Emblematico e, in un certo modo riassuntivo di tutti, è stato il commento di Massimo Franco – sul Corriere della Sera di martedì 8 maggio, a proposito dell’interpretazione del voto delle elezioni amministrative – fondato sulla preoccupazione circa le sorti del governo Monti. La conclusione dell’analisi è stata la seguente: «Da ieri… Monti, da scudo dei partiti rischia di diventarne il bersaglio. Ma non è detto che la classe politica si risollevi picconando il governo dei tecnici. Anzi, potrebbe distruggere il suo ultimo alibi».
Siamo d’accordo, ma in un senso diverso, forse, da quello temuto dal valido commentatore, il quale aveva peraltro nel corpo dell’articolo fatto riferimento ad espressioni come «voglia di spazzare via un sistema incapace di riformarsi», ad un «istinto suicida dei partiti», nonché «alla solitudine dei partiti del fronte moderato», al «tramonto della leadership berlusconiana» e al fatto che il «Terzo polo non è percepito come un’alternativa».
Non riteniamo di entrare in tutti i concetti che sono stati espressi, ma appare chiaro che, oltre la parentesi dell’attuale “governo tecnico”, è necessario riflettere subito sui contenuti dei temi per le elezioni politiche del prossimo anno, e nello stesso tempo decidere la natura che la nuova legislatura dovrebbe avere.
La preoccupazione è quella che essa non sia l’inizio della Terza, ma la coda della Seconda Repubblica.
Con le elezioni del 1994 avrebbe dovuto nascere la Seconda Repubblica, caratterizzata dal nuovo sistema: anzitutto le alleanze si fanno prima e non dopo le elezioni e ciascuno s’impegna a governare secondo il programma e con gli alleati che si sono presentati alle urne; in secondo luogo, con l’indicazione, da parte delle forze contrapposte, già in sede elettorale, di chi sarebbe stato il Capo del Governo. Insomma, oltre che un passo avanti nella chiarezza democratica, anche un passo avanti nella governabilità e quindi nella efficienza gestionale.
Ma tutto questo non è stato travasato nel corso di quasi un ventennio in una riforma costituzionale appunto in senso antipartitocratico e presidenzialistico.
Avvicinandosi, quindi, un nuovo confronto elettorale e nell’evidente incapacità degli attuali partiti nel concordare una diversa legge elettorale, si rischia di perpetuare un sistema di debolezza invece che di efficienza.
L’auspicio è quello che nei prossimi mesi, anche facendo tesoro della recente esperienza elettorale amministrativa, si prospetti una legislatura costituente che ponga rimedio alle debolezze della Seconda Repubblica e apra veramente una nuova fase. Quella di una nuova Costituzione nella quale sia esplicitamente prevista da parte del popolo la scelta del premier, e la sua nomina non sia lasciata ad un Presidente della Repubblica, privo d’investitura popolare diretta, così come è avvenuto dopo le dimissioni di Berlusconi.
Impegnati nelle imminenti elezioni amministrative e in preparazione delle elezioni politiche del prossimo anno, il mondo politico italiano e la stampa d’opinione concentrano naturalmente l’attenzione sui problemi interni e, per quanto riguarda l’Unione Europea, sui riflessi che l’azione dei suoi organismi possono avere sul nostro Paese.
Tuttavia, subito dopo l’esito delle elezioni amministrative, e nella prospettiva di quelle politiche per il “dopo Monti”, sarà necessario affrontare il problema del futuro della U.E. e in particolare dell’euro non solo come moneta comune.
Trascuriamo per ora le ripercussioni dell’esito delle elezioni presidenziali francesi, ma deve essere chiaro che comunque l’Italia non avrà né ripresa economica né prospettive di sviluppo se non sarà tra i protagonisti delle politica europea e questa non sarà posta in grado di essere protagonista nella politica mondiale.
Lo strappo di Jean-Claude Juncker nel lasciare anzitempo la guida di presidente dell’Eurogruppo (il centro di coordinamento dei ministri dell’Economia e delle Finanze dei 17 Stati dell’UE che adottano l’euro) deve essere la spinta decisiva per la prossima politica del nostro Paese.
Insomma deve essere un esempio da non trascurare.
«Lascio perché sono stanco delle ingerenze franco-tedesche » ha detto Juncker l’altro giorno nel corso di una conferenza ad Amburgo. Va sottolineato che la situazione insopportabile nasce, prima della crisi finanziaria del 2008, già nel 2003 quando Francia e Germania – allora guidate da Gerhard Schroeder e Jaques Chirac – decisero unilateralmente di violare le regole europee del patto paritario di unione.
Già allora si scoprì che l’Europa per due delle maggiori potenze, la Germania e la Francia, non era quella figura costituzionale nuova definita “una comunità di diritto“ come concetto voluto dai fondatori ed elaborato nella dottrina costituzionale, ossia una unione dove tutti sono uguali indipendentemente dalla loro dimensione e dalla loro capacità economica.
Si trattava infatti di una «unione di nazioni europee», strutturalmente diversa da quella federale, e quindi di una unità nel rispetto delle diversità nazionali e come tali riconosciute e ritenute una caratteristica civile unica al mondo. E tuttavia legate da una solidarietà in grado di essere forte verso l’esterno e coesa all’interno.
Invece l’egoismo e la miopia hanno prevalso anche a causa delle preoccupazioni elettoralistiche degli esponenti politici francesi e tedeschi di avere all’interno dei loro Stati consensi e voti particolaristici.
Il patto franco-tedesco di Deauville nell’ottobre del 2010 , in sede di riunione dell’Eurogruppo riunito a Lussemburgo per discutere la crisi dell’euro, è stato la conferma di voler decidere solo nel proprio interesse le sorti degli altri partecipanti in difficoltà.
Di Gaetano Rasi
A cinque mesi dalla nascita del Governo Monti, appare chiara la sua caratteristica: quella di essere completamente sprovvisto del contenuto principale della politica economica: le misure per lo sviluppo del Paese. Nel caso specifico attuale della sua crescita dopo cinque anni di crisi.
Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, nell’audizione avventa l’altro giorno alla Camera sul Def, il Documento economico e finanziario, ha detto esplicitamente che «l’urgenza del riequilibrio dei conti si è tradotta inevitabilmente nel ricorso al prelievo fiscale, forzando una pressione già fuori linea nel confronto europeo e generando le condizioni per ulteriori effetti recessivi».
Si tratta di una chiara denuncia dell’assenza della parte costruttiva di una manovra che per essere completa deve prevedere, uniti in unica manovra, il prelevamento fiscale e la riduzione della spesa pubblica insieme con gli investimenti pubblici e privati per l’aumento della produzione e dei redditi.
Insomma non vi è alcun collegamento strutturale tra la politica del rigore e quella della crescita.
Se la prima, ossia la politica del rigore, non può non consistere in una razionalizzazione (in diminuzione) della spesa pubblica e una accentuazione (equilibrata) dell’imposizione fiscale, la seconda, ossia la politica della crescita, deve prevedere contemporaneamente e con la stessa determinazione un energico programma di misure volte allo sviluppo.
Qualsiasi politica che non preveda quest’ultimo aspetto è destinata inevitabilmente a far fallire il riequilibrio dei conti ed aggravare, senza rimedio, la spirale recessiva.
I dati parlano chiaro. Tra il 2007 e il 2012, ossia in cinque anni, la produzione nazionale è scesa del 6%; il reddito disponibile delle famiglie, in termini reali, è diminuito del 9%; i posti di lavoro perduti sono oltre 400 mila.
La preoccupazione primaria quindi per qualsiasi governo, che voglia restare protagonista dentro l’Unione Europea, non può essere che quello della ripresa della produzione, dell’annullamento della perdita del valore d’acquisto dei redditi, del recupero dei posti di lavoro perduti. Bisogna creare prospettive per nuova occupazione sia del fattore capitale che del fattore lavoro da cui derivare capacità di produzione e di redditi.
Di Gaetano Rasi
Vi sono due punti nevralgici nella crisi economica attuale: da un lato l’azione fuorviante delle società di rating per quanto si riferisce al grado di rischio dei titoli obbligazionari pubblici e privati posti sul mercato; dall’altro la certificazione molte volte menzognera o errata delle società di revisione dei bilanci che dovrebbero invece essere a garanzia del buon stato di salute delle imprese che hanno quotazioni in Borsa.
Per quanto riguarda le società di rating esiste già una abbondante letteratura critica basata sul fatto che esse sono possedute dai grandi centri di speculazione finanziaria i quali hanno evidenti interessi a manovrare il mercato e quindi le quotazioni. Di qui la richiesta generale di affidare i giudizi di credibilità dei titoli piuttosto ad enti pubblici che a soggetti privati (per esempio la ventilata società di rating dell’UE).
Invece non è analizzata in maniera sufficientemente chiarificatrice l’attività delle società di certificazione dei bilanci.
Come è noto, sia in dottrina che nell’analisi economica, la revisione ha la funzione di fornire un servizio di controllo sui conti della società revisionata e, contestualmente, costituisce per fornitori, azionisti, clienti, investitori e finanziatori la garanzia che la stessa società di cui si è certificato il bilancio non andrà nel breve termine incontro a crisi finanziarie. Ma troppe volte non è stato così. Oggi, comunque il problema è ulteriormente incombente perché ad esse si vorrebbe affidare anche la certificazione dei bilanci dei partiti. Ma procediamo per gradi.
Negli Stati Uniti, solo a titolo di esempio vale ricordare, prima il caso della Enron (che ha trascinato nel fallimento anche l’antica, e a suo tempo prestigiosa, società di certificazione Arthur Andersen), e poi il caso del fallimento della Banca Lheman Brothers, che ha posto in rilievo l’inconsistenza dei mutui subprime, e che ha innescato la crisi diventata mondiale e nella quale ancora oggi siamo coinvolti. Altri casi clamorosi, per esempio, si sono avuti in Giappone come quello Olympus, dove il management ha dovuto pubblicamente ammettere di aver occultato per oltre 20 anni perdite per più di un miliardo di dollari, mentre i revisori dei bilanci, succedutosi nel tempo, non se ne erano affatto accorti. E ancora recentemente in Svizzera una società di revisione, che aveva certificato come sani i bilanci della BCGE (Banca Cantonale di Ginevra), ha dovuto pagare in sede di sopravvenuto fallimento della stessa, 110 milioni di franchi a titolo di risarcimento per i danni causati.
Crisi del partito come istituto costituzionale o crisi dei partiti come attualmente sono strutturati? Tutti sappiamo che la Costituzione in vigore in Italia non parla dei partiti come istituzione attraverso i quali si forma la classe dirigente rappresentativa dei cittadini. L’articolo 49, l’unico che usa il termine “partito”, dice soltanto che «tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
La formulazione non potrebbe essere più generica di così ed infatti, le diverse leggi elettorali, varate dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione) in poi, non hanno nella realtà effettiva regolato il meccanismo con il quale il popolo esprime i propri rappresentanti in Parlamento.
Di volta in volta le leggi elettorali hanno solo modificato la maniera della presenza dei partiti nelle due Camere ed inoltre tali legislazioni non si sono mai occupate dei sistemi di selezione dei rappresentanti del popolo.
Questo compito è sempre stato lasciato alle oligarchie che hanno dominato i singoli partiti. Ne è derivato che a determinare la formazione e quindi ad esprimere la volontà del Parlamento è stata solo una casta di cooptanti che ha qualificato il regime politico vigente in l’Italia come una partitocrazia invece che come una democrazia.
Di Gaetano Rasi, il Secolo d’Italia
Tra poco sono 5 mesi che si è insediato il Governo Monti e non si intravede una vera politica economica di ripresa, l’unica che sia in grado di far fronte agli impegni finanziari che gravano sull’economia italiana.
L’aver puntato tutto sulla politica fiscale, sul tentativo di aumentare la concorrenza e sul finanziamento del debito pubblico, ha innescato una recrudescenza recessiva che tende a prolungarsi e ad accentuarsi (la cosiddetta riforma del rapporto di lavoro, tuttora non definita, resta un roboante, ma insignificante fattore di ripresa).
E’ evidente che una generale diminuzione dei redditi da spendere ed un contemporaneo aumento dei prezzi non può che generare una ulteriore caduta del PIL cui si aggiunge – posta in evidenza in questi giorni dalla stampa – la contrazione dei prestiti da parte del sistema bancario verso le imprese e le famiglie.
I dati della Banca d’Italia ci dicono che da dicembre a gennaio il credito agli italiani residenti si è ridotto di 30 miliardi. La giustificazione della mancata (ma è proprio vero?) richiesta di prestiti viene giustificata con una caduta della produzione per cui le imprese – non prevedendo nuove commesse, né nuove iniziative – riducono la domanda di disponibilità finanziaria proveniente dal sistema bancario.
Ma circolano anche altre spiegazioni. Una prima è: “Bisogna aspettare che la liquidità proveniente dalla BCE (prestiti all’1% d’interesse della durata di 3 anni) arrivi all’economia reale”.
Una seconda spiegazione è questa: “Questo ritardo nel finanziare le attività direttamente produttive è dovuto al fatto che le banche prima di tutto acquistano Titoli di Stato guadagnando sul differenziale di interessi e quindi si arricchiscono con poca fatica”. Una terza spiegazione: “Questo comportamento delle banche è giustificato dall’applicazione delle regole dell’accordo “Basilea 3”, le quali – per salvare il loro equilibrio di bilancio ed evitare future e crisi di liquidità per la possibile insolvenza dei debitori- impongono alle banche di aumentare il loro patrimonio “fermo”.
Di Gaetano Rasi, il Secolo d’Italia
La questione delle modifiche della legislazione sul rapporto di lavoro si sta rivelando capace di far esplodere un problema costituzionale di grande rilevanza che non può non coinvolgere quanti fanno riferimento al nostro mondo politico.
Non si tratta solo di discutere circa l’efficacia e l’equilibrio delle modifiche apportate dalla riforma specifica sostenuta dal governo Monti e cioè analizzare soltanto se essa accrescerà o diminuirà la flessibilità del c.d. mercato del lavoro (brutta espressione per ciò che è frutto della volontà e dell’intelligenza della persona umana …) e se essa favorirà l’occupazione o accrescerà i pesi per le imprese.
Naturalmente le questioni relative a queste analisi sono oggi dominanti e non possono non esserlo perché si riferiscono a forti problemi incombenti che riguardano la ripresa economica, la capacità delle imprese di produrre modernamente a costi competitivi e il rispetto della giustizia sociale riguardante i diritti e i doveri dei lavoratori.
Ma tutto questo sarà motivo di dibattito dopo le elezioni amministrative che si svolgeranno il 6 e il 7 maggio prossimi in 777 comuni, di cui 22 capoluoghi, interessando 7,3 milioni di elettori e il cui esito certamente avrà ripercussioni su questa materia entro e fuori il Parlamento.
A questo proposito, già ora, la CGIL annuncia che lo sciopero generale, già deciso, avrà luogo non subito, ma verso la fine di maggio evidentemente per poter svolgere, direttamente e attraverso la piazza (disordini?), a tempo opportuno una pressione adeguata sul PD senza che essa, ora, crei allarmi pericolosi per la sua tenuta elettorale. Non si tratta solo di tatticismi elettorali, ma di posizioni che debbono far riflettere.
Di Gaetano Rasi, Il Secolo d’Italia
Qualche lettore attento mi ha chiesto di essere più esplicito circa le affermazioni che sono apparse sul mio ultimo articolo, (Secolo d’Italia dell’11 marzo scorso) dal titolo “Banche e finanza non salveranno l’economia reale“. In particolare scrivevo «perché i pubblici poteri non assumono adeguate iniziative, né responsabilità dirette, volte a creare servizi infrastrutturali di durevole utilità sociale ?»
E più avanti ribadivo il concetto che, per uscire dalla crisi economica, ossia per dare un iniziale volano alla ripresa della crescita di tutta l’economia nazionale, è necessario puntare subito su massicci lavori pubblici rivolti all’ammodernamento e al potenziamento delle reti infrastrutturali nazionali in forte ritardo di sviluppo.
Infatti, concludevo, l’esperienza della storia economica degli ultimi due secoli dimostra che solo da una politica di investimenti in opere pubbliche possono derivare, poi, attraverso la distribuzione di redditi per questi lavori, una ripresa della domanda aggregata di beni e servizi in grado di indurre le imprese a nuove iniziative e ad investimenti, e quindi alla nuova occupazione di uomini e di capitali.
Ebbene, ecco le mie precisazioni. Due sono le strade da percorrere: quella della programmazione che mobiliti progettazioni e investimenti da parte degli enti pubblici (governo centrale e amministrazioni territoriali), e quella del partenariato pubblico-privato attraverso il sistema del project financing. Anche questa strada inserita in un’unica programmazione generale.
Per il primo aspetto siamo ancora molto lontani da affrontare in maniera risolutiva la crisi attraverso opere pubbliche. Attualmente non siamo andati oltre a quanto aveva cominciato a fare il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, il quale aveva avviato nell’agosto dell’anno scorso lavori pubblici per circa 9 miliardi di euro.
Eccoci con l’ormai consueto appuntamento con gli articoli del nostro Presidente On. Prof. Gaetano Rasi.
Nell’articolo uscito l’8 Marzo, Rasi affronta le problematiche legate al mondo del lavoro, tema di strettissima attualità visto che pare ormai imminente l’intervento del Governo su questo delicato settore.