Il 20 Luglio 1925-III Anno dell’Era Fascista, il Capo del Governo Benito Mussolini firmava nella straordinaria cornice del Forte Sangallo di Nettuno (Roma) le cosiddette Convenzioni di Nettuno, un accordo tra Regno d’Italia e Regno Serbo-Croato-Sloveno sulle questioni ancora pendenti relative ai rapporti tra i due Stati. Le Convenzioni di Nettuno furono la chiusura di un lungo contenzioso iniziato nell’Autunno 1918 tra l’Italia e il costituendo Regno SHS, lo Stato successore dell’Impero Austro-Ungarico nell’Adriatico Nord-Orientale, e rappresentarono il primo successo internazionale della nostra Nazione dopo la fine del Primo conflitto mondiale.
Con la vittoria nella Grande Guerra (1915-1918), il Regno d’Italia si apprestava a coronare il suo progetto di Grande Nazione – garantitogli dal Patto di Londra del 1915 – attraverso il raggiungimento dei suoi confini naturali (il Brennero e Monte Nevoso), acquisendo una regione storica italiana (la Dalmazia centrale), ponendo sotto il suo “controllo” l’Albania e trasformando l’intero Mar Adriatico in un lago italiano. Tuttavia, subito dopo la Vittoria, gli alleati franco-britannici e, ancora di più, l’associato statunitense posero il veto sulle rivendicazioni italiane. Fu un duro colpo per l’Italia, già in preda ad un caos sociale e politico scatenato dai socialisti che volevano trasformare la nostra Nazione in uno Stato bolscevico attraverso una rivoluzione bagnata dal sangue dei “borghesi” e di tutti coloro che si opponevano al sorgere del Sol dell’Avvenire. In questo scenario crepuscolare, l’Italia dovette abbandonare ogni pretesa sull’Albania e sulla Dalmazia centrale, ripiegando in una disperata difesa del confine al Monte Nevoso che, però, escludeva la città italiana di Fiume (non rivendicata in precedenza per la pochezza dei nostri governanti). E proprio Fiume divenne, in poco tempo, un simbolo di fede, il simbolo della Vittoria Mutilata, della Patria tradita. Il 12 Settembre 1919, il Comandante Gabriele d’Annunzio occupava la “città olocausta” nella speranza di “donarla” alla Patria. Tuttavia, il Governo italiano – impantanatosi in una crisi politico-sociale senza precedenti – lasciò cadere le offerte e, dopo aver arginato la protesta nazionalista, pose fine militarmente alla “rivoluzione dannunziana”. Il Trattato di Rapallo del Novembre 1920, riuscì a salvare il confine al Monte Nevoso e strappò Fiume alle mire imperialiste dello iugoslavismo trasformandola in uno “Stato libero”. Una situazione che, però, lasciò il segno: quello della sconfitta, della Vittoria Mutilata. Su questo humus sorse il fascismo, un movimento di sinistra nazionale, che – facendosi alfiere dei valori della Grande Guerra e della lotta alla sovversione social-comunista – si trasformò da piccola fazione in un vero e proprio movimento di massa.
Dopo l’ascesa al Governo di Benito Mussolini, Fiume tornò al centro del dibattito internazionale. Il 27 Gennaio 1924, incredibilmente, si riusciva nell’impresa e con il Trattato di Roma la “città olocausta” venne annessa alla Madre Patria. Il Trattato di Roma sarà, come abbiamo detto, perfezionato e chiuso in tutte le sue parti con la firma delle Convenzioni di Nettuno, che sollevarono nel Regno Serbo-Croato-Sloveno le proteste dei circoli iugoslavisti (tanto è vero che l’accordo venne ratificato solo nel 1928).
A novant’anni dallo storico trattato, nessuna manifestazione è prevista sul territorio di Nettuno, così come oggi nulla ricorda che il Forte Sangallo è stato teatro di un’importante convenzione internazionale che difese gli interessi dell’Italia minacciati dall’imperialismo anglo-francese e iugoslavista. Manca a tutt’oggi uno studio specifico su questo trattato e solo il Comitato Nettunese Pro Gabriele d’Annunzio presieduto dal Prof. Alberto Sulpizi ha creduto opportuno tornare sull’argomento, lasciando sul Monumento ai Caduti per la Patria di Piazza Cesare Battisti tre rose rosse, ognuna a simboleggiare tre città italiane irredente, strappate alla Nazione italiana dopo la Seconda Guerra Mondiale: Pola, Fiume e Zara.
A novant’anni da quello storico successo è doveroso tornare su tale evento, soprattutto per ricordare a coloro “a cui piace dimenticare” che a Trieste la Repubblica finisce, ma l’Italia continua.
Pietro Cappellari
Non uomini politici, ma sensali da mercato paesano
L’inasprimento e l’improvviso blocco della trattative riguardanti la rimodulazione del debito greco e l’indizione di un referendum per demandare al popolo ellenico la decisione se accettare o meno le condizioni poste dalla UE ci obbligano ad effettuare in questo numero le necessarie riflessioni sull’argomento e quindi a rimandare al numero successivo de Il Sestante la promessa trattazione della, pure incombente e più pericolosa, questione relativa al contrasto con la Russia e alle rischiose iniziative “muscolari” degli USA e della NATO.
Pubblichiamo quindi in questo numero due analisi sui riflessi che comunque il caso greco produce sull’Europa. Una, riguardante la miopia di uomini politici che ragionano come modesti contabili di una piccola impresa di periferia, ed un’altra analisi effettuata da una economista di spicco, di origine italiana, la prof. Marianna Mazzucato dell’Università del Sussex che accusa con chiari argomenti l’Europa di oggi di sbagliare regolarmente le diagnosi come dimostra proprio il caso greco. (g.r.)
SOMMARIO
- Comunque vada a finire è l’attuale idea di Europa che va ridiscussa. Non uomini politici europei, ma sensali da mercato paesano di Gaetano Rasi
- L’acuta ed indipendente analisi di una economista di fama che ha “capito tutto” . Quando l’errore è nella diagnosi di Marianna Mazzucato
- RUBRICHE. “I Libri del Sestante”. Rassegna di novità librarie a cura di Mario Bozzi Sentieri. “La Biblioteca”. I libri scritti da soci del CESI. “Pubblicazioni del Cesi”. I volumi della Collana Documenti e le raccolte del bollettino Il Sestante.
Assenteismo elettorale e problematiche incombenti
In questo numero pubblichiamo una nota del Presidente Giancarlo Gabbianelli sul significato dell’assenteismo elettorale verificatosi nel corso delle ultime elezioni amministrative. Inoltre in una analisi compiuta da Gaetano Rasi viene posto in evidenza l’illusorietà dei dati mensili che non indicano affatto, come il Governo vuol far credere, che sia iniziata la ripresa della crescita. A tutto questo si aggiunge il continuo abuso del termine “riforme” che viene usato nella gestione politica del Governo; sull’argomento Mario Bozzi Sentieri richiama l’attenzione su uno dei gravi problemi che necessitano un’urgente soluzione in sede di radicale revisione costituzionale e non di semplice legislazione ordinaria: quello della dannosità, sia dal punto di vista funzionale che dal punto di vista dei costi, dell’ente regione.
Mentre la crisi politica continua ad investire l’Europa, e quindi anche l’Italia, crisi politica aggravata da quella economica importata dagli USA nel 2008, nuove gravi problematiche incombono. Pertanto preannunciamo fin da ora che il prossimo numero de Il Sestante tratterà in particolare degli effetti sull’Italia, oltre che su tutta l’Europa, del contrasto artificialmente acuito con la Russia. Si parlerà inoltre dell’importante recente enciclica di Papa Francesco “Laudato sì”, che affronta, insieme con i problemi del degrado del pianeta, le gravi responsabilità della degenerazione predatoria capitalistico-finanziaria. Senza una radicale presa di coscienza ed una vera rivoluzione culturale, saranno procurati ulteriori gravissimi dissesti economici e globali arretramenti civili.
SOMMARIO
- Riflessioni sulla causa dell’assenteismo elettorale. Ogni cittadino deve poter partecipare alla ricostruzione dello Stato di Giancarlo Gabbianelli
- Illusorio trarre dai tenui dati mensili che è avviata la ripresa della crescita in Italia. Necessità di una politica economica capace di produrre redditi diffusi per uscire dalla crisi di Gaetano Rasi
- Abolirle o riformarle? Le regioni costano e non contano di Mario Bozzi Sentieri
- RUBRICHE. “Segnalazioni”. A proposito di una Europa che non è ancora una vera entità statale. L’Unione Europea sa dire solo no di Giulio Tremonti. “I Libri del Sestante”. Rassegna di novità librarie a cura di Mario Bozzi Sentieri. “La Biblioteca”. Gaetano Rasi, Tutto è cambiato con la prima guerra mondiale. Società ed economia dal 1915 al 1922. Tabula Fati, Chieti 2015; Mario Bozzi Sentieri, Filippo Corridoni. Sindacalismo e Interventismo. Patria e Lavoro, Pagine, Roma 2015; Gaetano Rasi, Storia del progetto politico alternativo. Dal Msi ad An (1946-2009). Opera in tre volumi. I volume: La costruzione dell’identità (1946-1969), Solfanelli, Chieti 2015. “Pubblicazioni del CESI” – Volumi della Collana Documenti e Raccolte bollettino Il Sestante.
da Il Giornale – di Luca Gallesi
I n occasione del settantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, l’instancabile liturgia resistenziale ci ha consegnato l’ennesimo quadretto oleografico di un’Italia che esce vittoriosamente dal conflitto, dopo aver sbaragliato, grazie all’insurrezione di tutto il popolo, il barbaro invasore tedesco.
Per inconfessabili scopi di bassa politica si continua quindi a recitare la farsa di una sconfitta militare trasformata in vittoria e di una tragedia convertita in festa; il 25 aprile si celebra una ricorrenza che, invece di invitare gli italiani a voltare pagina consegnando la guerra civile alla memoria storica, rinfocola ataviche ostilità e riapre antiche ferite, sostituendo la propaganda alla storia. Fortunatamente, le nuove generazioni di storici e ricercatori sembrano meno disposte a piegarsi alle esigenze della retorica, come dimostra un libro appena pubblicato da Laterza, Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-1948 (pagg. 180, euro 20), scritto da Michela Ponzani, collaboratrice dell’Istituto storico germanico di Roma, consulente dell’Archivio storico del Senato e già autrice di numerosi saggi sulla Resistenza e sull’Italia repubblicana. Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: la Ponzani non è affatto revisionista, non ha alcuna simpatia per la destra o, peggio, per il fascismo, e rivendica la sua convinta adesione ai valori della Resistenza, che l’hanno ispirata e guidata nelle sue ricerche. Ma è nata nel 1978, e, probabilmente, il dato anagrafico l’ha aiutata a evitare l’adesione ai frusti cliché dell’antifascismo militante.
I Figli del nemico analizza, con un approccio scientifico, il destino dei numerosi bambini, spesso illegittimi, nati dalle relazioni tra soldati tedeschi e donne italiane, oppure da internati italiani e donne tedesche, che, coinvolti dalla tragedia bellica, hanno trovato il modo di restare umani aggrappandosi al sentimento più naturale che esista, quello dell’amore, o presunto tale, i cui frutti recano un marchio infamante. È il caso di Francesca O., nata il 10 novembre 1944 a Bologna, da un padre tedesco che non ha mai conosciuto, perché tornato dalla sua fidanzata tedesca. Francesca ha cercato di rimuovere l’esistenza del suo «vero padre», ma solo quando ha saputo che stava morendo, si è sentita priva del marchio infamante di figlia della colpa. Di segno opposto, invece, la storia dei figli di Alfred, un SS di vent’anni che si innamora di Anita, da cui ha tre figli, che, amati e riconosciuti, cresceranno forti e uniti, nonostante il cognome – e le fattezze – straniere. Certo, come avverte l’autrice nell’introduzione, nella maggior parte dei casi si tratta di incontri fugaci, di «amori di guerra» che soddisfano un momentaneo bisogno d’affetto o di protezione, e che forse svaniranno col ritorno alla normalità. Le conseguenze di quelle relazioni, però, non potranno essere rimosse, e i destini dei bambini saranno molto diversi, a seconda dell’appartenenza dei padri alle schiere dei vincitori o a quelle dei vinti. Nel primo caso, parleremo di «spose di guerra», che si sono concesse ai liberatori inglesi o americani, assurgendo, nell’immaginario resistenziale, a una condizione di rispettabilità sociale quasi pari a quella delle eroine partigiane che, invece del corpo, hanno donato alla giusta causa il loro sangue. Nel secondo, invece, si tratterà di «donne disonorate» e «figli della colpa», a cui andrà tutta la riprovazione sociale e il disprezzo della comunità. La Ponzani ricostruisce le loro storie, che, sono parole sue, non hanno «nulla a che vedere con quel canone patriottico-onorevole di stampo risorgimentale che vede incerarsi il senso di rispettabilità degli italiani nell’odio e nella distanza dal tedesco invasore». Viene quindi smontato anche un altro stereotipo, quello della donna amante del tedesco, che deve necessariamente essere una collaborazionista, laddove le relazioni tra donne italiane e soldati del Reich sono spessissimo legami d’amore destinati a durare anche dopo la guerra; infatti, contrariamente alle versioni della propaganda, i militari tedeschi dislocati sul fronte italiano non sono barbari assetati di sangue, ma individui civili «entusiasti di vivere in un vero e proprio museo a cielo aperto», e non si capacitano, come scrive a casa un caporale dislocato in Lazio, del fatto che «gli abitanti di una città moderna e intrisa di storia come Roma non si rendono conto della bellezza della loro città». Al contrario, le truppe alleate che risalgono la Penisola distruggono tutto e bruciano i cadaveri dei tedeschi, mentre i magrebini aggregati al corpo di spedizione francese uccidono e violentano migliaia di donne, «ben 2000 solo nel paese di Ceprano, di cui 1500 contraggono la malaria e 800 si troveranno in stato di gravidanza».
Il mito del tedesco freddo e crudele, invece, deve essere mantenuto sempre, dato che l’Italia «ha un bisogno assoluto di ricostruire la propria immagine nazionale con la rimozione assoluta dei rapporti che l’Italia ha stabilito, dagli anni Trenta in poi, con la Germania nazista». E quindi vanno rinfocolate le rappresentazioni del «cattivo tedesco» come nemico del genere umano, «recuperando persino narrazioni che risalgono alla tradizione antiaustriaca ottocentesca». Ma «le narrazioni pubbliche di guerra, in un’Italia che si presentava come vittima del fascismo, non hanno affatto aiutato a guarire la società ma, invece, hanno avuto un effetto distorsivo sull’evoluzione delle memorie legate alla storia nazionale».
Tra le pagine, ricchissime di dati e di informazioni preziose sulle vittime più innocenti di un conflitto, quei bambini orfani o abbandonati alla carità pubblica o, più spesso, religiosa, emerge, quasi inconsapevolmente, un auspicio, che dovrebbe sostituire la retorica resistenziale: «Uscire dal silenzio, superando il trauma dei giorni del conflitto, rompere con un passato di odio allontanando da sé il peso della discriminazione, inducendo a ricordare anche tutti quei tedeschi caduti sul fronte di guerra italiano, le cui spoglie non saranno mai restituite alle rispettive famiglie».
Ecco, questo atto pietoso sarebbe una degna celebrazione della fine di un conflitto: si liberano i prigionieri e si seppelliscono i morti. E si ricomincia a vivere.
San Miniato, in provincia di Pisa, è stato per mezzo secolo un tempio dell’antifascismo, quei mausolei “naturali” che, per essere stati oggetto di una strage tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale, si sono prestati alla speculazione dei partiti dell’arco costituzionale ed essere, di conseguenza, elevati a fabbriche di odio antifascista permanente. Quei luoghi sacri agli istituti della Resistenza (immaginaria) e alle associazioni dei partigiani (del dopo la guerra, ovviamente), davanti ai quali, a scadenze prestabilite, si riuniscono obbligatoriamente tutti gli studenti del circondario per ascoltare il verbo dei politici di professione, tutti uniti a tramandare, di generazione in generazione, l’odio contro i nazisti e i fascisti. Anche i fratelli Taviani si sono sentiti in dovere di contribuire alla diffusione della “buona novella” con un famoso lungometraggio sulla strage “nazista” di San Miniato, La notte di San Lorenzo (1982): tutto l’apparato della Repubblica Italiana, dalla destra nazionale alla sinistra extra-parlamentare, aveva offerto il suo “agnello sacrificale” – ricevendo ovviamente in cambio alti riconoscimenti economici e politici – al mito della “liberazione”.
Ma il crollo del muro di Berlino, la scomparsa del comunismo, ha provocato la frana di tanti miti resistenziali, seppelliti dal peso della loro stessa menzogna. E così, a San Miniato, quel mormorio “fascista” che strisciava per le vie del paese si è fatto sempre più forte, fino ad esplodere con effetti drammatici. E allora, anche chi per decenni aveva – dietro congruo compenso – diffuso odio in nome dell’antifascismo di professione, ha dovuto ammettere che a San Miniato c’era stato un piccolo errore di valutazione. Sì, quel giorno, ad uccidere quei poveri innocenti – di cui nessuno, tra l’latro, si era mai interessato, se non per sfruttarne la morte sull’altare dell’antifascismo – non erano stati i Germanici, ma gli Statunitensi. Ma perché indignarsi tanto? Il “male assoluto” era pur sempre il “male assoluto”, una piccola bugia a fin di bene era sempre preferibile… alla verità.
Il lettore si domanderà cosa c’entra San Miniato con la provincia di Rieti. Ebbene, sembra che anche questa provincia italiana, un tempo della Repubblica Sociale Italiana, abbia la sua piccola San Miniato “irredenta”, dove una strage compiuta dai Britannici è da sempre stata attribuita ai Germanici, per poterne sfruttare l’orrore in nome dell’odio e dell’unità antifascista.
Quel 10 Giugno 1944, mentre le truppe dell’Impero inglese avanzavano lungo la Salaria, senza per altro incontrare resistenza, Poggio Mirteto viveva l’ansia dei “grandi giorni”. I fascisti e il grosso delle unità tedesche avevano lasciato la provincia di Rieti da alcuni giorni, in tutta tranquillità, senza essere disturbati da nessuno. Di partigiani neppure l’ombra, solo qualche mitragliamento aereo anglo-americano aveva impensierito la lunga marcia verso il Nord, dove si sarebbe continuata la battaglia per la libertà e l’onore d’Italia. Quel 10 Giugno, solo alcuni piccoli reparti germanici rimanevano in zona, per gli ultimi preparativi. Contro queste unità si accanì l’aviazione anglo-americana e le artiglierie britanniche, intenzionate a radere al suolo qualsiasi cosa si frapponesse alle truppe in marcia, fossero semplici casali di campagna, fossero piccoli paesi di montagna. E prima dell’arrivo delle truppe, un’ultima azione di “bonifica” a suon di mortai. Nessun combattimento a viso aperto si voleva coi Germanici. Difficile sconfiggerli solo con i Fanti, anche se in rapporto di uno a dieci. E così, alla vista di Poggio Mirteto, importante centro reatino, dotato fino a qualche giorno prima anche di un forte ed efficiente Presidio della Guardia Nazionale Repubblicana, gli Inglesi – nel timore fossero presenti ancora unità nemiche – decisero di “spazzolarlo” con i mortai, prima dell’entrata delle truppe. La sorte volle che diversi paesani stessero saccheggiando un magazzino viveri quando avvenne l’attacco contro i nemici immaginari: e fu strage. Un eccidio che fu un trauma per tutti coloro che credevano fosse finalmente finita la guerra e le sofferenze. Una beffa mostruosa che pregiudicava anche la mitologia della “liberazione”: come far diventare un crimine di guerra commesso dai “liberatori” in una festa politica? Il trauma psicologico e le necessità politiche imposero la rimozione della realtà storica e quella che era solo una delle tanti stragi dei “liberatori di schiavi”, divenne come per magia, un eccidio “nazi-fascista”, con tanto di lapide ricordo, con tanto di manifestazioni di cordoglio, con tanto di scolaresche schierate a sentire i sermoni dei Professoroni antifascisti (pagati con i soldi dello Stato, ovviamente).
«A 70 anni da questo drammatico evento di sangue – ha dichiarato il Dott. Pietro Cappellari, Responsabile culturale del Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti – c’è chi ancora tenta di speculare politicamente parlando di una “strage tedesca”. Le risultanze storiche, la logica, un’analisi indipendente priva della distorsione ideologica dei fatti in questione, però, pone seri dubbi su questa etichetta. Siamo dell’avviso che i soli responsabili del massacro di Poggio Mirteto siano i Britannici che, come al solito, preferirono aprirsi la strada con l’aviazione, le artiglierie e i mortai, nel costante timore di dover affrontare a viso aperto i reparti germanici sul campo di battaglia. Abbiamo chiesto al Sindaco di modificare la lapide politica che nella piazza centrale del paese ricorda il drammatico evento attribuendolo ai Tedeschi. Volevamo organizzare insieme una manifestazione in ricordo delle vittime di quel crimine di guerra, senza più speculazioni politiche, in modo che – finalmente – si potesse rendere un omaggio disinteressato ai dimenticati di quel giorno, “liberarli” dalla falsità e rendere loro giustizia. Dalla risposta avremmo espresso un giudizio morale nei suoi confronti. Il lungo silenzio faccia esprimere questo giudizio all’intera cittadinanza».
Leonessa, 8 Giugno 2014
Claudio Cantelmo
Ufficio Stampa
Comitato Pro 70° Anniversario
della RSI in Provincia di Rieti
Sabato scorso la festa organizzata dal Comitato Nettunese Pro Gabriele d’Annunzio in omaggio al ricercatore Pietro Cappellari
di Lemmonio Boreo
Sabato 6 Giugno 2015, nell’incantevole cornice marina dell’Arena dello Stabilimento Pro Loco di Nettuno, si è tenuta la presentazione dell’ultimo studio del ricercatore Pietro Cappellari dal titolo Il fascismo ad Anzio e Nettuno. La manifestazione, patrocinata dalla locale Pro Loco e fortemente voluta dal suo Presidente Dott. Marcello Armocida, è stata organizzata dal Comitato Nettunese Pro Gabriele d’Annunzio nell’ambito delle celebrazioni per il centesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia. Presente un pubblico selezionato e interessato alle novità storiche illustrate dal Dott. Cappellari che, in oltre 280 pagine, ha saputo coniugare una massa di documenti inediti con una narrazione chiara e puntuale.
Un ventennio, quello che va dal 1919 al 1939, descritto nei minimi particolari con importanti riflessioni sulla società di allora e sullo Stato fascista. Infatti, il libro di Cappellari non è certamente solo uno studio di storia locale ma, grazie all’utilizzo di fonti “nazionali” e parallelismi con ciò che accadeva in Italia e in Europa, si eleva a rango di volume di storia compiuto, in cui si evidenzia come le grandi innovazioni prodotte dal Regime siano poi state effettivamente attuate a livello periferico, con risultati invero eccezionali.
Particolare interessante è la nascita dello squadrismo nelle due città gemelle e come il Regime riuscì a consolidarsi macinando uno straordinario consenso di massa, reclutando addirittura esponenti dei partiti prefascisti, tutti convertitisi al “culto del littorio” dopo la sua impetuosa ascesa al potere. Ma non solo. Riflessioni approfondite sono state fatte sul Volontarismo di guerra, sulla partecipazione entusiastica della popolazione alle guerre di Etiopia e di Spagna; sulla lotta alla povertà e come questa sia stata combattuta attraverso opere incisive di uno Stato sociale moderno e all’avanguardia, che fecero del Fascismo “il sole dei poveri”, come scrisse il cattolico-liberale Arturo Carlo Jemolo (cui non si possono certamente addossare simpatie mussoliniane).
Interessanti sono le pagine dedicate all’antifascismo – praticamente inesistente – e al tentativo di ricostituzione del Partito Comunista del 1931, progetto ben presto abortito per l’intervento della Polizia. Da sottolineare come gli arrestati furono tutti “graziati” da Mussolini e che molti di loro poterono contare anche su sussidi statali per far fronte alle difficoltà quotidiane.
Quello che ne esce fuori è un Fascismo molto diverso da quello cantato dai “professori” nelle scuole e nelle università; di quello dipinto dai fasciofobi di oggi, tutti intenti a preservare una falsa storia ideologica che serve solo a tutelare i loro illusori posti di potere.
La festa per questo che è l’undicesimo libro di Cappellari è stata introdotta dal Prof. Alberto Sulpizi, storico del territorio nettunese, che non ha mancato di evidenziare l’importanza per le città di Anzio e Nettuno di questo volume che, finalmente, dirada le nebbie su un passato glorioso del nostro litorale, cui guardare con ammirazione e rispetto.
Lemmonio Boreo
Foto e info: https://www.facebook.com/pages/Il-fascismo-ad-Anzio-e-Nettuno-1919-1939-Una-storia-italiana/809378612464520
Il significato partecipativo del moderno impegno femminile
Questo numero si apre con un’articolata riflessione di Marina Vuoli Buontempo, una delle ultime allieve di Ugo Spirito e che, a un’intensa vita di famiglia, ha abbinato costantemente una feconda continuità di studi. Prendendo occasione da un appuntamento prevalentemente femminile, avvenuto recentemente in Campania, tratta in quattro punti i problemi che emergono nella società contemporanea e in particolare in Italia e in Europa. Le denuncie riguardano il difetto di rappresentanza, la crisi culturale, l’impegno per le donne di lanciare un messaggio di corale responsabilità, la necessità di partecipazione sociale nell’impresa. Lo scritto di Vuoli Buontempo conclude sottolineando che bisogna ricuperare il concetto di nazione, insieme italiana ed europea, che – come diceva Renan – è «quel plebiscito che si tiene tutti i giorni».
Mario Bozzi Sentieri tratta con la consueta acutezza la questione relativa a un nuovo ruolo che deve assumere il sindacato prendendo occasione dalla sua crisi riguardante gli scopi e le finalità che lo rendono sempre più un ente piatto e burocratico. Bozzi Sentieri pone chiare le domande circa il ruolo del sindacalismo nel terzo millennio e sostiene che tale ruolo non può derivare altro che da una visione della società che lo stesso sindacato deve proporre.
In questi giorni, nell’ambito del Centenario della Prima guerra mondiale, nella Camera dei Deputati ben 59 parlamentari del PD, con la complicità del Presidente della Commissione Difesa espresso da Forza Italia, hanno presentato addirittura un disegno di legge per la riabilitazione di quanti, nei momenti più difficili di quell’immane conflitto, hanno subito drastica esecuzione con l’accusa di viltà di fronte al nemico. Le considerazioni che svolge al riguardo Vincenzo Pacifici sottolineano la vergognosa speculazione e la vigliaccheria antipatriottica.
Tra le consuete rubriche va segnalata una lettera di Lorenzo Puccinelli Sannini che invita alla verità storica circa l’origine del regime attuale, il quale deriva da una sconfitta e da quanti su essa hanno speculato. Il numero del Sestante è arricchito da segnalazioni librarie di grande attualità e di meritoria iniziativa come quella di Romano Nicolini riguardante l’assoluta essenzialità della conoscenza della lingua latina proprio per avere una moderna cultura adeguata alle specializzazioni richieste dai nuovi tempi. (g.r.)
SOMMARIO
- Etica, partecipazione, famiglia e responsabilità sociale dell’individuo. Le ragioni di un impegno: ieri, oggi e domani di Marina Vuoli Buontempo
- Una discussione da fare. Sui sindacati Renzi ha ragione? di Mario Bozzi Sentieri
- Lo strano modo di “celebrare”il Centenario della Prima guerra mondiale. Iniziativa antipatriottica e speculazione vergognosa di Vincenzo Pacifici
- Rubriche: Lettere al Sestante. La storia con la “S” maiuscola di Lorenzo Puccinelli Sannini e risposta di Gaetano Rasi. Segnalazioni: Associazione “Pro latinitate”. I Libri del “Sestante”. Rassegna di novità librarie a cura di Mario Bozzi Sentieri. Segnalazioni Librarie.
Il Centenario della Prima guerra mondiale
In occasione del Centenario dell’inizio della Quarta guerra d’Indipendenza e Prima guerra mondiale, il CESI ritiene importante mettere a fuoco in maniera adeguata il significato fondante di quell’evento storico. E ciò non solo per essere consonanti con la verità storica, ma anche per impegnare consapevolmente tutti gli italiani a riflettere su gli effetti prodotti dalla guerra che hanno profondamente inciso, modificandola, la coscienza del nostro Paese.
Il futuro di una nazione, come è noto, non solo è frutto del presente, ma anche di alcune costanti e in ogni caso degli eventi del passato. Trascurare questi fatti significa seguitare in una serie di crisi nelle quali le diverse classi dirigenti non sono in grado di orientarsi e tanto meno di trovare soluzioni.
Pertanto pubblichiamo un’analisi relativa agli effetti sociologici conseguenti al compimento dell’Unità nazionale sia dal punto di vista territoriale che di quello delle consapevolezze maturate dagli italiani residenti nelle varie regioni del Paese. Inoltre riteniamo utile richiamare l’attenzione su come drammatici eventi, che pur costarono tanti sacrifici, determinarono anche la formazione di una nuova classe dirigente nazionale riguardante le pubbliche responsabilità istituzionali e le competenze tecnico-dirigenziali in campo economico e sociale.
Questo numero è arricchito dalla rubrica “Segnalazioni librarie” che riporta l’illustrazione di due recentissimi opere pubblicate da esponenti del CESI.
Anzitutto, per gentile concessione dell’editore, riportiamo la Premessa del nuovo libro di Mario Bozzi Sentieri “Filippo Corridoni. Sindacalismo e interventismo. Patria e lavoro”.
Inoltre, sempre a proposito del centenario della Prima guerra mondiale, pubblichiamo l’Introduzione al volume di Gaetano Rasi “Tutto è cambiato con la Prima guerra mondiale. Società ed economia dal 1915 al 1922”.
SOMMARIO
- 1915-1918: si è compiuta l’unità degli italiani. Dalla Prima guerra mondiale è nata una nuova classe dirigente di Gaetano Rasi
- “Segnalazioni librare”: Mario Bozzi Sentieri, Premessa a “Filippo Corridoni. Sindacalismo e interventismo. Patria e lavoro”; Gaetano Rasi, Introduzione a“Tutto è cambiato con la Prima guerra mondiale. Società ed economia dal 1915 al 1922”.