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Dai diari di Benito Mussolini scritti alla Maddalena: Nessuna meraviglia che il popolo abbatta gli idoli ch’esso stesso ha creato. E’ forse l’unico mezzo per ricondurli nelle proporzioni della comune umanità.
Fra qualche tempo il fascismo tornerà a brillare all’orizzonte. Primo, in conseguenza delle persecuzioni di cui i “liberali” lo faranno oggetto, dimostrando che la libertà è quella che ognuno riserva per sé e nega agli altri; secondo, per una nostalgia dei “tempi felici” che poco a poco tornerà a rodere l’animo degli italiani.

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Domenica 20 Ottobre 2013 è stato presentato l’ultimo studio del Dott. Pietro Cappellari, ricercatore della Fondazione della RSI, sulle vicende che videro protagonista la Milizia fascista nel 1943, anno cruciale per le sorti della nostra Patria.

La presentazione, organizzata nell’ambito della prestigiosa rassegna culturale Derive, con il patrocinio del Comune di Nettuno e della Pro Loco nell’affascinante cornice del Forte Sangallo, è stata preceduta da un intervento del Prof. Alberto Sulpizi, storico del territorio nettunese, che ha illustrato al folto pubblico presente nella sala la vita e le avventure del condottiero Filippo Moretto “difensore di Nettuno”. Sulpizi, che da anni si batte per un riconoscimento cittadino all’illustre Capitano di ventura vissuto nel Cinquecento, ha affascinato gli intervenuti con aneddoti unici e scoperte storiche importanti su un personaggio certamente da riscoprire, non solo a Nettuno. Si tratta di una delle più belle rappresentazioni umane e culturali dell’Italiano del XVI secolo, in cui l’aristocrazia e le virtù militari si fondevano in un unicum straordinario, dipingendo il volto di un Italiano guerriero ammirato ben oltre in confini della divisa Patria.

Successivamente, il Prof. Alberto Sulpizi ha intervistato il Dott. Pietro Cappellari sul suo ultimo lavoro: La Guardia della Rivoluzione. La Milizia fascista nel 1943: crisi militare – 25 Luglio – 8 Settembre – Repubblica Sociale, edito dalla Herald Editore di Roma.

Cappellari ha illustrato come le Camicie Nere, in quel cruciale 1943, rappresentarono quanto di meglio le Forze Armate italiane seppero schierare sui campi di battaglia, fondendo in un unico organismo politico-militare le energie del volontarismo di guerra, l’orgoglio di un Corpo di aristocràti, le idealità di un romanticismo politico di stampo nazional-patriottico. I punti centrali su cui si è dibattuto durante l’intervista sono stati il comportamento della Milizia il 25 Luglio (la caduta del Regime) e l’8 Settembre (la resa incondizionata e il conseguente passaggio al nemico). Ebbene, grazie alla documentazione ritrovata da Cappellari è stato possibile finalmente fare chiarezza su molti aspetti di questa oscura vicenda: le Camicie Nere non intervennero per stroncare il colpo di Stato del 25 Luglio solo perché, in mancanza di ordini, decisero di non scatenare una guerra civile (contro il Regio Esercito) proprio nel mentre gli eserciti invasori (chiamati dagli antifascisti) marciavano sul sacro suolo della Patria. Ma non fu una resa, fu semmai uno stato di “indotta quiescenza”, ben sapendo che, presto, la storia avrebbe dato ai fascisti ancora una possibilità di rivincita. E questa vi fu l’8 Settembre quando, con la fuga del Re e lo squagliamento delle Regie Forze Armate, la Milizia rimase in armi, si fece Stato, riaprì le Federazioni del Partito Fascista chiuse da Badoglio e costituì l’ossatura sulla quale, successivamente, prese forma la Repubblica Sociale Italiana.

 

Primo Arcovazzi

L’Europa deve prendere coscienza della sua missione nel mondo
Quando reclamiamo un ruolo e una progettualità per l’Italia, come potenza europea e altrettanto facciamo per l’Europa come potenza mondiale, non intendiamo riferirci ai concetti di egemonia e tantomeno di prevaricazione, che potrebbero ricordare antiche ambizioni storiche di colonialismo, bensì alla necessità che le potenzialità civili ed economiche, nazionali ed europee, dismettano l’attuale condizione di passività per realizzare una forte presenza costruttiva dell’Italia e dell’Europa verso il contesto mondiale. Vi sono molti campi nei quali l’Italia e l’Unione Europea sono colpevolmente assenti nelle aree del mondo anelanti ad uno sviluppo superiore. Ci riferiamo in particolare alle nazioni rivierasche del Mediterraneo meridionale e a quelle del Vicino Oriente asiatico, ma non dobbiamo trascurare assolutamente i problemi centro-africani. La colpevole non presenza europea riguarda anzitutto il mancato contributo spirituale ed etico a comunità che solo da poco stanno prendendo consapevolezza di se stesse, nonché il disinteresse verso lo sviluppo istituzionale delle nazioni di recente formazione che avrebbero invece bisogno di una forte assistenza nella strutturazione statale, nella organizzazione scolastica e della cultura, nei servizi di pubblica utilità; soprattutto la cooperazione dovrebbe riguardare la legislazione e regolamentazione delle attività politiche, sociali ed economiche così come richiesto dal moderno progresso civile. Ripetiamo: per sviluppo intendiamo non solo la crescita economica quantitativa, ma l’avanzamento qualitativo che si concretizza in una condivisione del progresso spirituale e morale, nella diffusione delle conquiste scientifiche e tecnologiche, nella introduzione dei modelli di sicurezza e di ordine civile, nonché di efficienza dei sistemi sanitari e di giustizia sociale. La realizzazione di questi compiti finora trascurati dovrà essere la caratterizzazione europea nel corso del ventunesimo secolo. I drammi di Lampedusa non debbono essere solo sensazionali angosce da fronteggiarsi con episodici mezzi caritatevoli per evitare la “vergogna”.
Bisogna affrontare il problema là dove esso ha origine (G.R.).

SOMMARIO DI QUESTO NUMERO
– I fattori dell’evoluzione globale. Un nuovo ruolo per l’Europa e per l’euro (Gaetano Rasi)
– L ‘emigrazione. Depauperamento delle Nazioni, arricchimento dei “soliti noti” (Ettore Rivabella)
– Africa: aumento demografico, emigrazione disperata. Manca la prospettiva strategica dell’Europa (gr)
– L’immigrazione e l’Europa: Il ruolo che deve assumere l’Italia. Dalla fuga allo sviluppo in Patria (gr).
– Testimonianze protese verso il futuro. Convegni e studi prodromi ad una nuova politica in Africa. (gr)
– “Gli italiani in Eritrea”. Il nostalgico “mal d’Africa” come ricordo e come speranza ( Lucio Zichella)

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Ai primi di dicembre del 2001, su richiesta di un mio lettore e amico di Roma, firmai una petizione al Consiglio d’Europa affinché Erich Priebke, l’ex capitano nazista condannato all’ergastolo per aver fatto parte del plotone d’esecuzione che commise il massacro delle Fosse Ardeatine nel 1944, fosse restituito alla sua famiglia. Erich Priebke aveva allora 87 anni, ed era stato condannato all’ergastolo due anni prima, quando ne aveva 85. Non era mai accaduto, in un Paese del mondo civile, che un vecchio di 85 anni fosse condannato all’ergastolo per un fatto di guerra. Il destino di Erich Priebke era dovuto al sopruso e alla viltà di tre Paesi che si autodefinivano (e si autodefiniscono) civili: l’Argentina, l’Italia e la Germania.

Nella petizione – che, oltre a me, era stata firmata anche da altri studiosi e storici – si sosteneva che la detenzione di Priebke era dovuta ad un fatto di discriminazione razziale. Egli era perseguitato non in quanto ex nazista, non in quanto esecutore di una rappresaglia sicuramente vergognosa e infame, ma in quanto tedesco, e, come tale, appartenente a un popolo demonizzato, un popolo ritenuto capace di tutti i mali possibili, un popolo ritenuto geneticamente portato al crimine. Non c’erano altre spiegazioni valide per la serie infinita di illegalità e di soprusi cui quest’uomo era stato sottoposto.

Ricordo i più macroscopici:

– quando l’Italia, nel 1994, ne aveva chiesto l’estradizione al governo argentino, il reato di cui egli era accusato, in base al codice penale vigente in Argentina, era prescritto da anni;

– per lo stesso reato, cinque commilitoni di Priebke erano stati processati e assolti in Italia nel 1948. I giudici avevano sentenziato che essi si erano limitati ad eseguire un ordine. Ordine certamente illegale, per cui colui che lo aveva impartito, il colonnello Kappler, fu condannato all’ergastolo. Ma gli esecutori erano stati assolti;

– durante il primo processo, il PM aveva tenuto nei confronti di Priebke un atteggiamento di personale livore, trattandolo come si tratta un nemico politico;

– dichiarato non punibile dal Tribunale Militare di Roma nel 1996, e dunque automaticamente libero di alzarsi dal banco degli imputati e allontanarsi dall’aula, era stato inauditamente arrestato, «a furor di popolo», per ordine del ministro della Giustizia Flick.

Questi i motivi che mi avevano spinto a sottoscrivere la petizione. Ma, sul piano storico, avrei qualcosa da aggiungere. Durante la seconda guerra mondiale, per liberare il mondo da un uomo, Hitler, da un partito, il partito nazionalsocialista, da un’ideologia che avevano stregato un popolo, si diede per scontato che dovessero essere mandati al macello milioni di uomini. Così fu. Alla fine, la testa del drago fu mozzata. I capi nazisti che non si suicidarono, finirono sulla forca a Norimberga. Ma, ovviamente, nemmeno ai vincitori, pur nell’imminenza dell’immane carnaio, venne mai in mente di processare, condannare ed eventualmente impiccare i milioni di esecutori dei criminali ordini hitleriani. Un’idea del genere non passò per la testa neppure a Stalin, che difatti si limitò a proporre (senza peraltro ottenere soddisfazione) l’eliminazione della parola «Germania» dagli atlanti geografici, con il suo frazionamento e l’incorporazione dei vari spezzoni negli Stati confinanti.

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