Sarzana – “Non voglio e non mi interessa fare polemica, il convegno di sabato è un evento scientifico che ricorda un uomo conosciuto e stimato in tutta Italia e non voglio che abbia una connotazione politica”. Carlo Alberto Biggini, vice presidente dell’Istituto e omonimo nipote dell’ex ministro della cultura durante il fascismo al quale Sarzana dedicherà tre distinti momenti di ricordo nel fine settimana, interviene così sulla polemica che nelle ultime ore ha coinvolto diverse realtà politiche e non.
“Mi spiace – sottolinea a CDS – che si sia discusso anche della presenza del sindaco Alessio Cavarra che voglio invece ringraziare pubblicamente per la disponibilità dimostrata. Verrà a rappresentare la città in un momento di ricordo per uno dei suoi figli più importanti, proveniente da una famiglia che le ha dato molto. Mi è sembrato giusto invitare il primo cittadino, persona educata e sensibile, come ritengo normale che venga a portare i suoi saluti come faranno molti altri personaggi illustri e come prima di lui hanno fatto nel 1996 anche Lorenzo Forcieri, con un lungo intervento, e Franco Franchini”.
“Mio nonno è stato un fascista e ha avuto il coraggio di esserlo fino all’ultimo giorno della sua vita – sottolinea ancora Biggini – ma prima di tutto è stato un italiano che fino alla fine ha lavorato per il bene del suo Paese. Ha prodotto saggi e contribuito a salvaguardare larga parte del nostro patrimonio artistico fra cui Palazzo Pitti – di cui nel convegno parlerà la dottoressa Franchi – così come salvare la vita di figure come Meneghetti e Bobbio. Pur essendo stato fedelissimo a quella parte politica il suo operato è stato sempre rivolto agli altri, nella sua vita non c’è una sola macchia. E’ stato pluridecorato in guerra dove ha combattuto con onore, così come il più giovane rettore dell’Università di Pisa contribuendo anche alla stesura della prima carta istituzionale. A Sarzana ha creato il liceo Parentucelli e ovunque è riconosciuto all’unanimità per il suo comportamento retto, nessuno può accusarlo di nulla”.
Carlo Alberto Biggini junior ribadisce quindi di non voler ribattere agli attacchi ricevuti, soffermandosi invece sulla figura del nonno e i contenuti dell’appuntamento di sabato: “Non è certo colpa sua se la sua morte (avvenuta il 19 novembre 1945) coincide oggi con il settantesimo anniversario della Liberazione. La connotazione politica è fuori luogo e inadatta visto che l’Istituto ha sempre lavorato sull’aspetto scientifico della sua attività caratterizzata sempre da una grandissima onestà di cui parleranno persone come Pippo Peschiera, uno dei più autorevoli professori di diritto del lavoro che fu gambizzato dalle Brigate Rosse, o Edigio Banti e Domenico Fisichella. Nel 1995 in un convegno promosso dall’Università di Genova vennero a parlare di lui anche il futuro sindaco Pericu e Fausto Cuocolo. Ci tengo – afferma – a ricordare mio nonno per quello che è stato e ha dato al suo Paese, un uomo inserito nel Dizionario bibliografico degli italiani della Treccani, che ha avuto fra i suoi allievi Ciampi, Maccanico e Merli e al quale Sara Perego ha dedicato una tesi. Tutti gli atti del convegno – annuncia – saranno riassunti in un testo che andrà a tutte le università e credo che questo dia il senso di un incontro che non ha nulla a che vedere con l’appartenenza politica. Dopo così tanti anni ai giovani bisognerebbe insegnare a guardare gli avvenimenti della storia senza odio, prendendo solo il buono di quello che è stato fatto, pensiamo ad essere italiani e a rispettare i nostri concittadini. Spero – conclude – che proprio i più giovani non seguano queste polemiche soffermandosi invece sul valore degli uomini e auspico che sabato non si verifichino atteggiamenti sopra le righe”.
Mercoledì 18 novembre 2015, dal quotidiano on line “Città della Spezia”
La Spezia – “La partecipazione del sindaco di Sarzana Cavarra al convegno sul fascista Biggini è un atto grave”.
Non usa mezzi termini Matteo Bellegoni, segretario della Camera del Lavoro della Spezia, e continua: “I rappresentanti delle istituzioni democratiche dovrebbero essere i primi custodi dei valori della Costituzione, della Resistenza e dell’Antifascismo. E’ inaudito che il sindaco Cavarra partecipi ad un convegno su un personaggio che è stato fascista ed addirittura sostenitore della repubblica di Salò, tanto più in una città come Sarzana, tra le città italiane che più si sono distinte nella lotta al nazi fascismo. Dispiace, e fa tristezza, che l’attuale sindaco si presti ad una palese operazione di revisionismo storico, dimenticando il conteso culturale ed i valori da cui proviene. Un pessimo esempio per i cittadini di Sarzana, specialmente per le nuove generazioni. Da parte nostra, invitiamo l’Anpi ed il Comitato della Resistenza, che hanno il dovere politico e morale di vigilare sulla difesa dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana, a fare sentire forte la propria voce.”
Mercoledì 18 novembre 2015, dal quotidiano on line “Città della Spezia”
Lontano dall’Italia da oltre trent’anni – salvo periodici rientri di poche settimane – soffro come quasi tutti gli italiani residenti all’estero del “mal di Patria”; un male prodotto da quella nostalgia che il dálmata Niccolò Tommaseo nel milleottocento definí: amore struggente di Patria lontana.
La mia nostalgia risale alla sua radice semasntica, dove riecheggia il vocabolo greco nostos che – trasformando il desiderio della patria lontana in un percorso come quello del mitico Enea – lenisce lo strappo delle origini, la lontananza dalla terra natía trasformandola in un ponte lanciato sulla sponda del nuovo approdo, dove il processo di dislocazione conserva tuttavia la memoria delle origini.
Nel caso specifico il mio “mal di Patria” si fa piú intenso, a causa delle vicende sulle quali gli italiani ben nati si arrovellano con rabbia e per le quali l’odierna Italia non mi piace. E a non piacermi non é solo l’Italia delle ricorrenti tangentopoli della corruzione politica e mafiosa che ne corrode il territorio, le coscienze e lo spirito. Non mi piace l’Italia festaiola delle lotterie e degli insulsi concorsi a premio che la Rai-TV diffonde sulle vie dell’etere presentando a tutto il mondo l’immagine fittizia di un Paese che sembra cullarsi nell’incoscienza colettiva e nell’evasione ludica mentre tutto gli sta crollando attorno. Certo chi visita spesso l’Italia sa perfettamente che l’immagine televisa che corre per il mondo non corrisponde all’Italia reale che, nonostante l’irresponsabilità della classe dirigente al potere, lavora in condizioni difficili per risalire dalla terribile crisi socio-economica e civile che attanaglia le famiglie, le piccole e medie imprese, la scuola, che nega un futuro alle giovani generazioni e getta nella miseria generazioni di pensionati, che induce alla fuga all’estero le migliori energie del paese impoverendolo intellettualmente e professionalmente.
Né mi piacciono quegli intellettuali italiani che, per fuggire dalla triste realtà odierna, cercano un rifugio consolatore nella lontana memoria del sacro romano impero, il cui pallido riflesso è custodito nella tomba viennese di Cecco Beppe, penultimo imperatore di una tramontata “Austria felix”; nè coloro che stanno imbastardendo con vocaboli stranieri (soprattutto con anglicismi) la nostra lingua. Antico vizio nostro, purtroppo, già denunciato a suo tempo da Vincenzo Gioberti (1801-1852) quando considerava costume indegno, basso e vile il “trasandare la propria loquela ed il vezzo di parlare o scrivere, senza bisogno, la lingua forestiera” ; mentre Giacomo Leopardi (1798-1865) aggiungeva, a sua volta, che “la lingua, l’uomo e le nazioni per poco sono la stessa cosa”.
Né mi sento partecipe di quello “spiritaccio” che induceva il pratese Curzio Suckert-Malaparte a considerarsi discendente dai longobardi di Borgo al Cornio che fu il nocciolo di Prato, per cui – sempre secondo il Curzio Malapratese – pensavano di nulla dovere “al solito Mario, al solito Silla, al solito Cesare”. Per la mia discendenza toscano-emiliana mi sento invece vincolatissimo con i soliti Mario, Silla e Cesare perchè non posso espellere le mie solide radici italiane dal quell’ inconscio collettivo di quella atavica “Italica Gens” che assieme agli antichi romani contribuí alla formazione del popolo italiano, se é vero che l’Italia – specificamente come patria – è anche e soprattutto la sua Storia.
Ma la Patria, per la indubbia derivazione sua dal vocabolo latino pater, si puó definire non solo come “terra dei padri”, ma altresì come il luogo dove spiritualmente, e non solo materialmente, si nasce e si cresce. Di conseguenza, si puó convenire, con l’abate Gioberti, che l’Italia contemporanea più che patria, intesa nel senso attribuitole dagli antichi Greci – luogo cioè di vita morale e culturale, ispiratore di una comune fede civica, generetrice del cittadino adulto – è Matria: terra matrice, bália degli italiani delle generazioni dell’ultimo secolo, rimasti all’età infantile. Si tratta di un infantilismo non ingenuo, invece assai malizioso, affiorato nel cinquantennio a cavallo tra il XXº secolo, ormai tramontato, ed il XXIº da poco iniziato, che segna il fallimento della patria italiana in quanto luogo di crescita culturale e spirituale; fallimento dovuto alla rottura di quell’unità metafisica tra popolo e patria per cui “noi apparteniamo alla patria e la patria appartiene a noi” e di cui ha parlato a suo tempo il filosofo tedesco Eduard Spranger.
Personalmente ritengo responsabili di tale fallimento le varie istanze dell’educazione (famiglia, scuola, classe poplitica) che, pur in diversa maniera, tutte hanno abdicato al loro compito esistenziale ed istituzionale o – quel che è peggio – lo hanno svolto secondo un rovesciamento di principi e valori, le cui conseguenze negative emergono quotidianamente in quell’entità che la classe dirigente dominante identifica come Paese, vergognandosi di chiamarla con il nome vetusto che – come scrisse a suo tempo il poeta romano Virgilio – “dagli Enotri nomossi: or, com’è fama, preso d’Italo il nome, Italia s’è detta” (Eneide, IIIº, 164).
L’Italia, dunque – che si espanse dalle radici degli Enotri – e della quale, come italiano all’estero, quotidianamente sento l‘assenza, perchè mi sento geneticamente radicato in essa, e sulla quale mi arrovello con passione perchè – anche se oggi non mi piace com’è stata ridotta – non potró mai spogliarmi di essa finché conserverò la consapevolezza delle mie radici storiche e spirituali.
Già suo tempo, il nostro Niccoló Machiavelli dichiarava all’amico Francesco Vettori, d’amare la patria piú dell’anima, lasciando, già nel XVº secolo ai posteri l’alta visione di quel moto di formazione delle nazioni per cui la piccola patria antica si allarga poi a nazione moderna per affermarsi quindi come Stato nazionale nella prima metà del secolo XXº.
Bisogna rifarsi dunque all’avveniristica lezione del geniale segretario fiorentino per sensibilizzare quegli italiani che sono sopinti alla disperazione dalla crisi attuale e sognano antistoriche ed utopistiche tentazioni d’indipendentismo regionale; e riproporre ad essi la rifondazione morale e la reintegrazione politica dell’Italia contemporanea. Come ricordava puntualmente Marcello Veneziani in un coraggioso articolo del 14 febbraio 2014, dove – rivolgendosi agli italiani del Veneto – li invitava ad abbandonare la rabbia utopica della secessione, ammonendoli che: “Non si reagisce alle crisi e al malgoverno sfasciando il Paese. Una Patria non è un contratto che cambia gestore se l’offerta non è più generosa. Una patria è una storia da cui provieni, la geografia in cui ti muovi, la lingua che parli, l’arte che vedi, la terra degli avi, i loro sacrifici, tuo padre, tua madre. Difendere oggi l’Italia nella sua unità, è difendere la civiltà italiana”.
Solo la pertinace diseducazione verso l’Italia, Nazione-Stato – sintesi di libertà-autorità, maestà-diritto, costituita dalla forza, dall’intelletto e dalla fiducia degli italiani – può indurre qualche nostro compatriota, per incosciente che sia del suo status storico giuridico a sostenere, in odio alla prepotenza di una classe politica squalificata, che “dal 1866 la nazione veneta è oppressa dallo Stato italiano”, confondendo rozzamente i termini di popolo e nazione e scambiando quindi il primo con il secondo.
Infatti mentre esiste un popolo veneto, accanto ad un popolo lombardo, piemontese, sardo, napoletano, pugliese, siciliano, ecc. – (inteso il vocabolo “popolo” come sininimo di “gente”) – esiste solo una Nazione Italiana.
La Nazione italiana esiste, sotto il profilo socio-culturale, almeno da tremila anni, secondo l’ affermazione dell’autorevole sociologo Franco Ferrarotti raccolta dal settimanale L’Italia del 20 gennaio 1993.La Nazione Italiana- spiegava allora Ferrarotti – ha radici antropologiche profondissime.
Da qui l’esigenza di riscoprire, soprattutto per gli italiani d’Italia, il significato di patria e l’urgente vigenza del suo valore, il recupero della sua missione comune nel patrimonio culturale e storico della nazione italiana mediante la sua riaffermazione unitaria nella Stato. Anche questo da rifondare nel contesto della realtà attuale dove il senso dello Stato, deformato a statalismo dagli abusi burocratici, va restituito alla sua essenza originaria: quale unità di destino delle diversità d’origine e di costume delle genti italiche; e quindi espressione dell’ordine giuridico che il popolo si da per presentarsi con onore tra gli altri popoli della terra, come ha insegnato sapientamente Romano Guardini, un italiano di cultura germanica, nato a Verona nel 1885 e trasferitosi all’età di cinque anni in terra tedesca, seguendo suo padre, nominato console a Magonza del giovane Regno d’Italia.
L‘urgenza della Patria s’impone soprattutto in tempi come questi, quando gl’italiani sembrano rincorrere solo i richiami delle suggestioni e degli egoismi locali; e s’impone come voleva Giuseppe Mazzini – ripreso un secolo dopo dall’alto magistero di Giovanni Gentile – intendendo la Patria “anzitutto come conscienza della Nazione”.
Nei suoi Scritti editi ed inediti, Mazzini, a proposito della Patria avverte: “Il suolo che calpestate ed i limiti che la natura pone tra la vostra terra e quella del prossimo, e la dolce lingua che in essa risuona, non sono che la forma visibile della Patria.Ma se l’anima della Patria non palpita in questo santuario della vostra vita che ha nome coscienza, questa forma resta simile ad un cadavere inanimato. E voi siene una tomba anonima, una massa d’individui, non un popolo. La Patria è la fede nella Patria. Quando ciascuno di voi abbia questa fede e sia disposto a dare il suo sangue per essa, solo allora possederete la Patria, non prima”.
Insomma la Patria vive nella fede di chi la vuol far vivere, sicchè non esiste nazione e patria dove non esiste la volontà d’essere nazione e patria, cioè una “identità nazionale” che in Italia ha sempre costituito “un riferimento ambivalente ed ambiguo” come osservava ancora il Ferrarotti.
Ora da tale ambiguitá si puó uscire solo con una educazione nazionale spinta in profondità. Ma dal 1945 in poi, l’educazione nazionale è stata sostituita da una anodina “istruzione pubblica” che non osa educare le giovani generazioni italiane (abbandonate alle peggiori influenze straniere) nella fierezza delle radici, nell’orgoglio del nostro patrimonio storico, nel culto dei simboli della Patria.
Nei Paesi dell’America Latina – meglio definita dalla sapienza dell’italo-argentino Carlos Alberto Disandro (1919-1994), quale “America Romanica – non c’è cerimonia scolastica od atto civico che non s’apra con l’alzabandiera e l’esecuzione corale dell’inno nazionale.
Il ballo nazionale cileno d’origine popolare (la cueca), si concludecon l’omaggio alla bandiera. Nella principale “avenida” di Buenos Aires campeggia un gigantesco cartellone dove si legge: Argentina, te quiero (Argentina, ti amo!).
Manifestazioni simili, sono inimmaginabili nell’Italia contemporanea dove il tricolore s’esisbisce poco e l’inno nazionale s’intona distrattamente negli stadi solo in occasione di partite di calcio a livello internazionale.
Qui consiste il punctum dolens: l’identità italiana s’è interrota da quando la volontà d’essere patria e nazione s’è spenta nel rinunciatarismo implicito nel processo mal condotto di una unione europea sollecitata dalle illusoni di un consumismo materialista omologato all’occidentalismo nordamericano.
Mancando questa volontà, gl’italiani oggi sono tutti orfani, specialmente quegli italiani che le dure vicissitudini della vita hanno spinto sulle vie del mondo. Infatti per gli italiani emigrati, la patria assente produce un senso di sradicamento che – specie per i figli degli italiani all’estero – significa il rischio di un assorbimento irreversibile nel contesto socioculturale nei Paesi d’accoglimento.
In tempi di fughe nell’oblio o, peggio, di diserzione come quelli in cui viviamo, la fedeltà alla Madre Patria costituisce la sola salda premessa per la rinascita della coscienza civica nazionale.
L’Italia perenne risorgerà a nuova vita feconda solo quando tutti gli italiani affronteranno i problemi comuni, profondamente contagiati – come noi – dal mal di Patria.
Santiago del Cile, maggio 2015.
Primo Siena
Italiano all’estero dal 1978
Alcuni lettori ricorderanno la mia risposta ad un malato di antifascismo pubblicata in uno dei numeri precedenti de Il Popolo d’Italia, nella quale avevo preannunciato un elenco parzialissimo del male che fece Benito Mussolini al popolo italiano.
Ripeto ancora una volta che di economia ne capisco poco, ma quel poco mi induce a ritenere che la soluzione dei mali che attualmente ci rendono la vita impossibile, ebbene – e lo ripeto – la soluzione, o almeno una soluzione parziale si trova nel periodo del male assoluto (che sempre sia benedetto). Nonché un’altra soluzione, anch’essa almeno parziale, della disoccupazione si trova anch’essa sempre nel mai sufficientemente deprecato Ventennio (che sempre e ancora sia benedetto), con l’anarchia, cioè bastare a se stessi, promuovendo, esaltando e incoraggiando il lavoro italiano.
Sia chiaro un principio: quel che faccio e quel che scrivo sull’ argomento non è per nostalgia (pur avendo vissuto “uno spicchio” di un periodo esaltante e irripetibile), ma per contribuire alla giusta rivalutazione di un grande uomo quale fu Benito Mussolini.
In occasione delle Ferie di Augusto e delle tradizionali manifestazioni preconciliari per l’Assunzione della Santa Vergine Maria al Cielo, il Reparto A.N.A.I. “Pierino Maruffa” di Nettunia, con il contributo della locale Pro Loco, ha provveduto al consueto restauro conservativo del Monumento ai Caduti di Vindoli di Leonessa (Rieti).
Il manufatto riporta i nomi di sei vindolesi caduti per la grandezza d’Italia nella Prima Guerra Mondiale e il nome di un disperso della Seconda, Paolo Teodoli, sacrificatosi nella Crociata contro il bolscevismo in terra di Russia.
La meritoria iniziativa ha assunto un valore simbolico molto importante in vista delle celebrazioni del 100° anniversario dell’entrata in guerra del Regno d’Italia. Il Primo conflitto mondiale, infatti, oltre ad assicurare la libertà e l’indipendenza della nostra Patria col raggiungimento delle sue frontiere naturali (Brennero e Montenevoso), rappresentò – soprattutto – l’atto di nascita della nostra Nazione come Stato cosciente di una propria missione e di un primato da esercitare nel mondo.
Un’iniziativa che serve soprattutto per combattere il pacifismo da parrocchia che sta asfissiando le cerimonie per il 100° anniversario della Grande Guerra, umiliando il sacrificio degli Italiani e gli stessi eroi delle nostre Forze Armate, oggi ridotte a una sorta di incrocio tra protezione civile missionaria e Croce Rossa in gonnella.
L’A.N.A.I., invece, con le sue manifestazioni intende ricordare insieme alle tradizioni guerriere del popolo italiano, l’epopea dei Reparti d’Assalto come simbolo e modello di ogni vero Esercito.
Al termine della manifestazione, sono state distribuite le onorificenze dell’Ordine dell’Aquila Romana ai camerati dell’Altopiano leonessano che si sono distinti con il loro fattivo supporto al Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti.
Primo Arcovazzi
Se ne è andato così come aveva vissuto, in silenzio. Una vita particolare quella di Ferdinando Gandini, residente da anni ad Anzio (Roma). A guardarlo somigliava a un nonno come tanti, ma la sua vita custodiva un’esperienza straordinaria. Come tutti i nostri nonni aveva combattuto per la grandezza dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, ma la sua storia aveva qualcosa di diverso da raccontare. Gandini la storia, quella con la “s” maiuscola, l’aveva cominciata a scrivere quando era riuscito ad arruolarsi volontario, a soli sedici anni, nei Battaglioni M della Milizia fascista, i più valorosi reparti delle Regie Forze Armate impegnati nel Secondo conflitto mondiale. Con loro aveva combattuto una guerra senza tregua in Albania, rimanendo anche ferito in combattimento, fino al dramma dell’8 Settembre, il vergognoso tradimento monarchico, la firma della resa senza condizioni e il conseguente passaggio al nemico. Per un ragazzo come Gandini, educato ai valori del Risorgimento e all’amor di Patria, la scelta era già scritta. Mentre tutti i soldati italiani scappavano, scelse di continuare a combattere e si aggregò al primo reparto tedesco di passaggio. La sorte volle che si trattasse della Divisione SS Leibstandarte “Adolf Hitler”. Inquadrato in questo reparto d’èlite, tra i migliori dell’Esercito germanico, combatté per la libertà d’Europa contro gli invasori angloamericani in Normandia e, successivamente, contro la barbarie sovietica che si apprestava ad inghiottire nel terrore e nella misera la radiosa Ungheria. Sopravvissuto all’immane conflitto, non rinnegò mai i suoi ideali e, cittadino esemplare, si dedicò alla famiglia e al lavoro. Il 21 di Agosto si è spento serenamente, circondato dall’affetto dei suoi cari e dei suoi camerati. Sulla sua avventurosa vita di combattente europeo Francesco Paolo D’Aura ha anche scritto un libro di successo, Einer von Millionen, edito dalla Mursia. Un libro che ha fatto conoscere alle giovani generazioni il valore del combattente italiano, spronandole ad amare la Patria seguendo l’esempio del volontarismo di guerra espresso in tutti i secoli dagli Italiani. Messaggi di cordoglio sono giunti dall’Associazione Nazionale Arditi d’Italia e dall’Ordine dell’Aquila Romana che presenzieranno con delegazioni ufficiali alle esequie, tributando al combattente Ferdinando Gandini i solenni onori militari.
Primo Arcovazzi
Archivio: http://www.archiviostorico.info/libri-e-riviste/5273-einer-von-millionen
Analisi e commento delle varie proposte di costituzione della R.S.I. confrontate con la proposta di costituzione europea del partigiano Duccio Galimberti.
Il regime fascista non fu un regime liberale. Non ci fu libertà di stampa, non ci fu libertà di associazione, non ci furono libere elezioni.
Eppure nessun governo dalla nascita dello stato italiano ad oggi ha mai goduto di un consenso così vasto come quello goduto dal governo Mussolini. Forse per la prima volta nella storia il popolo si sentiva partecipe della vita e del destino della Patria.
Poteva questo esser merito esclusivamente, come qualcuno ha tentato di affermare, del potente apparato propagandistico del regime o, addirittura, dal magnetismo che emanava dalla figura del Duce ? E’ difficile crederlo.
O era, più probabilmente, la percezione che le successive realizzazioni del regime in campo previdenziale e a tutela del lavoro, di organizzazione e assistenza dei giovani (dall’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, alle colonie marine e montane, alle organizzazioni giovanili, alle scuole), nel campo delle bonifiche, delle grandi opere pubbliche…..rientravano in un grande disegno, alimentato da una ideologia che tutti intravedevano e della quale tutti si sentivano partecipi ?
Eppure la storiografia antifascista ha tentato per anni di descrivere il Fascismo come un movimento privo di ideologia e basato unicamente sulla violenza e su un pragmatismo esasperato teso unicamente alla gestione del potere e alla sua conservazione.
E ciò malgrado che storici seri ed onesti abbiano nel tempo dato contributi inoppugnabili che mostravano la insostenibilità della tesi grossolana della vulgata antifascista.
Ultimo, importantissimo, contributo in questo senso è quello di cui da notizia Acta, pubblicazione della Fondazione Istituto Storico della R.S.I. nel n.3 , Anno XX del settembre-novembre 2006.
Si tratta dell’opera Mussolini’s intellectuals – Fascist social and political thought, del Prof. A. James Gregor, edito dalla Princeton University Press (Princeton, New Jersey, U.S.A.).
In essa, frutto di lunghi e approfonditi studi, col sostegno di una amplissima documentazione, si dimostra che il Fascismo, lungi dall’essere quel movimento privo di una vera ideologia preteso dall’antifascismo, “rappresentava la sintesi tra una visione organica del nazionalismo ed una revisione antimaterialistica del marxismo” . Il tutto sostenuto da una robusta ideologia che, malgrado i compromessi che il regime ha dovuto accettare nel corso del ventennio per conciliare, nell’interesse di tutti, tendenze e interessi diversi, ha continuato a svilupparsi coerentemente fino al Fascismo Repubblicano della R.S.I.
A conclusione della sua opera il Gregor “analizza quale sia stata nel dopoguerra e quale sia oggi l’incidenza della dottrina del Fascismo…..” Perché tale dottrina, anche se chiamata con altri nomi, non è scomparsa e, come affermato a commento del Progetto di Costituzione di Biggini sul sito internet da cui è stato scaricato il testo del Progetto (vedi Appendice 1), puo’ avere ancora qualcosa da dire agli uomini del nostro tempo.
Il presente lavoro, analizzando un documento rimasto ignorato per più di mezzo secolo, e che a nostro parere rappresenta il punto di arrivo di quella coerente ideologia fascista, avrebbe l’ambizione di contribuire a dimostrare non solo l’esistenza di tale ideologia, ma anche la coerenza del suo sviluppo fino alla sua compiuta formulazione.