Blog

L’Accademia Delia in occasione degli eventi dell’estate nettunese ha voluto premiare quelle personalità che si sono contraddistinte nel litorale di Anzio e Nettuno nelle arti, letteratura, scienza promuovendo il nome delle nostre perle del tirreno oltre il nostro territorio.

L’Accademia Delia nasce nel 1608 a Padova su iniziativa di Giovanni de Lazzara. Questi con alcuni altri nobili patavini vuole istituirla per dar vita ad un centro di cultura e di rinnovata cavalleria. Il simbolo araldico dell’Accademia rappresenta il Palazzo di Apollo ai piedi del Monte Cinto, nell’Isola di Delo. II motto e l’arma vogliono significare una vita lunga per l’Accademia ed un connubio tra le belle arti e quelle cavalleresche e militari, raffigurate da Apollo e Diana. Attualmente oltre che in Italia l’attività dell’Accademia  è riscontrabile in Germania, Austria, Georgia, Ungheria, Danimarca, Croazia, Belgio, Russia, Polonia, Lituania e Repubblica Ceca.

Alla presenza del responsabile territoriale dott. Pietro Cappellari, coadiuvato dal prof. Alberto Sulpizi e dall’assistente al palco Maria Raffaele i premi per l’ edizione 2014, davanti ad una piazza gremita da migliaia di persone e in diretta TV in tutta la regione Lazio, sono stati assegnati al Prof. Mimmo Pugliese (Anzio), al regista Carlo Cotti (Nettuno) ed alle sorelle Graziana e Lorenza Petriconi, Tridente d’oro speciale.

Queste le motivazioni che hanno portato ai riconoscimenti:

Mimmo Pugliese, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Napoli,  facoltà di Scenografia, insegnante di Storia dell’arte, disegno,  storia del costume e teatro, ha ideato due tra le più longeve manifestazioni musicali di rilevanza nazionale, il premio Caruso per la diffusione dell’arte e della musica italiana nel mondo,  e Mare Musica,  rassegna per giovani talenti.

Carlo Cotti,  regista, frequenta la scuola di Strehler al Piccolo di Milano, partecipa al film   Rocco e i suoi fratelli,  e Risate di Gioia. Assistente alla regia con  Nanni Loy  nel film Le quattro giornate di Napoli.  Aiuto regista: con Zeffirelli, con John Huston, Alberto Lattuada. Negli anni ottanta lavora in Francia lanciando Kristin Scott Thomas,  (Il paziente ingleseQuattro matrimoni e un funerale ) nel  film Bille en tête. Docente universitario, ha  scelto Nettuno non solo come residenza, ma ne fatto la protagonista del film “Una voce di dentro, la voce del mare”,film su Anna Magnani, ambientato nella nostra città. Lorenza e Graziana Petriconi, hanno lavorato nel mondo dello spettacolo fin da giovanissime in Rai: Piacere  Rai 1 e   Domenica In,  quindi   Canale 5,  Sotto a Chi Tocca,  e   TMC … fino alla partecipazione al  recente Italia’s got  talent.  Ma la scelta vincente è quella   di dedicarsi anima e corpo all’insegnamento.  Una infinità di premi e riconoscimenti. Hanno  fondato nel 1999 il “Gruppo Folkloristico Città di Nettuno” che rappresenta ovunque la nostra città, ed hanno fatto conoscere  il costume e  la storia  nettunese nel mondo.

Lorenza e Graziana Petriconi, hanno lavorato nel mondo dello spettacolo fin da giovanissime con tanta passione, studio e sacrificio, sempre nel solco della professionalità e dell’eccellenza. In Rai (Piacere Rai 1 e   Domenica in),  quindi  Canale 5 (Sotto a chi tocca), ma anche programmi per TMC… fino alla partecipazione al recente Italia’s got talent. Ma la scelta vincente è quella di dedicarsi anima e corpo all’insegnamento.  Una infinità di premi e riconoscimenti, come a Londra, nella quale erano presenti le migliori scuole di danza d’Europa e dove partecipano grazie ad un curriculum di alto profilo che le ha già viste in passato trionfare in città come Praga, Parigi, Barcellona e New York. Per aver fondato nel 1999 il “Gruppo Folkloristico Città di Nettuno” che rappresenta ovunque la nostra città, ospite di grandi festival, in un continuo interscambio culturale tra l’Italia e l’Europa e per aver riscoperto e fatto conoscere il costume e la storia  nettunese.

Appuntamento al 2015 quando per la V edizione sarà anche pubblicato un opuscolo riassuntivo del lavoro finora svolto dall’Accademia sul nostro territorio.

 

Ufficio Stampa

ACCADEMIA DELIA

 

Apri il PDF “I Tridenti d’Oro alla Cultura 2014″

 

di Claudio Cantelmo

 

Il 5 Agosto si è tenuta ad Anzio la consueta adunata estiva degli aderenti al Reparto “Pierino Maruffa” di Nettunia.

La manifestazione dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia, guidata dal Comandante Bruno Sacchi, è stata proceduta da un omaggio al Campo della Memoria, il Sacrario dei Caduti della RSI di Nettuno.

I convenuti si sono poi recati nella cittadina neroniana dove hanno ascoltato le relazioni sulle attività svolte dall’A.N.A.I. del Comandante Sacchi e del Consigliere Nazionale Leonardo Romano, giunto appositamente da Milano quale delegato del Presidente Nazionale Comandante Pierpaolo Silvestri per sopraintendere all’adunata e stilare apposita relazione di servizio.

Presenti, tra gli altri, lo storico locale Prof. Alberto Sulpizi, il ricercatore Dott. Pietro Cappellari, Valerio Borghese (nipote del Comandante della Decima MAS Junio Valerio) e Benito D’Eufemia (fiduciario di Roma per l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia).

Tra le prossime manifestazioni del Reparto A.N.A.I. di Nettunia vi saranno l’omaggio dal Deputato repubblicano-fascista Armando Casalini nel Novantennale dell’assassinio per mano comunista e un’intensa propaganda in ricordo del Centesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia, per abbattere la coltre del silenzio pacifista imposta su questo storico evento che fece della nostra Patria una Nazione libera, indipendente e grande; per ricordare quella generazione di eroi formatasi nelle trincee che seppe rinnovare il nostro Paese, porsi come avanguardia del progresso sociale, compiere nell’Unità nazionale il primo passo per la conquista di un compiuto Risorgimento, ove all’Italia fosse riconosciuta una missione da adempiere e un primato da esercitare nel mondo.

Al termine della manifestazione patriottica, sono stati distribuiti, in forma solenne, i riconoscimenti ufficiali che Martina Mussolini, Capo dell’Ordine dell’Aquila Romana, ha voluto motu proprio concedere a tutti gli aderenti al Reparto che si sono distinti nelle iniziative per il 70° Anniversario della Repubblica Sociale Italiana in provincia di Rieti.

Il Comandante Sacchi ha, infine, ringraziato i camerati della crew che ha ospitato l’adunata per la collaborazione e la solidarietà espressa.

 

Claudio Cantelmo

onoreficenza-di-commendatore

LXX Anniversario della Fondazione dell’Ordine dell’Aquila Romana

1944 – 2014

 

In Svizzera, si sono celebrati, il 27 luglio 2014, i 70 anni di fondazione dell’Ordine dell’Aquila Romana, prendendo possesso quale V Capo dell’Ordine Martina Mussolini, accompagnata dal Cancelliere Vittoria Mussolini e dal Primo Segretario dell’Ordine Guglielmo Giovanelli Marconi, che unisce nel suo nome la memoria dell’illustre scienziato Italiano.

Alle ore 16,00 alla presenza di una folla di gente convenuta sul posto per l’evento da più parti d’Italia, si è dato inizio alla celebrazione del 70° con la Santa Messa nell’antichissima Chiesa dei Santi Gerolamo e Bernardino in Monte Carasso (Bellinzona), officiata da Mons. Francesco Millimaci, Generale di Brigata e già Primo Cappellano Capo della Regione Militare Nord.

 

Il momento solenne e più commovente alla presenza dei Labari delle Associazioni Combattentistiche Nazionali, di autorità civili, accademiche e militari provenienti da diversi paesi Europei, frutto del lavoro delle Delegazioni estere dell’Ordine, scandendo i tempi la tromba del Bersagliere Cavietti di Milano,  è stata l’assunzione dei poteri di V Capo dell’Ordine, Martina Mussolini, ricevendo l’investitura del Collare dell’Ordine dopo le letture del Vangelo.

 

Alle 17,30 i convenuti si sono riuniti nella sala delle conferenze addobbata per l’evento, sita nel monumentale complesso del Convento delle Agostiniane, e dopo il saluto rivolto ai presenti dal Capo dell’Ordine e l’Inno a Roma, al suono della Marcia 4 Maggio, marcia d’ordinanza del nostro glorioso Esercito, hanno sfilato i Labari dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (A.N.A.I.), dell’Associazione Nazionale Combattenti Italiani di Spagna (ANCIS) e dell’Associazione Nazionale Volontari di Bir el Gobi, prendendo posto sul palco d’onore per ricevere la Medaglia d’Oro appuntata da Martina Mussolini motivando: a ricordo di quanti con il loro estremo sacrificio hanno onorato la Patria!

Momenti solenni ed intensi, ricevendo il Capo dell’Ordine, appuntata dai superstiti combattenti di Spagna sulla fascia, l’emblema della Falange spagnola.

La cerimonia è proseguita con il conferimento dei cavalierati a quanti in questi anni si sono resi degni dell’onore ricevuto e per la prima volta è stato conferito per eccelse motivazioni il privilegio araldico del Capo Littorio.

 

Al termine della celebrazione, il Generale di Brigata Giuseppe Falconi saliva sul palco d’onore e quale militare prendeva dal Capo dell’Ordine il Collare, ponendolo su un cuscino di raso verde e lo collocava sotto il tricolore Italiano. Qui il Capo dell’Ordine accompagnato dal Generale lasciando il palco, prendeva posto tra i convitati e voltandosi tutti verso il tricolore si è suonato e cantato l’Inno di Mameli: con questo atto, esempio per tutti il Capo dell’Ordine, ha indicato che fuori dal magistero dell’Ordine è un comune degno cittadino Italiano, conscio dei propri diritti e dei propri doveri, innanzi tutto l’Italia!

Infine, come già anticipato nel titolo di questo articolo, rendiamo noto con piacere  che l’ordine dell’Aquila Romana ha conferito al nostro vicepresidente Carlo Alberto Biggini l’onoreficenza di commendatore

Martedì 5 Agosto 2014, in ricorrenza delle solenni celebrazioni per la Madonna della Neve, si sono commemorati i caduti e le vittime della strage britannica di Bacugno. Il 10 Febbraio 1944, infatti, la piccola frazione del Comune di Posta (Rieti) venne sconvolta da uno dei tanti eccidi rimasti impuniti causati dalla strategia terroristica degli Angloamericani. Due aerei inglesi, avvistata una corriera, compirono un duplice criminale mitragliamento uccidendo 13 persone.

Il Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti, a suo tempo, aveva avanzato la proposta di erigere un monumento a perenne ricordo di quel drammatico fatto di guerra, ma l’Amministrazione di Posta non aveva risposto. Tuttavia, il nuovo Sindaco Serenella Clarice ha considerato degna di attenzione l’iniziativa e, mobilitando enti locali, associazioni e semplici cittadini, ha compiuto un vero e proprio miracolo, inaugurando una stele con i nomi di coloro che vennero assassinati dai “gangster dell’aria”, quelli che al tempo erano conosciuti con l’emblematico nome di “Angloassassini”.

All’affollata manifestazione hanno partecipato l’Amministrazione comunale, tutti i cittadini di Bacugno, delegazioni ufficiali dei Comuni vicinori, con i Sindaci di Borbona, Amatrice e Cittareale e una rappresentanza del Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti guidata dal Dott. Pietro Cappellari.

«Per la prima volta, dopo 70 anni – ha dichiarato Cappellari – si ricorda un evento da sempre sottaciuto con l’inaugurazione di un monumento che rende giustizia ai caduti e alle vittime di così insano sadismo. Insieme alle mamme e ai bambini che trovarono triste sorte sulla “corriera della morte” di Bacugno, ci piace ricordare Giovanni Mezzetti, Commissario del Capo della Provincia in Amatrice e Commissario politico del Fascio di quel Comune. Uomo onesto e probo amministratore che, in quei mesi di tragedia nazionale, non tradì la sua Patria e rimase al suo posto di combattimento. Gli uomini della RSI, anche in provincia di Rieti, furono in “prima linea”, come ben dimostra il suo sacrificio. Un sacrificio, quello di Mezzetti e degli altri innocenti passeggeri della corriera, da troppo tempo dimenticato per non disturbare la vulgata antifascista e anti-italiana tutta intenta a creare miti e leggende, a falsare la storia. Oggi, non è più così. Oggi possiamo parlare del terrorismo angloamericano e della guerra ai civili che le aviazioni statunitensi e britanniche pianificarono contro il popolo italiano perché venisse moralmente abbattuto, rendendo impossibile ogni resistenza e perché si inginocchiasse a chiedere una pace, qualsiasi pace, anche la più umiliante. A Bacugno ricordiamo i caduti della RSI e le vittime innocenti di quei criminali di guerra. Domani saremo a Poggio Bustone, a Morro Reatino, a Configni, a Leonessa, ovunque via sia una storia da raccontare. Perché noi non dimenticheremo. Mai».

 

Ufficio Stampa

Comitato Pro 70° Anniversario

della RSI in Provincia di Rieti

Da un amico lettore ho ricevuto una mail dalla quale estrapolo alcune notizie: <(…) Il Pontefice (Papa Francesco (nda) ha poi affrontato il delicato tema delle persecuzioni razziali ai danni dei pentecostali, quasi come fossero dei pazzi che rovinavano la razza, c’erano anche dei cattolici e vi chiedo perdono per quei fratelli e sorelle cattolici che non hanno capito e sono stati tentati dal diavolo>. Ha detto Bergoglio riferendosi a una disposizione del regime fascista poi confluita nelle leggi razziali. Prima di andare avanti, osservo: Papa Bergoglio è un Pontefice, quindi gode – o dovrebbe godere di un potere divino – l’infallibilità. Ė così? Invece no!

Andiamo avanti.

Premessa essenziale: quanto ho avuto modo di leggere e ascoltare in materia, e continuamente, in questi anni, non mi aiuta a trovare quella fonte di speranza che tuttavia vado cercando.

Provo a spiegarmi. Ricordo che anni fa l’ex Papa Benedetto XVI si recò in visita ad Auschwitz e, almeno a me, ha mostrato un aspetto della pietà (quella che dovrebbe essere) la pietà cristiana, perlomeno distorto. Infatti mi parve che l’espressione del volto del Sommo Pontefice lungo il vialone del lager fosse artificioso, non sentito. Inoltre, per incrementare ancor più il pathos del momento, aveva invocato Iddio con queste parole: <Dove eri mentre accadevano questi avvenimenti?>. Anche se non sono un teologo, mi sembra che questa invocazione sia uno po’ blasfema, perché, se ben ricordo, la dottrina della Chiesa insegna che l’operato di Dio è imperscrutabile, cioè vale come dogma. E ancora, perché questa invocazione non venne e viene estesa anche in merito ai moderni lager, come quella di Quantanamo, o alle prigioni degli americani in Iraq o in Afganistan? O perché non ricordare le tante atrocità commesse dai vincitori delle guerre del XX Secolo? Perché mai abbiamo visto un Pontefice inginocchiarsi accanto alle tombe dei mille e mille seminaristi, suore o semplici sacerdoti assassinati, nel corso della guerra civile di Spagna, dai miliziani rossi? Con la massima reverenza, Santo Padre, perché non chiede “dove era Dio?” quando i titini gettavano uomini, donne e bambini, nelle foibe? E i gulag? Non vorrei che queste invocazioni non furono espresse perché “non politicamente corrette”.

Ecco, fra i tanti, i miei dubbi: le mie pur scarsissime capacità intellettuali mi fanno pensare che Papa Benedetto XVI avesse il dovere di essere vicino ai deboli, ai perdenti: esattamente il contrario di come è avvenuto, e come, ancorate oggi, avviene.

(altro…)

di Luciano Garibaldi

Da eroe di Verdun a imputato nella Norimberga francese. Ma certamente amò la sua patria non meno di Charles de Gaulle

 

petainVichy è una celebre cittadina termale nel cuore della Francia, a Sud di Parigi e a Ovest di Lione. Entrò nella storia allorché l’Assemblea nazionale (il Parlamento francese) la scelse quale sede del governo nella seduta del 10 luglio 1940, dopo l’occupazione di Parigi da parte dei tedeschi e la firma dell’armistizio nella foresta di Compiègne. Da quel giorno, Vichy è diventata sinonimo di «governo fantoccio», così come, nell’Italia della Repubblica sociale italiana di Mussolini, lo divenne Salò. Anche Salò, così come Vichy, era nulla più che una ridente cittadina di vacanze. Ma mentre Vichy fu espressamente scelta come sede del capo del governo (e poi dello Stato), maresciallo Pétain, Salò dovette la sua fama al fatto che vi si era trasferita l’agenzia di stampa Stefani (l’Ansa di allora), per cui tutte le notizie che pervenivano per telescrivente ai giornali erano datate Salò. In realtà, la Repubblica di Mussolini non ebbe mai una vera e propria capitale, essendo i ministeri dislocati in varie città (Brescia, Padova, Milano, e, prima della sua liberazione, o conquista, ad opera degli anglo-americani, il 4 giugno 1944, Roma) ed essendo Gardone la sede del capo dello Stato, cioé Mussolini. Al contrario, Vichy ospitava presidenza della Repubblica, Governo, ministeri e ambasciate. In ogni caso, «Repubblica di Vichy» e «Repubblica di Salò» rimangono sinonimo di due Stati privi di autentica sovranità, sottomessi alla potenza militare di Hitler.

Ma veniamo alla figura e all’opera di Pétain. Henri-Philippe Pétain nasce il 24 aprile 1856, quarto figlio di una pia famiglia contadina di Cauchy-à-la-Tour, nella regione del Pas-de-Calais, nel Nord della Francia. La madre muore di parto dando alla luce il quinto figlio, e Philippe cresce sotto l’influenza dello zio materno, l’abate Jean-Baptiste Legrand, che lo fa studiare nelle scuole cattoliche e poi lo avvia alla carriera militare.

Entra infatti all’accademia di Saint-Cyr nel 1876, 402esimo in graduatoria su 412 ammessi. Uscirà due anni dopo al 22esimo posto. Data da allora la sua attenzione per il soldato di truppa: «Non comandiamo dei soldati», dice, «ma degli uomini». Nel 1888 entra alla Scuola di Guerra e si qualifica con «bene». Nel 1900, Maggiore, è insegnante di tiro alla Scuola normale di Châlons-sur-Marne, ma entra in conflitto con un superiore, teorico dell’«ordine chiuso». Secondo Pétain, invece, «le pallottole uccidono» e i soldati dovrebbero agire in «ordine sparso» e curare la precisione di tiro. Viene sostituito e dal 1901 al 1907, insegnante alla scuola di guerra, è soprannominato «il principe che non ride». Si crea inimicizie tra gli apologeti dello slancio offensivo, sostenendo che «la volontà non basta, deve essere sostenuta dalla forza». Allo scoppio della Grande Guerra, con il grado di Colonnello facente funzione di Generale, comanda una Brigata durante la ritirata del 1914 e, allo stabilizzarsi del fronte, passa al comando di una Divisione. Nel 1915, Generale, è al comando di un Corpo d’Armata. Di fronte ai sanguinosi scacchi dell’offensiva nella Champagne, è amaramente ironico verso le velleità d’attacco dello Stato Maggiore, che lo considera «troppo sulla difensiva». Ottiene però notevoli successi difensivi a Reims e Arras.

Il 25 febbraio del 1916, comandante della seconda Armata di riserva, viene nominato dal capo dell’esercito, Joffre, alla guida del settore di Verdun, che è sotto un violento attacco tedesco. E qui «si valse la sua nobilitate». Durante la battaglia, Pétain chiede e ottiene lo sforzo supremo alla truppa con una frase diventata celebre, contenuta nell’ordine del 9 aprile alla Seconda Armata: «Courage, on les aura (coraggio, li avremo)». Ma quella frase celebre a lui attribuita è del suo vice, Serrigny. Anzi, il futuro Maresciallo, leggendola, protesta: «Questo non è francese corretto», ma Serrigny lo convince a non modificarla. Il segreto della vittoria di Verdun è il metodo di difesa organizzato da Pétain, poi mantenuto dal suo successore Nivelle. Per alleviare lo sforzo del singolo soldato, Pétain introduce il sistema del «tourniquet»: dei circa 330 battaglioni di fanteria dell’esercito francese del 1916, 259 passeranno a rotazione, per pochi giorni alla volta, nell’inferno di Verdun. La battaglia è un massacro: il primo luglio 1916, quando i tedeschi cessano gli attacchi, 350mila francesi e 400mila tedeschi sono morti su un fronte lungo quaranta chilometri e profondo al massimo dieci chilometri. Tutta la battaglia è costellata di episodi e luoghi saldi ancor oggi nella memoria dei francesi: la lotta per i forti di Douaumont, Vaux, la quota 304, limata da uno spaventoso bombardamento d’artiglieria, le creste de Le Mort Homme, la Côte du Poivre.

Ottenuta la Legion d’Onore, Pétain è chiamato al comando del Gruppo d’Armate centrale. Nell’aprile 1917, l’offensiva del generale Nivelle, che dovrebbe finalmente aprire una breccia nello schieramento tedesco, fallisce. I tedeschi bloccano i francesi con un devastante sbarramento d’artiglieria. E’ un massacro talmente grande che nella fanteria si scatena un’ondata di ribellioni. A Pétain viene affidato l’ingrato compito di reprimere la rivolta. Il generale è costretto a ordinare 54 esecuzioni.

Nel 1918 Pétain è a capo dell’esercito francese. Criticato dagli Alleati per il suo atteggiamento difensivo, risponde: «Io aspetto gli americani e i carri armati», americani e carri armati che arrivano nel maggio 1918 e contro i quali si infrangono le ultime offensive tedesche. Nell’estate 1918 inglesi, francesi e americani passano all’attacco, respingendo il nemico verso il Reno. Il giorno dell’armistizio, l’11 novembre 1918, un ordine del giorno appare sulla porta sbarrata del comando di Pétain: «Chiuso causa vittoria». E’ nominato Maresciallo di Francia e nel 1922 ispettore generale dell’esercito.

Nel 1925 è chiamato in Africa del Nord, dove reprime la rivolta marocchina nel Rif. Nel 1934 è ministro della Guerra. L’anno successivo è ambasciatore di Francia in Spagna. Ed è in questa veste che deve prendere atto – come tutti gli altri cittadini francesi – della dichiarazione di guerra presentata da Parigi, unitamente a Londra, alla Germania di Hitler che il 1° settembre 1939 ha invaso la Polonia. La sua avventura a capo del governo di Vichy sotto l’occupazione tedesca, ha inizio dopo la bruciante sconfitta che la Francia è obbligata a sottoscrivere a Compiègne il drammatico 22 giugno 1940. Mentre il generale Charles De Gaulle si ribella al governo che ha firmato l’armistizio e ripara in Gran Bretagna promettendo guerra ad oltranza alle truppe di Hitler, il capo del governo Paul Reynaud nomina Pétain suo vice e, poco dopo, si dimette, lasciandogli la carica di Primo Ministro. Da parte sua, il presidente della Repubblica, Albert Lebrun, gli concede i pieni poteri. Poi, il 18 aprile 1942, mentre in tutta la Francia infuria la guerra civile tra i soldati fedeli al governo e quelli che, divenuti partigiani, ubbidiscono a De Gaulle, Pétain assurge alla carica di capo dello Stato e affida la guida del governo a Pierre Laval.

Nulla di diverso da ciò che accadrà tra poco in Italia, spaccata in due: i fedeli all’alleato tedesco, e quelli che il tedesco lo odiano a morte. Ma la fine è ormai vicina. Incalzati dalle truppe alleate dopo lo sbarco in Normandia, i tedeschi rientrano in Germania. Pétain (in un certo senso il Mussolini bianco rosso e blu), è imprigionato e sottoposto a processo.

L’origine del processo a Pétain risale a un documento legale approvato il 3 settembre 1943 dal Comitato francese di liberazione nazionale. In questo testo, firmato da De Gaulle e dal generale Giraud, si dice che «Philippe Pétain e i suoi ministri sono colpevoli di tradimento per avere, il 22 giugno 1940, firmato un armistizio contro la volontà del popolo […] la Germania restando ciononostante il nemico fino alla firma di un trattato di pace, la collaborazione con essa costituisce un altro aspetto di tradimento». In sostanza, i capi d’accusa si basano 1) sull’assunto dell’illegittimità del governo di Pétain nel firmare l’armistizio senza consultare il Parlamento; 2) nella situazione di armistizio (che non è pace), la collaborazione con i vincitori, in particolare nelle operazioni di polizia e con l’invio di lavoratori francesi in Germania, costituisce tradimento.

L’Alta Corte si mette al lavoro il 18 novembre 1944, il processo inizia il 23 luglio 1945. L’istruttoria è incompleta a causa della mole di documenti da consultare, ed è contestata sotto l’aspetto formale. Senza entrare nel merito delle questioni giuridiche, le ambiguità maggiori sono sulla legittimità o meno del regime di Vichy. Pétain aveva sospeso di fatto l’Assemblea nazionale, aveva modificato la Costituzione, ne aveva progettata una nuova. Per l’accusa, questo è tradimento; per la difesa, è stato necessario nella situazione di emergenza e, nelle parole di Pétain, «per evitare alla Francia quello che è capitato alla Polonia [nel 1939]». L’accusa fa propria la tesi di un complotto premeditato da parte di Pétain per rovesciare la Repubblica e sostituirla con un regime autoritario, e trasforma questa fase del dibattimento in un processo alla politica francese degli anni ‘30, ma non si riesce a dimostrare un’attiva partecipazione di Pétain a nessun movimento eversivo di destra.

L’accusa vince sul punto della collaborazione. Gli argomenti giuridici sono solidi. Collaborare in regime di armistizio col nemico è tradimento. La difesa cade definitivamente su un punto delicatissimo, la repressione della Resistenza. E’ una sequenza drammatica.

Il difensore di Pétain, Jacques Isorni, chiama il generale de Lanurien, appartenente alla cerchia militare del Maresciallo e suo fedele, sul banco dei testimoni. La prolissa deposizione di de Lanurien, oratore efficace, segue la linea difensiva del «male minore per la Francia». Ma un giurato chiede al generale di chiarire alla Corte il pensiero di Pétain sulla Resistenza. Si riferisce ad una lettera del 15 marzo 1944, scritta da de Lanurien a Pétain. Ne legge due frasi: «Bisogna che si chiarisca che è il capo dello Stato stesso, e non il capo del governo, che ha voluto, concepito e precipitato la repressione […] il cui effetto benefico è stato immediato […]; che sia ben chiaro che queste due azioni benefiche, quelle di Darnand e di Henriot [due collaborazionisti fascisti, responsabili della repressione, n.d.A.], debbano essere Vostra opera personale». Il giurato chiede a de Lanurien se nega quanto scritto. De Lanurien: «Non nego nulla, riprendo come conclusione la frase del Maresciallo: ‘Non ho mai combattuto la Resistenza, ho sempre combattuto il terrorismo’». Ma la voglia di vendetta dei vincitori è più forte di qualsiasi ragionamento. Il 15 agosto 1945 viene emessa la sentenza di morte, con 14 voti favorevoli e 13 contrari. Vista la tarda età dell’imputato, la pena è commutata in ergastolo. Il provvedimento è firmato da De Gaulle, allora capo del governo provvisorio. Pétain, ormai quasi completamente sordo e con la poca memoria rimastagli, viene portato al forte di Portalet, sull’isola di Yeu. Qui morirà il 23 luglio 1951, all’età di 95 anni.

Assemblea Costituente e non riforme solo strumentali
Molti lettori, che seguono regolarmente il bollettino del CESI, hanno chiesto perché Il Sestante non sia uscito nel corso del mese di luglio. La ragione è presto detta: il dibattito politico-parlamentare quotidiano e i commenti da parte dei mass media sono stati così superficiali, oppure così incerti (spesso equivoci) che non era possibile trarre indirizzi oppure giudizi adeguati e ciò per la valutazione delle problematiche costituzionali ed istituzionali nonché di quelle riguardanti la politica sociale ed economica. Ciò è tanto vero e significativo che la maggior parte degli studiosi di tali questioni si è trattenuta dall’esprimersi malgrado la quasi quotidiana pubblicazione di documentazioni e dati estremamente significativi riguardanti l’aggravamento della crisi sistemica in atto.
Il CESI si riserva di pubblicare più avanti le sue valutazioni riguardanti le questioni sociali ed economiche (e lo farà insieme con la segnalazione dei dati rilevati dalle fonti più autorevoli), esponendo altresì le indicazioni alternative ritenute adeguate alla loro risoluzione. Il nostro Centro Studi ritiene invece improcrastinabile effettuare, a conclusione del mese di luglio, una approfondita analisi riguardante la maniera e la pericolosità delle cosiddette “riforme costituzionali” così superficialmente e strumentalmente oggetto in queste settimane del dibattito parlamentare e di quello politico in corso tra gli schieramenti che si confrontano. Gli argomenti, così acutamente qui di seguito presentati dal Vicepresidente del CESI, prof. Franco Tamassia, conducono a previsioni affatto ottimistiche pur nella speranza che si presenti una via di uscita costruttiva ad opera di quegli italiani che abbiano coscienza della situazione, coraggio di affrontarla in maniera radicale (e senza il fragoroso vociare dei velleiarismi renziani). Ormai non è più tempo di fare distinzioni tra i giudizi espressi da differenti appartenenze ideologiche o di schieramento quando essi sono illuminanti.
Per tutti citiamo quanto scrive il prof. Piero Ignazi sull’editoriale di Repubblica di giovedì 24 luglio: «Il nostro Paese ribolle di frustrazione ed aspetta un segnale in positivo, dal governo per scrollarsi di dosso apatia e rassegnazione e rimettersi in moto; ma anche in negativo, da qualcuno o qualcosa che accenda la miccia dell’esasperazione sociale. Se la speranza scolora in illusione, allora monta la rabbia. Le precondizioni per lo scatenarsi di un movimento sociale in forme anche aggressive ci sono tutte». Dopo aver osservato che malgrado «i riflettori in questi giorni … [siano] puntati sulle riforme istituzionali» il prof. Ignazi dice che «l’enfasi che il governo pone su questo provvedimento è inversamente proporzionale sia all’interesse dell’opinione pubblica che agli effetti “immeditati” sulla vita delle istituzioni e dei cittadini». Ciò nonostante il prof. Ignazi spera che vi siano risultati tangibili in futuro anche se «rimane in agguato un cambio radicale di umore con un passaggio alla sfiducia e persino al ribellismo».
Da parte nostra invece speriamo che vi sia una forza politica capace di organizzare menti e militanti per l’indizione di una Assemblea Costituente che preveda non un bicameralismo ripetitivo, ma un vero bicameralismo perfetto, ossia differenziato nei compiti e nella base rappresentativa. (g.r.)

SOMMARIO DI QUESTO NUMERO

- Sempre più diffusa la richiesta di un radicale cambiamento. Le riforme: pretesto per sopravvivere e strumento di secessione di Franco Tamassia. 1. La doppia natura del processo riformistico; 2. L’elettività dei cosiddetti Senatori; 3. Rappresentanza paritaria o per entità demografica; 4. Il mito della stabilità; 5. La minaccia delle elezioni anticipate; 6. La Costituente; 7. Meglio niente che queste riforme?

Clicca qui per scaricare il bollettino completo

Sabato 2 Agosto 2014

alle ore 19:00

presso il Circolo “Barbarigo”

in Via Baccarini, 10 – Anzio

alla conferenza del

  1. Pietro Cappellari

La Guardia della Rivoluzione

La Milizia fascista nel 1943:

crisi militare – 25 Luglio – 8 Settembre – Repubblica Sociale

 Info:

https://www.facebook.com/events/1432496273705287

da Il Giornale d’Italia

“Ancor oggi non si sa da dove venisse e chi fosse realmente Mario Lupo, se questo fosse il suo vero nome o, come in molti sostengono, solo un nome di copertura” Così lo storico nettunense Pietro Cappellari, autore di importanti studi sulla guerra civile nel reatino, racconta Mario Lupo, importante protagonista della resistenza sui monti di Rieti nel ’43-’44.

Detto il “partigiano azzurro” perché ufficiale del Regio Esercito, Lupo aveva aderito al movimento clandestino e, nell’inverno 1944 aveva animato un folto gruppo combattente che aveva acquistato subito notorietà sia tra la popolazione sia tra tedeschi e la Guardia Nazionale Repubblicana. Poi, alla fine di marzo dello stesso anno, la scomparsa sul confine tra Lazio ed Umbria. E l’oblio.

Dott. Cappellari, chi è Mario Lupo?

“Certamente è stato il Comandante partigiano più importante del Reatino”.

Qual è stato il suo ruolo nella resistenza in Lazio e Umbria?

“Dopo lo sbarco angloamericano a Nettunia (22 Gennaio 1944), si diffuse l’idea che la fine della guerra fosse ormai questione di giorni. Per questo le decine di renitenti alla leva della RSI e gli “sbandati” del post-8 Settembre del Regio Esercito – che fino ad allora erano vissuti alla macchia senza intraprendere nessuna iniziativa – decisero di entrare in azione. Questo in tutta Italia, provincia di Rieti compresa. Si poteva contare su due cardini: il prossimo arrivo degli Alleati e la fragilità strutturale dei presidi di montagna della GNR che, essendo isolati, non potevano in nessun modo essere difesi (e finirono per essere il bersaglio privilegiato ed esclusivo della guerriglia). E’ infatti nel Febbraio 1944 che inizia l’attività di quella che sarà la cosiddetta banda “Lupo”, dal nome del suo Comandante, Mario Lupo per l’appunto. Nel Marzo seguente sarà a questa unità che si attribuiranno le varie azioni partigiane che si ebbero a contare – sempre con maggiore frequenza – nell’Alto Reatino, a Nord di Rieti, nel settore di Rivodutri. Tra queste anche la strage di Poggio Bustone (10 Marzo 1944) quando – lungi dal verificarsi la famosa “battaglia” che la vulgata antifascista ci propina da decenni – ben tredici uomini della RSI (tra cui il Questore di Rieti) vennero fucilati dopo che si erano arresi e avevano deposto le armi. Tuttavia, le responsabilità della strage sono da addebitarsi ad elementi comunisti sconfinati dal Ternano, giunti in paese dopo l’intervento armato della banda “Lupo”. Ecco, il nocciolo della questione: il ruolo dei bolscevichi di Terni nell’organizzazione della guerriglia nel Reatino. Perché qui si entra nel mistero più completo: del resto, Mario Lupo – che comunista non era e, probabilmente, per via del suo essere un Ufficiale del Regio Esercito, era un monarchico – non gradiva essere assorbito e comandato dagli “ultimi arrivati” che, proprio nel Febbraio 1944, stavano allestendo quella che passò alla storia con il nome di Brigata “Gramsci”. Abbiamo detto mistero, perché Mario Lupo non ebbe la possibilità di dire nulla a tal proposito, “scomparendo” improvvisamente, senza lasciar traccia di sé, durante il grande rastrellamento italo-tedesco del 31 Marzo – 4 Aprile 1944. Un’operazione di bonifica che mise fine alla neonata Resistenza reatina (senza, per altro, sparare un solo colpo: il “conto” fu pagato essenzialmente dalla popolazione civile travolta dal rastrellamento)”.

Nessuna notizia dal marzo 1944: morto o semplicemente sparito?

“Il mistero è tutto qui. Per i responsabili della Brigata “Gramsci”, Mario Lupo si era salvato, ripiegando verso Nord e lasciando per sempre la provincia. Una ricostruzione che ha dell’incredibile che, infatti, fu affiancata da una più “solida” – almeno per l’immaginario collettivo – che narrava della morte in combattimento. Tuttavia, anche questa “soluzione” mostrava tutta la sua inconsistenza all’esame dei documenti e delle testimonianze disponibili. Ma la “storia” – di certo – l’avrebbe scritta il PCI e, di conseguenza, nessuno trovò nulla da obiettare nelle contraddittorie ricostruzioni dei fatti, anche perché Mario Lupo – incredibilmente – scomparve subito non solo fisicamente, ma anche dalla memoria collettiva. Di lui non si parlò più. Punto e basta. Non fu mai riconosciuto partigiano della “Gramsci” (lui che era stato il più importante Comandante della Resistenza reatina e che, a detta dei comunisti, aveva accettato la subordinazione alla Brigata “rossa”). Non venne – altrettanto incredibilmente – nemmeno inserito tra i caduti (sebbene in quei giorni, per infoltire le schiere dei “martiri della libertà”, si insignirono della prestigiosa e remunerativa qualifica di “caduto partigiano” anche semplici civili e fascisti repubblicani che mai nulla avevano avuto a che fare con la guerriglia!). Niente, Mario Lupo doveva essere dimenticato. Per sempre. Perché? La soluzione del mistero sta tutta qui. Ancor oggi non si sa da dove venisse e chi fosse realmente Mario Lupo, se questo fosse il suo vero nome o, come in molti sostengono, solo un “nome di copertura”. Non è probabilmente un caso se durante il processo ad alcuni partigiani accusati della strage di Morro Reatino (19 Maggio 1944), si disse che Mario Lupo fosse stato ucciso proprio dai comunisti perché non avrebbe mai accettato l’uccisione indiscriminata di persone innocenti come gli era stato proposto. Ma nulla fu possibile appurare, ovviamente”.

Dai processi del dopoguerra sulle esecuzioni della “Gramsci”, emerge il nome di una donna sua amante e che sarebbe ancora in vita. Di chi si tratta?

“Si tratta della partigiana Gianna Angelini, all’epoca una maestra elementare di Vallunga di Leonessa, che fuggì sulle montagne per amore di un partigiano. Durante un interrogatorio sostenne che, nel Marzo 1944, era fidanzata con Mario Lupo”.

Secondo lei Gianna Angelini potrebbe essere a conoscenza della sorte dell’ ufficiale?

“A tanti anni di distanza, con la scomparsa di tutti i protagonisti di quel periodo, ancora nulla è possibile dire sulla sorte di Mario Lupo. E’ evidente che la “consegna del silenzio” che si sono imposti i comunisti è stata granitica e non ci vuole poi molto a comprendere il perché. Certo, se fosse vero che Gianna Angelini fu la fidanzata di Mario Lupo, chi meglio di lei potrebbe contribuire a dipanare il mistero che da settanta anni avvolge la figura dello “scomparso” Comandante partigiano? Ma dubito che il sole della verità potrà mai illuminare questa pagina nera della Resistenza”.

Top