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Federico Dal Cortivo per Europeanphoneix ha intervistato Marco Della Luna, autore del libro “ “Traditori al governo? Artefici , complici e strategie della nostra rovina”.

L’Italia è oramai da anni sotto attacco, non militare, non c’è ne bisogno essendo la penisola dalla fine della Seconda Guerra Mondiale occupata militarmente dagli Stati Uniti, ma economicamente.

Gli obiettivi  fin troppo chiari,distruggere completamente il sistema Italia che era fatto anche d’imprese anche a partecipazione statale , lo Stato sociale, le   regole del mondo del lavoro, la previdenza pubblica e la sanità, la scuola e l’università dello Stato  e infine mettere le mani sul nostro patrimonio economico,  colonizzando definitivamente la penisola.

D: Avv. Della Luna lei ha recentemente pubblicato un saggio da titolo eloquente, Traditori al governo? , nel quale analizza in modo esauriente le dinamiche e i personaggi che hanno portato la nostra nazione al punto in cui si trova oggi dopo l’ultimo governo tecnico di Mario Monti . Quali sono stati a suo avviso i passaggi fondamentali che ci hanno portato alla situazione attuale di grave crisi economica?

R: Le principali tappe della rovina voluta, e finalizzata a dissolvere il tessuto produttivo del paese, desertificandolo industrialmente e assoggettandolo alla gestione via centrali bancarie fuori dai suoi confini, onde farne territorio di conquista per capitali stranieri, sono i seguenti:

1) la progressiva e totale privatizzazione-di­vorzio dal Ministero del Tesoro della pro­prietà e della gestione della Banca d’Italia, con l’affidamento ai mercati speculativi del nostro debito pubblico e del finanziamento dello Stato (operazione avviata con Ciampi e Andreatta negli anni Ottanta);

2) l’immediato, conseguente raddoppio del de­bito pubblico (da 60 a 120% del pil) a cau­sa della moltiplicazione dei tassi, e la crea­zione di una ricattabilità politica strutturale del Paese da parte della finanza privata;

3) la svendita agli amici/complici e ai più ricchi e potenti, stranieri e italiani, delle industrie che facevano capo allo Stato e che erano le più temibili concorrenti per le grandi indu­strie straniere;

4) la privatizzazione, con modalità molto “riserva­te”, ma col favore di quasi tutto l’arco politico, della Banca d’Italia per mezzo della privatizza­zione delle banche di credito pubblico (Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Banca Nazionale del Lavoro, Credito Italiano, con le loro quote di proprietà della Banca d’Italia);

5) la riforma Draghi-Prodi che nel 1999 ha autorizzato le banche di credito e rispar­mio alle scommesse speculative in derivati usando i soldi dei risparmiatori e alle car­tolarizzazioni di mutui anche fasulli, come i subprime loans americani;

6) l’apertura delle frontiere alla concorrenza sleale dei paesi che producono schiavizzan­do i lavoratori e bruciando l’ambiente;

7) l’adesione a tre successivi sistemi monetari – negli anni Settanta, Ottanta e Novanta – che impedivano gli aggiustamenti fisiologici dei cambi tra le valute dei paesi parteci­panti – anche l’Euro non è una moneta, ma il cambio fisso tra le preesistenti monete – con l’effetto di far perdere competitività, industrie e capitali ai paesi meno compe­titivi in favore di quelli più competitivi, che quindi accumulano crediti verso i primi, fino a dominarli e commissariarli.

Da ultimo, le misure fiscali del governo Monti-Napolitano-ABC, che, tra le altre cose,  hanno depresso i consumi,hanno messo in fuga verso l’estero centinaia di miliardi, svuotando il paese di liquidità;  hanno distrutto il 25% del valore del patrimonio immobiliare italiano, paralizzato il mercato immobiliare così che imprese e famiglie non possono più usare gli immobili per ottenere credito, e l’economia è rimasta senza liquidità, con insolvenze che schizzano al 30% e oltre..

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L’Istituo Biggini invia a tutti gli amici e a coloro che frequentano questo sito i più fervidi auguri di Buona Pasqua, che sono quanto mai appropriati perché intendono far riferimento, oltre che ai sentimenti religiosi, anche a quelli che si riferiscono all’auspicio della resurrezione dell’Italia.

E’ inutile descrivere la situazione attuale, che può essere sinteticamente riassunta nella prospettiva ravvicinata riguardante il crollo del regime politico nato dopo la Seconda guerra mondiale. All’esaurimento dei presupposti politici si aggiunge anche quello della Costituzione varata nel 1948 e ormai rivelatasi incapace di rispondere alle esigenze del popolo italiano inserito in una Unione Europea ancora incapace di essere protagonista nel mondo globalizzato.

Come probabilmente sanno anche gli amici dell’Istituto Biggini, il CESI è impegnato nel preparare un Appello  per aprire una autentica fase costituente e nell’elaborare un Manifesto per la rifondazione dello Stato.

Intanto pubblichiamo qui di seguito una nota pasquale del prof. Carlo Vivaldi Forti del Consiglio Direttivo del CESI.

G.R.

Un interessante intervento di Carlo Vivaldi-Forti pubblicato sul sito del Cesi

Innanzitutto  Buona Pasqua a tutti Voi  e alle Vostre famiglie. Richiamo quindi la Vostra attenzione  sulla situazione  di pre-guerra civile  che esiste  non soltanto  in Italia  ma in gran parte d’Europa.  Ultimo episodio  la rapina  a mano armata  contro i ciprioti,  che segna  la fine dell’Europa  esistita  fino ad oggi.

Da noi  non si riesce a formare un governo  per l’intolleranza  ideologica  degli ex-comunisti,  ma se anche  per avventura  si arrivasse a una coalizione  PD-5Stelle, questa rappresenterebbe una catastrofe senza precedenti  per il Paese, l’economia e le libere istituzioni. Un governo  di ex-comunisti  arrabbiati  e di  extra-parlamentari  di sinistra  darebbe l’ultima legnata  sulla testa alla società italiana,  aprendo un periodo di violenza  generalizzata. D’altra parte,  le prospettive quali sono? Tornare a votare?  Meglio  di un eventuale  governo Bersani-Grillo di sicuro,  ma l’elettorato  si  spaccherebbe  ancora una volta in tre , magari  a percentuali invertite,  ma non  sufficienti a garantire  un esecutivo stabile.  Un governo  di emergenza  con tutti dentro,  sostenuto  da una  maggioranza  assembleare?  Possibile  in teoria,  ma  in pratica  si dissolverebbe  di fronte  al primo provvedimento  fiscale  non condiviso . La politica  tradizionale  si trova perciò  in un  vicolo cieco.

Dopo tanti anni  di furbizie ,  compravendite di parlamentari, tradimenti  e trasformismo, la crisi  ci ha messo  oggi di fronte a una  situazione  non più  risolvibile secondo i parametri della vecchia politica. Ci troviamo,  mutatis mutandis,  nella stessa situazione  della Francia del 1958,  quando la crisi algerina travolse  le sclerotiche  istituzioni  della Quarta Repubblica  spalancando le porte  alla Quinta  e a de Gaulle.

Abbiamo  noi  oggi un de Gaulle a portata di mano? Apparentemente  no , ma spesso è la storia che crea il personaggio,  non viceversa. E’ certo , in ogni caso, che  nessuna prospettiva  di governo  si apre  con le regole  della Costituzione  attuale.  Lo stesso  bipolarismo  si rivela  un’arma spuntata,  in quanto  la divisione  dell’elettorato, in tre terzi  o due quarti  che sia,  paralizza ogni scelta. Inoltre, ci troviamo assediati  da una  malavita  finanziaria  internazionale  che si è  impadronita delle stesse istituzioni  comunitarie  e che sta preparando l’esproprio  generalizzato di quel poco che resta  del risparmio  degli italiani. Provvedimento che innescherebbe una immediata  guerra civile.

Per uscire da questo incubo , purtroppo molto realistico, esiste una sola alternativa  percorribile: cambiare la Costituzione,  rendendo effettiva la sovranità popolare  mediante appositi istituti  di democrazia diretta ,  l’elezione del capo dello Stato  a suffragio universale e la seconda Camera a rappresentanza di categorie.  Esclusivamente così  si può restituire autentica governabilità  alla società  post-industriale e della globalizzazione . Soltanto quando  questo nuovo assetto istituzionale  si sarà esteso all’intera Europa  potremo davvero  riprendere il cammino  della unificazione  continentale  e dirci con orgoglio europeisti.

Teniamo  inoltre presente  che la soluzione proposta da talune forze  politiche ,  sinistre e Lega in testa,  di trasformare  il Senato in una Camera delle  Autonomie,  è totalmente  inefficace,  in quanto  sposta semplicemente  l’ingovernabilità  dal livello centrale a quelli periferici, lasciando  però  irrisolto  il vero problema,  ossia l’esistenza  di una partitocrazia  corrotta,  venduta  alla mafia  e ai poteri forti.

Nel richiamare la Vostra attenzione  su questa  situazione drammatica,  Vi propongo  di organizzare in tempi brevi, in ogni caso prima d’estate, una  Convenzione  nazionale  dedicata  all’argomento  GOVERNABILITA’ O RIVOLUZIONE ,  o qualcosa di simile.

Attendo in merito  Vostre osservazioni .

Le Regioni sono uno dei tabù del sistema costituzionale italiano. Non è concesso parlarne male (salvo poi prendere atto dei gravi scandali che le hanno colpite negli ultimi anni). Ancor meno evidenziarne l’inefficienza. Proibito chiedere un allineamento tra Regioni “ordinarie” e Regioni a “statuto speciale” (con la conseguente perdita di privilegi da parte di quest’ultime).

Ad essere onesti, evitando sul tema la retorica che ne ha accompagnato, nel 1970, l’istituzionalizzazione, le Regioni non sembrano avere realizzato, in questo quarantennio, l’auspicata riforma politico-amministrativa del sistema-Italia. Al contrario, viste le difficoltà di bilancio e di capacità di governo del territorio manifestate, esse si sono trasformate in una sovrastruttura burocratica, costosa ed inefficiente.

Lo confermano gli studi della Società Geografica Italiana, che da anni sta analizzando la nascita, la crescita e il reale impatto delle Regioni sull’assetto nazionale, denunciando come esse siano – di fatto – degli enti “artificiali”, dei semplici compartimenti statistici, elaborati a tavolino. A queste “elaborazioni statistiche” si adeguò l’ Assemblea Costituente (1946-1948) fissando i confini dei nuovi enti e le stesse denominazioni, non basandoli su motivi storici o economici e nemmeno culturali, con il risultano di creare dei piccoli mostri amministrativi, disomogenei, spesso ipertrofici. Da qui la proposta choc della Società Geografica: abolire tutte le Regioni, anche quelle a statuto speciale, accorpando le province e trasferendo ad esse i poteri regionali.

La proposta dei geografi nasce dagli studi che, negli ultimi vent’anni, la Società Geografica ha sviluppato a partire dal “progetto 80”, (un documento che fu redatto dalla parte più sensibile e innovativa dei territorialisti che, a metà degli anni Settanta, pensò di ridisegnare l’assetto italiano per adeguarlo alla modernizzazione del sistema insediativo e dell’apparato produttivo).

Le ragioni del territorio si sommano ad oggettivi risparmi economici. Basti considerare che l’abolizione delle Regioni rispetto a quello delle province porterebbe a 182 miliardi di risparmi contro 11. Infine c’è la possibilità, definendo i nuovi enti territoriali (35 secondo le previsioni) sulla base dell’omogeneità storica, geografica ed economica, di costruire reti infrastrutturali (legate alla mobilità, ai trasporti e alle comunicazioni), presenti sul territorio o in avanzata fase progettuale incrociate con le interazioni tra l’ambiente e la società secondo un modello geografico in progressiva evoluzione.

In una fase di ripensamento degli assetti socio-economici e politico-istituzionale del nostro Paese, la scelta coraggiosa proposta dagli studiosi della Società Geografica dovrebbe agitare il confronto piuttosto che essere relegata nelle notizie minori.

Della retorica sul regionalismo gli italiani sono stanchi. Di false promesse sulle istituzioni “vicine” ai cittadini non ne possono più. Se il metro di giudizio per le istituzioni, locali e nazionali, deve essere l’efficienza, il rigore, la capacità gestionale, è tempo che ogni retorica venga abbandonata e con essa un modello regionale che non è mai decollato. Abolite le Regioni, si dia voce ai territori, quelli veri, piuttosto che i soffocanti apparati burocratici, soffocanti, inefficienti e spendaccioni.

Viktor Orban

L’Ungheria ha modificato la sua Costituzione chiudendo ogni possibilità di dialogo con l’Unione europea e l’Occidente, e muovendosi ancora sulla linea di autarchia voluta dal premier conservatore, populista e nazionalista Viktor Orban. Senza curarsi dei richiami di Bruxelles, delle accuse dell’opposizione e delle proteste di piazza, il Parlamento di Budapest ha approvato con 265 voti a favore, 11 contrari e 33 astensioni alcune significative modifiche che in una sorta di golpe bianco danno più poteri al governo, riducono la possibilità di intervento della Corte costituzionale che nonostante la presenza sempre più forte di membri nominati dal partito di governo Fidesz, ha avuto fin qui un ruolo importante nel frenare le leggi più controverse dettate da Orban. Solo una settimana fa Orban aveva messo sotto tutela anche la Banca centrale ungherese, nominando il suo braccio destro, Gyorgy Matolcsy, alla guida della Banca centrale del Paese.

Gli emendamenti decisi dal governo e approvati ieri dall’Assemblea, una quindicina di pagine in tutto, limitano le competenze della Corte costituzionale che potrà intervenire solo su questioni procedurali e non di merito, cancellando inoltre tutte le pronunce della stessa Corte precedenti all’entrata in vigore della nuova Costituzione all’inizio del 2012.

Ma il voto di ieri introduce anche alcuni elementi che mettono a rischio i principi di democrazia e di rispetto dei diritti umani nel Paese. Il nuovo testo costituzionale così come è uscito ieri dall’Aula limita anche l’indipendenza degli organi di giustizia, prevedendo la facoltà di spostare con maggiore facilità i processi in corso da una sede all’altra; criminalizza i cittadini senza fissa dimora; riduce l’autonomia delle università e la libertà dei cittadini laureati, obbligandoli a lavorare per dieci anni in Ungheria; e nega i diritti dei conviventi, in quanto riconosce per legge la famiglia unicamente come un legame costituito dal matrimonio tra un uomo e una donna.

Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso e il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbiorn Jagland, si sono detti «preoccupati» per la nuova svolta di Budapest: «Gli emendamenti destano preoccupazione per quanto riguarda il principio dello stato di diritto, del diritto europeo e degli standard del Consiglio d’Europa», si legge in una nota congiunta, nella quale si chiede alle autorità di Budapest – dimostrando tutta l’impotenza dell’Unione in situazione come queste – di avviare «contatti bilaterali con le istituzioni europee per venire incontro a ogni preoccupazione per quanto riguarda la compatibilità di questi emendamenti con i principi e il diritto dell’Unione europea».

Al momento del voto i deputati socialisti all’opposizione sono usciti dall’Aula del Parlamento nel quale dopo il trionfo elettorale del 2010 il Fidesz, il partito di Orban, ha una maggioranza superiore ai due terzi dei seggi. La protesta si organizza nelle strade di Budapest per chiedere al presidente Janos Ader di porre il veto alle modifiche costituzionali. «È l’ultimo momento in cui si può fare qualcosa. Il capo dello Stato non dovrà firmare, e la Corte deve pronunciarsi prima che questa facoltà le sia tolta», ha detto l’ex presidente della Repubblica ungherese, Laszlo Solyom.
Dal partito di Orban rispondono rivendicando il diritto di «rivoltare il Paese come un calzino», come del resto lo stesso premier aveva promesso agli elettori tre anni fa. «Nonostante il chiasso internazionale e interno è naturale che la maggioranza di governo usi il mandato ricevuto con elezioni democratiche», ha detto Gergely Gulyas, uno dei “colonnelli” del Fidesz.

Sabato 23 marzo 2013, alle ore 15.00, presso il Cimitero Monumentale di Milano, l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (ANAI presieduta dal Comandante Pierpaolo Silvestri) e la Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana (UNCRSI presieduta dal Comandante Armando Santoro) renderanno onore, come tutti gli anni, agli Squadristi milanesi del Fascio Primigenio (morti combattendo, per l’Italia, contro la sovversione, e sepolti presso il Monumento ai Martiri della Rivoluzione Fascista), ed alla tomba del “poeta armato” Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Movimento Futurista.

Nella relazione del CESI “La partecipazione del cittadino alla gestione dell’impresa e nella rappresentanza politica”, stesa a seguito del successo dell’Appello ai candidati alle recenti elezioniper un Patto sulla partecipazione, un paragrafo è stato dedicato (come può vedersi in altro punto di questo sito) ad alcune aziende italiane che già stanno attuando, sia pure in maniera diversa, ma sempre in questa direzione, forme di collaborazione più stretta fra i fattori della produzione – capitale, lavoro, tecnica ed organizzazione – ciascuno dei quali non può essere considerato egemone ed esclusivo ai fini dei risultati produttivi.

In questa fase estremamente interessante per le modifiche strutturali che sta avendo l’intero sistema socioeconomico si sta inserendo la FIAT e ciò contrariamente a quanto si può pensare a causa della disattenzione dei mass-media che cavalcano i soliti stereotipi classisti. Naturalmente il percorso è legato ai problemi mondiali della crisi, alla grande competitività nel settore automobilistico, alla rigidità oligarchica e conservatrice dell’azione di alcuni sindacati.

Tuttavia la strada, per altro già accolta dal documento intersindacale che abbiamo pubblicato in altro paragrafo, sempre sulla citata relazione, rimane quella del progressivo maggior coinvolgimento del fattore lavoro in tutti i suoi livelli di responsabilità nel processo produttivo.

Pubblichiamo, pertanto, un interessante articolo sull’argomento di un esperto di organizzazione aziendale, il dott. Giorgio Giva, dal titolo: “Il contratto FIAT innova le relazioni industriali: costi invariati per l’azienda, più soldi in busta”, che appare contemporaneamente anche sul sito FIRSTonline.

Scarica l’articolo

L’Appello del CESI ai candidati nelle recenti elezioni per un “Patto sulla partecipazione” ha avuto un vasto eco sia in adesioni personali che in riscontri in documenti ed articoli riguardanti i positivi aspetti sociali ed economici.

E’ ora che le forze politiche della cosiddetta “Destra Sociale” e comunque provenienti da mature esperienze politiche Msi, Msi-dn e An si mobilitino in forma unitaria ed identitaria anche a proposito dell’istituto della cogestione.

L’individuazione dei ponti nodali per il nostro sviluppo di Nazione nell’ambito europeo e la conseguente necessaria mobilitazione di alternativa, sono ormai obiettivi ineludibili in previsione dell’imminente crollo del sistema del parlamentarismo partitocratico. La cogestione, come motore del progresso sociale ed economico, è uno dei punti nodali come obiettivo sul quale raccogliere consensi.

Il CESI pubblica qui di seguito due articoli: uno del Presidente Rasi che riassume la documentazione in materia, sia per quanto riguarda i precedenti storici, sia per quanto riguarda i recenti, significativi indirizzi di importanti organismi di categoria e di imprese italiane che hanno anticipano al loro interno l’introduzione dell’istituto della partecipazione dei lavoratori ai risultati economici dell’impresa.

Un secondo articolo, di notevole interesse, è quello dell’esponente del nostro Centro Studi, il dott. Gian Galeazzo Tesei, un manager di vaste esperienze aziendali e di forte sensibilità politica, il quale, fa una rapida, ma incisiva panoramica della problematica pendente.

Premessa.

L’iniziativa del CESI, Centro Nazionale di Studi Politici, deliberata il 19 gennaio e lanciata il 23 successivo, di un Appello a tutti i candidati alle prossime elezioni politiche per sottoscrivere un “Patto per la partecipazione” (vedi sito CESI) ha trovato numerosissime adesioni ed ha anticipato significative dichiarazioni analoghe da parte di organizzazioni imprenditoriali, dei dirigenti d’azienda, nonché di appartenenti ai sindacati dei lavoratori.

Si rende pertanto necessario approfondire la materia sia per quanto riguarda le origini che per quanto si riferisce agli sbocchi che si intravedono.

In questa direzione vi erano state in passato autorevoli indicazioni da parte di singoli esponenti del mondo imprenditoriale e giornalistico le quali avevano sostenuto, appunto, che l’introduzione dell’istituto della cogestione e della partecipazione agli utili, non solo riguarda la giustizia sociale, ma anche il progresso economico al fine di aumentare la produttività dell’intero sistema, la sua efficienza nella competizione mondiale e l’aumento della disponibilità monetaria delle famiglie dei lavoratori ai fini della ripresa della domanda aggregata per combattere la recessione.

Vale la pena, pertanto, di fare anzitutto una sintesi storica di questa proposta istituzionale che è destinata a caratterizzare fortemente un sistema politico ed economico alternativo all’attuale. Quello della cogestione, infatti, è un istituto che rientra in un complesso istituzionale coerente, di politica economica non solo di breve periodo, ma che si inserisce costituzionalmente in un indirizzo di sviluppo strutturale valido nel medio-lungo periodo con forti riflessi nel progresso civile della società.

1. Lineamenti per una storia della cogestione nella seconda metà del secolo scorso.

Anzitutto va osservato che tale indirizzo, nel tempo, si è andato precisando perché costituisce la definitiva uscita dalla concezione della lotta di classe per radicare quella della collaborazione organica fra capitale e lavoro. Inoltre, essa si caratterizza come punto essenziale di una nuova fase storica volta al superamento dei vari capitalismi finanziari, avventuristici e meramente individualistici, dopo il fallimento delle concezioni del collettivismo statalista e degli indirizzi social-comunisti.

Non può non essere ricordato, pertanto, che l’Italia, anche a questo riguardo, è stata antesignana. Infatti va segnalata quella fondamentale iniziativa di civiltà che fu proposta il 26 dicembre 1946, nel Manifesto fondante del MSI, dove, al punto VIII, si proclamava che nel nuovo Stato vi doveva essere «completa collaborazione fra i vari fattori della produzione attribuendo ai sindacati dignità e responsabilità di istituzioni pubbliche ed effettiva compartecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda e al riparto degli utili».

Così pure non può essere dimenticato che, successivamente, in tutti i documenti conclusivi dei Congressi tenuti da quel partito, tra i capisaldi progettuali fu indicata la necessità dell’introduzione dell’istituto della cogestione e della partecipazione agli utili dei lavoratori, nonché della partecipazione dei sindacati datoriali e dei lavoratori alla programmazione concertata dell’economia nazionale[1].

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Le leggi sul lavoro determinano lo sviluppo

Anche chi non segue con particolare attenzione le vicende complesse e a volte drammatiche della grande crisi italiana dei nostri giorni ha comunque chiaro sentore della centralità e della criticità delle leggi sul lavoro, delle leggi cioè che disciplinano i rapporti tra i lavoratori ed i datori di lavoro e che determinano aspetti fondamentali della vita dei cittadini e dello sviluppo dell’economia. Problemi come quelli del precariato, dei contratti a termine o a tempo indeterminato, della cosiddetta flessibilità in entrata ed in uscita, della riforma dell’art. 18 o ancora problemi più vasti come il livello di disoccupazione o come quello della stagnante produttività del sistema economico italiano sono direttamente o indirettamente condizionati dalle modalità di approccio ai rapporti di lavoro.

Tale aspetto cruciale della vita economica e sociale della Nazione può essere profondamente innovato e sostanzialmente migliorato con l’introduzione dell’istituto della cogestione nel nostro ordinamento giuridico. L’idea base della cogestione , come è anche intuibile, concerne l’associazione dei lavoratori alla conduzione dell’impresa e comporta quindi la loro responsabilizzazione, la loro partecipazione alle decisioni di investimento e di ordinario esercizio costituendo con ciò anche la premessa per la condivisione diretta dei benefici e delle difficoltà dell’impresa stessa. La condivisione dei benefici concerne chiaramente la partecipazione alla distribuzione degli utili e dei dividendi mentre la condivisione delle difficoltà in tempo di crisi può comportare la ripartizione paritaria del minor lavoro tra i soggetti interessati (da contrapporre ad esempio alla messa in cassa integrazione, cioè all’espulsione a volte temporanea e a volte no, di una aliquota dei lavoratori normalmente impiegati).

2° Concretezza della cogestione

Occorre chiarire che nelle attuali condizioni economiche e sociali dell’Italia e dell’ Occidente in generale la cogestione è ben lungi oggi dal costituire un sogno utopistico . L’innalzamento del livello culturale della popolazione nel suo complesso, la diffusione di mansioni lavorative complesse esercitate da operatori in condizioni di sempre maggiore autonomia, lo svuotamento delle ideologie marxiste sulla lotta di classe che contrapponevano in modo

preconcetto lavoratori da una parte e “padroni” dall’altra rendono oggi concrete ed attuali le aspirazioni ad una più stretta collaborazione tra “produttori” a livello di azienda con reciproci e generali vantaggi. Tale collaborazione ha assunto nei vari paesi forme diverse: nei paesi anglosassoni ad esempio , più culturalmente legati al modello capitalistico classico, si è diffuso l’azionariato popolare, la detenzione cioè di azioni del capitale dell’impresa da parte dei dipendenti che però in concreto, almeno sinora , ha riguardato soprattutto le fasce alte del personale , dirigenti aziendali in particolare ; tale soluzione però chiaramente non incide nell’ordinamento della governance aziendale e per quanto positiva ai fini di una maggiore motivazione dei soggetti coinvolti non incide significativamente nel miglioramento delle relazioni industriali.

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