e la voce di tante atrocità giunse fino a Mussolini, il quale il 17 agosto inviò una lettera all’ ambasciatore Rahn, con la quale protestava violentemente per le azioni poste in essere dalle S.S.. Nella lettera Mussolini evidenziava i rapporti provenienti dalle province colpite e così esponeva il suo pensiero (stralcio dalla lettera): «… Dall’insieme delle segnalazioni che vi ho fatto in questa lettera, ne risulta che bisogna finirla con le requisizioni indiscriminate che hanno ridotto alla miseria intere province, finirla con le rappresaglie indiscriminate … insomma bisogna dare ai 22 milioni di italiani della valle del Po la sensazione che esiste una Repubblica, un Governo e che tale Governo è considerato alleato e il suo territorio non è una “preda bellica” dopo 12 mesi dal riconoscimento ufficiale da parte del Reich… Occorre quindi che questo sistema sia cambiato, poiché in questa maniera non si riesce a distruggere la piaga del ribellismo, ma si fanno dei nuovi clienti al ribellismo stesso e si allontanano le simpatie di quelli rimasti a noi fedeli».
Questa lettera di Mussolini trovò riscontro e simpatia in Kesselring che emanò, il 22 agosto, nuovi ordini per reprimere, o almeno, moderare il furore dei suoi soldati. Egli faceva rilevare, fra l’altro: «(…) Le misure di rappresaglia i cui effetti si ripercuotono in ultima analisi sulla popolazione civile anziché sui ribelli. In dipendenza di codeste azioni si è venuto a cancellare in molti la fiducia nelle Forze Armate Germaniche… Sin da questo momento bisogna che i capi preposti alle azioni di rastrellamento ricevano precise istruzioni circa il modo di agire contro la popolazione civile di paesi infestati dai ribelli e circa le misure di rappresaglia da adottare contro i banditi… In linea di massima le misure di rappresaglia devono colpire soltanto i ribelli e non la popolazione civile innocente. A questo riguardo mi appello al senso di responsabilità dei singoli comandanti…».
Abbiamo visto come le azioni con attentati e colpi di mano da parte dei partigiani siano continuate e come da parte tedesca si sia risposto disattendendo, completamente, gli ordini di Kesselring del 22 agosto.
Proprio nel mezzo delle nuove, dissennate rappresaglie tedesche il 15 settembre Mussolini inviò una nuova, secca nota di protesta all’ambasciatore tedesco Rahn: «Ho lo stretto dovere e insieme il più profondo rammarico di dovervi segnalare un’altra serie di episodi di rappresaglia avvenuti in questi ultimi tempi in diverse parti del territorio della Repubblica, ad opera di reparti militari o di polizia germanici. Richiamo soprattutto la vostra attenzione sul fatto che sono stati uccisi molte donne e molti bambini e incendiati interi paesi gettando nella disperazione più nera centinaia di famiglie. Credevo che la circolare diramata in data 22 agosto dal Feldmaresciallo Kesselring avrebbe posto fine alle rappresaglie cieche, ma debbo constatare che si continua con lo stesso sistema … Come uomo e come fascista io non posso più a lungo sopportare la responsabilità, sia pure soltanto indiretta, di questo massacro di donne e di bambini (…)>.
Purtroppo, nonostante i ripetuti e decisi interventi di Mussolini presso Rahn, le azioni di repressione continuarono con sanguinoso crescendo fino ai massacri della zona di Marzabotto.
Una ancora più violenta protesta di Mussolini chiamò in causa direttamente Hitler; questi predispose una commissione d’indagine composta di varie personalità diplomatiche e di alti ufficiali i quali. iniziarono immediatamente le indagini.
Al termine di tali indagini, la commissione provvide alla sostituzione del Comandante militare della piazza di Bologna con la motivazione di aver tenuto nascosti i fatti. Nella relazione della commissione, fra l’altro, era scritto: «…(i tedeschi sono dispiaciuti che) qualche donna o bambino siano morti a Marzabotto, ma si è trattato soprattutto di fatalità, dato che si trovavano asserragliati nei rifugi dei partigiani».
Questa parte della relazione non è davvero una valida giustificazione per la folle e, soprattutto indiscriminata vastità delle stragi, però, non possiamo non ricordare, ancora una volta, che nel momento in cui i civili tentarono di fuggire dalla zona, che poi sarebbe diventato il teatro delle stragi, i partigiani della ”Stella Rossa”, lo impedirono minacciandoli e rassicurandoli: «Se non vi uccidono loro vi uccidiamo noi se andate via: qui ci siamo noi a difendervi»!
E, dato che abbiamo visto quanto sia falsa quella promessa («noi a difendervi»!) e tutto lo svolgersi delle azioni successive, non può non far nascere l’atroce sospetto che quella minaccia-promessa sia servita solo perché i partigiani della ”Stella Rossa” intendessero farsi scudo di poveri innocenti.
Altra obiezione potrebbe nascere spontanea; perché alle prime notizie di indiscriminate stragi Mussolini non inviò nelle zone ”a rischio” elementi militari della RSI per proteggere dai tedeschi (e dai partigiani) le popolazioni minacciate? La risposta può risultare ovvia: Mussolini doveva evitare che la già difficilissima convivenza con ”l’alleato” degenerasse sino allo scontro armato; cosa che, se questo si fosse verificato, si sarebbe esteso nel resto dell’Italia del Nord con sviluppi imprevedibili. È da notare, infatti, che i combattenti repubblicani schierati nei vari fronti, dalla Liguria alla Dalmazia, ignoravano quello che i tedeschi stavano commettendo ai danni della propria gente. È facilmente immaginabile quali sarebbero state le conseguenze se le notizie fossero giunte in tutti i reparti. Riteniamo che per questo motivo Mussolini abbia preferito tenere le notizie circoscritte il più possibile.
Gli effetti dell’ armistizio dell’8 settembre concedevano a Mussolini ristretti margini di manovra, ma si deve pur riconoscere che, anche se tali, seppe responsabilmente sfruttarli. E quali furono le ultime ”azioni” di Reder? Questi, a seguito della firma della resa delle truppe tedesche, fuggì in Baviera e fu, dopo pochi giorni, catturato dalle truppe americane a Salisburgo.
Il governo Badoglio aveva spiccato, sin dal gennaio 1945, ordine di cattura con l’accusa di ”criminale di guerra”. A carico di Reder pesavano accuse per sterminio di ebrei, fucilazioni di comunisti polacchi e partigiani russi.
Reder fu consegnato alle autorità italiane e fu processato dal Tribunale militare di Bologna. La condanna, emessa nel 1951, fu l’ergastolo. Nell’aprile del 1967 Reder si rivolse alla popolazione di Marzabotto, dichiarandosi pentito. Il Consiglio comunale di Marzabotto, ascoltati i parenti delle vittime e i superstiti, rifiutò la liberazione.
Una serie di petizioni, provenienti dalla Germania, dall’Austria e dall’Inghilterra riproposero la grazia per Reder. Questa grazia fu concessa dopo alcuni anni e dopo lunghe insistenze e reiterate dichiarazioni di pentimento.
Concludiamo ricordando la requisitoria nel processo di Bologna del Pubblico Ministero, Maggiore Stellacci che disse fra l’altro: «…Il soldato si distingue dagli assassini perché ha un senso del limite della propria azione».
Giudizio che ci trova assolutamente consenzienti; ma, se deve essere punito colui che commette il male, altrettanto colpevole è colui che potendo evitare che il male venga commesso, non si adopera a questo scopo. Più spregevole poi è colui che, per il raggiungimento di una determinata finalità, opera affinché il male venga posto in essere.
1) Cfr. Luisa Dinando, ass. Diritto Internazionale Università di Torino.
Reder non prese parte attiva, secondo le testimonianze rese dal partigiano Giannardi, <al processo contro lo stesso Reder. Il responsabile principale dei massacri fu il tenente Fischer>. Reder fu assolto da altre imputazioni.