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Le Regioni sono uno dei tabù del sistema costituzionale italiano. Non è concesso parlarne male (salvo poi prendere atto dei gravi scandali che le hanno colpite negli ultimi anni). Ancor meno evidenziarne l’inefficienza. Proibito chiedere un allineamento tra Regioni “ordinarie” e Regioni a “statuto speciale” (con la conseguente perdita di privilegi da parte di quest’ultime).

Ad essere onesti, evitando sul tema la retorica che ne ha accompagnato, nel 1970, l’istituzionalizzazione, le Regioni non sembrano avere realizzato, in questo quarantennio, l’auspicata riforma politico-amministrativa del sistema-Italia. Al contrario, viste le difficoltà di bilancio e di capacità di governo del territorio manifestate, esse si sono trasformate in una sovrastruttura burocratica, costosa ed inefficiente.

Lo confermano gli studi della Società Geografica Italiana, che da anni sta analizzando la nascita, la crescita e il reale impatto delle Regioni sull’assetto nazionale, denunciando come esse siano – di fatto – degli enti “artificiali”, dei semplici compartimenti statistici, elaborati a tavolino. A queste “elaborazioni statistiche” si adeguò l’ Assemblea Costituente (1946-1948) fissando i confini dei nuovi enti e le stesse denominazioni, non basandoli su motivi storici o economici e nemmeno culturali, con il risultano di creare dei piccoli mostri amministrativi, disomogenei, spesso ipertrofici. Da qui la proposta choc della Società Geografica: abolire tutte le Regioni, anche quelle a statuto speciale, accorpando le province e trasferendo ad esse i poteri regionali.

La proposta dei geografi nasce dagli studi che, negli ultimi vent’anni, la Società Geografica ha sviluppato a partire dal “progetto 80”, (un documento che fu redatto dalla parte più sensibile e innovativa dei territorialisti che, a metà degli anni Settanta, pensò di ridisegnare l’assetto italiano per adeguarlo alla modernizzazione del sistema insediativo e dell’apparato produttivo).

Le ragioni del territorio si sommano ad oggettivi risparmi economici. Basti considerare che l’abolizione delle Regioni rispetto a quello delle province porterebbe a 182 miliardi di risparmi contro 11. Infine c’è la possibilità, definendo i nuovi enti territoriali (35 secondo le previsioni) sulla base dell’omogeneità storica, geografica ed economica, di costruire reti infrastrutturali (legate alla mobilità, ai trasporti e alle comunicazioni), presenti sul territorio o in avanzata fase progettuale incrociate con le interazioni tra l’ambiente e la società secondo un modello geografico in progressiva evoluzione.

In una fase di ripensamento degli assetti socio-economici e politico-istituzionale del nostro Paese, la scelta coraggiosa proposta dagli studiosi della Società Geografica dovrebbe agitare il confronto piuttosto che essere relegata nelle notizie minori.

Della retorica sul regionalismo gli italiani sono stanchi. Di false promesse sulle istituzioni “vicine” ai cittadini non ne possono più. Se il metro di giudizio per le istituzioni, locali e nazionali, deve essere l’efficienza, il rigore, la capacità gestionale, è tempo che ogni retorica venga abbandonata e con essa un modello regionale che non è mai decollato. Abolite le Regioni, si dia voce ai territori, quelli veri, piuttosto che i soffocanti apparati burocratici, soffocanti, inefficienti e spendaccioni.

Viktor Orban

L’Ungheria ha modificato la sua Costituzione chiudendo ogni possibilità di dialogo con l’Unione europea e l’Occidente, e muovendosi ancora sulla linea di autarchia voluta dal premier conservatore, populista e nazionalista Viktor Orban. Senza curarsi dei richiami di Bruxelles, delle accuse dell’opposizione e delle proteste di piazza, il Parlamento di Budapest ha approvato con 265 voti a favore, 11 contrari e 33 astensioni alcune significative modifiche che in una sorta di golpe bianco danno più poteri al governo, riducono la possibilità di intervento della Corte costituzionale che nonostante la presenza sempre più forte di membri nominati dal partito di governo Fidesz, ha avuto fin qui un ruolo importante nel frenare le leggi più controverse dettate da Orban. Solo una settimana fa Orban aveva messo sotto tutela anche la Banca centrale ungherese, nominando il suo braccio destro, Gyorgy Matolcsy, alla guida della Banca centrale del Paese.

Gli emendamenti decisi dal governo e approvati ieri dall’Assemblea, una quindicina di pagine in tutto, limitano le competenze della Corte costituzionale che potrà intervenire solo su questioni procedurali e non di merito, cancellando inoltre tutte le pronunce della stessa Corte precedenti all’entrata in vigore della nuova Costituzione all’inizio del 2012.

Ma il voto di ieri introduce anche alcuni elementi che mettono a rischio i principi di democrazia e di rispetto dei diritti umani nel Paese. Il nuovo testo costituzionale così come è uscito ieri dall’Aula limita anche l’indipendenza degli organi di giustizia, prevedendo la facoltà di spostare con maggiore facilità i processi in corso da una sede all’altra; criminalizza i cittadini senza fissa dimora; riduce l’autonomia delle università e la libertà dei cittadini laureati, obbligandoli a lavorare per dieci anni in Ungheria; e nega i diritti dei conviventi, in quanto riconosce per legge la famiglia unicamente come un legame costituito dal matrimonio tra un uomo e una donna.

Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso e il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbiorn Jagland, si sono detti «preoccupati» per la nuova svolta di Budapest: «Gli emendamenti destano preoccupazione per quanto riguarda il principio dello stato di diritto, del diritto europeo e degli standard del Consiglio d’Europa», si legge in una nota congiunta, nella quale si chiede alle autorità di Budapest – dimostrando tutta l’impotenza dell’Unione in situazione come queste – di avviare «contatti bilaterali con le istituzioni europee per venire incontro a ogni preoccupazione per quanto riguarda la compatibilità di questi emendamenti con i principi e il diritto dell’Unione europea».

Al momento del voto i deputati socialisti all’opposizione sono usciti dall’Aula del Parlamento nel quale dopo il trionfo elettorale del 2010 il Fidesz, il partito di Orban, ha una maggioranza superiore ai due terzi dei seggi. La protesta si organizza nelle strade di Budapest per chiedere al presidente Janos Ader di porre il veto alle modifiche costituzionali. «È l’ultimo momento in cui si può fare qualcosa. Il capo dello Stato non dovrà firmare, e la Corte deve pronunciarsi prima che questa facoltà le sia tolta», ha detto l’ex presidente della Repubblica ungherese, Laszlo Solyom.
Dal partito di Orban rispondono rivendicando il diritto di «rivoltare il Paese come un calzino», come del resto lo stesso premier aveva promesso agli elettori tre anni fa. «Nonostante il chiasso internazionale e interno è naturale che la maggioranza di governo usi il mandato ricevuto con elezioni democratiche», ha detto Gergely Gulyas, uno dei “colonnelli” del Fidesz.

Sabato 23 marzo 2013, alle ore 15.00, presso il Cimitero Monumentale di Milano, l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (ANAI presieduta dal Comandante Pierpaolo Silvestri) e la Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana (UNCRSI presieduta dal Comandante Armando Santoro) renderanno onore, come tutti gli anni, agli Squadristi milanesi del Fascio Primigenio (morti combattendo, per l’Italia, contro la sovversione, e sepolti presso il Monumento ai Martiri della Rivoluzione Fascista), ed alla tomba del “poeta armato” Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Movimento Futurista.

Nella relazione del CESI “La partecipazione del cittadino alla gestione dell’impresa e nella rappresentanza politica”, stesa a seguito del successo dell’Appello ai candidati alle recenti elezioniper un Patto sulla partecipazione, un paragrafo è stato dedicato (come può vedersi in altro punto di questo sito) ad alcune aziende italiane che già stanno attuando, sia pure in maniera diversa, ma sempre in questa direzione, forme di collaborazione più stretta fra i fattori della produzione – capitale, lavoro, tecnica ed organizzazione – ciascuno dei quali non può essere considerato egemone ed esclusivo ai fini dei risultati produttivi.

In questa fase estremamente interessante per le modifiche strutturali che sta avendo l’intero sistema socioeconomico si sta inserendo la FIAT e ciò contrariamente a quanto si può pensare a causa della disattenzione dei mass-media che cavalcano i soliti stereotipi classisti. Naturalmente il percorso è legato ai problemi mondiali della crisi, alla grande competitività nel settore automobilistico, alla rigidità oligarchica e conservatrice dell’azione di alcuni sindacati.

Tuttavia la strada, per altro già accolta dal documento intersindacale che abbiamo pubblicato in altro paragrafo, sempre sulla citata relazione, rimane quella del progressivo maggior coinvolgimento del fattore lavoro in tutti i suoi livelli di responsabilità nel processo produttivo.

Pubblichiamo, pertanto, un interessante articolo sull’argomento di un esperto di organizzazione aziendale, il dott. Giorgio Giva, dal titolo: “Il contratto FIAT innova le relazioni industriali: costi invariati per l’azienda, più soldi in busta”, che appare contemporaneamente anche sul sito FIRSTonline.

Scarica l’articolo

L’Appello del CESI ai candidati nelle recenti elezioni per un “Patto sulla partecipazione” ha avuto un vasto eco sia in adesioni personali che in riscontri in documenti ed articoli riguardanti i positivi aspetti sociali ed economici.

E’ ora che le forze politiche della cosiddetta “Destra Sociale” e comunque provenienti da mature esperienze politiche Msi, Msi-dn e An si mobilitino in forma unitaria ed identitaria anche a proposito dell’istituto della cogestione.

L’individuazione dei ponti nodali per il nostro sviluppo di Nazione nell’ambito europeo e la conseguente necessaria mobilitazione di alternativa, sono ormai obiettivi ineludibili in previsione dell’imminente crollo del sistema del parlamentarismo partitocratico. La cogestione, come motore del progresso sociale ed economico, è uno dei punti nodali come obiettivo sul quale raccogliere consensi.

Il CESI pubblica qui di seguito due articoli: uno del Presidente Rasi che riassume la documentazione in materia, sia per quanto riguarda i precedenti storici, sia per quanto riguarda i recenti, significativi indirizzi di importanti organismi di categoria e di imprese italiane che hanno anticipano al loro interno l’introduzione dell’istituto della partecipazione dei lavoratori ai risultati economici dell’impresa.

Un secondo articolo, di notevole interesse, è quello dell’esponente del nostro Centro Studi, il dott. Gian Galeazzo Tesei, un manager di vaste esperienze aziendali e di forte sensibilità politica, il quale, fa una rapida, ma incisiva panoramica della problematica pendente.

Premessa.

L’iniziativa del CESI, Centro Nazionale di Studi Politici, deliberata il 19 gennaio e lanciata il 23 successivo, di un Appello a tutti i candidati alle prossime elezioni politiche per sottoscrivere un “Patto per la partecipazione” (vedi sito CESI) ha trovato numerosissime adesioni ed ha anticipato significative dichiarazioni analoghe da parte di organizzazioni imprenditoriali, dei dirigenti d’azienda, nonché di appartenenti ai sindacati dei lavoratori.

Si rende pertanto necessario approfondire la materia sia per quanto riguarda le origini che per quanto si riferisce agli sbocchi che si intravedono.

In questa direzione vi erano state in passato autorevoli indicazioni da parte di singoli esponenti del mondo imprenditoriale e giornalistico le quali avevano sostenuto, appunto, che l’introduzione dell’istituto della cogestione e della partecipazione agli utili, non solo riguarda la giustizia sociale, ma anche il progresso economico al fine di aumentare la produttività dell’intero sistema, la sua efficienza nella competizione mondiale e l’aumento della disponibilità monetaria delle famiglie dei lavoratori ai fini della ripresa della domanda aggregata per combattere la recessione.

Vale la pena, pertanto, di fare anzitutto una sintesi storica di questa proposta istituzionale che è destinata a caratterizzare fortemente un sistema politico ed economico alternativo all’attuale. Quello della cogestione, infatti, è un istituto che rientra in un complesso istituzionale coerente, di politica economica non solo di breve periodo, ma che si inserisce costituzionalmente in un indirizzo di sviluppo strutturale valido nel medio-lungo periodo con forti riflessi nel progresso civile della società.

1. Lineamenti per una storia della cogestione nella seconda metà del secolo scorso.

Anzitutto va osservato che tale indirizzo, nel tempo, si è andato precisando perché costituisce la definitiva uscita dalla concezione della lotta di classe per radicare quella della collaborazione organica fra capitale e lavoro. Inoltre, essa si caratterizza come punto essenziale di una nuova fase storica volta al superamento dei vari capitalismi finanziari, avventuristici e meramente individualistici, dopo il fallimento delle concezioni del collettivismo statalista e degli indirizzi social-comunisti.

Non può non essere ricordato, pertanto, che l’Italia, anche a questo riguardo, è stata antesignana. Infatti va segnalata quella fondamentale iniziativa di civiltà che fu proposta il 26 dicembre 1946, nel Manifesto fondante del MSI, dove, al punto VIII, si proclamava che nel nuovo Stato vi doveva essere «completa collaborazione fra i vari fattori della produzione attribuendo ai sindacati dignità e responsabilità di istituzioni pubbliche ed effettiva compartecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda e al riparto degli utili».

Così pure non può essere dimenticato che, successivamente, in tutti i documenti conclusivi dei Congressi tenuti da quel partito, tra i capisaldi progettuali fu indicata la necessità dell’introduzione dell’istituto della cogestione e della partecipazione agli utili dei lavoratori, nonché della partecipazione dei sindacati datoriali e dei lavoratori alla programmazione concertata dell’economia nazionale[1].

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Le leggi sul lavoro determinano lo sviluppo

Anche chi non segue con particolare attenzione le vicende complesse e a volte drammatiche della grande crisi italiana dei nostri giorni ha comunque chiaro sentore della centralità e della criticità delle leggi sul lavoro, delle leggi cioè che disciplinano i rapporti tra i lavoratori ed i datori di lavoro e che determinano aspetti fondamentali della vita dei cittadini e dello sviluppo dell’economia. Problemi come quelli del precariato, dei contratti a termine o a tempo indeterminato, della cosiddetta flessibilità in entrata ed in uscita, della riforma dell’art. 18 o ancora problemi più vasti come il livello di disoccupazione o come quello della stagnante produttività del sistema economico italiano sono direttamente o indirettamente condizionati dalle modalità di approccio ai rapporti di lavoro.

Tale aspetto cruciale della vita economica e sociale della Nazione può essere profondamente innovato e sostanzialmente migliorato con l’introduzione dell’istituto della cogestione nel nostro ordinamento giuridico. L’idea base della cogestione , come è anche intuibile, concerne l’associazione dei lavoratori alla conduzione dell’impresa e comporta quindi la loro responsabilizzazione, la loro partecipazione alle decisioni di investimento e di ordinario esercizio costituendo con ciò anche la premessa per la condivisione diretta dei benefici e delle difficoltà dell’impresa stessa. La condivisione dei benefici concerne chiaramente la partecipazione alla distribuzione degli utili e dei dividendi mentre la condivisione delle difficoltà in tempo di crisi può comportare la ripartizione paritaria del minor lavoro tra i soggetti interessati (da contrapporre ad esempio alla messa in cassa integrazione, cioè all’espulsione a volte temporanea e a volte no, di una aliquota dei lavoratori normalmente impiegati).

2° Concretezza della cogestione

Occorre chiarire che nelle attuali condizioni economiche e sociali dell’Italia e dell’ Occidente in generale la cogestione è ben lungi oggi dal costituire un sogno utopistico . L’innalzamento del livello culturale della popolazione nel suo complesso, la diffusione di mansioni lavorative complesse esercitate da operatori in condizioni di sempre maggiore autonomia, lo svuotamento delle ideologie marxiste sulla lotta di classe che contrapponevano in modo

preconcetto lavoratori da una parte e “padroni” dall’altra rendono oggi concrete ed attuali le aspirazioni ad una più stretta collaborazione tra “produttori” a livello di azienda con reciproci e generali vantaggi. Tale collaborazione ha assunto nei vari paesi forme diverse: nei paesi anglosassoni ad esempio , più culturalmente legati al modello capitalistico classico, si è diffuso l’azionariato popolare, la detenzione cioè di azioni del capitale dell’impresa da parte dei dipendenti che però in concreto, almeno sinora , ha riguardato soprattutto le fasce alte del personale , dirigenti aziendali in particolare ; tale soluzione però chiaramente non incide nell’ordinamento della governance aziendale e per quanto positiva ai fini di una maggiore motivazione dei soggetti coinvolti non incide significativamente nel miglioramento delle relazioni industriali.

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ElezioniI risultati delle recenti elezioni italiane hanno puntualmente confermato le previsioni formulate dal Cesi. Tale conferma non è dovuta alle particolari capacità divinatorie degli studiosi del nostro Centro Studi, ma al fatto che essi hanno effettuato analisi e prospettato conseguenze in quanto esenti da ogni condizionamento personale e facendo riferimento alle più consolidate conoscenze delle leggi storiche e delle scienze politiche.

La dinamica intrinseca all’attuale sistema italiano non poteva non portare dunque che all’attuale risultato: con questo sistema il nostro Paese è ingovernabile ed è privo di prospettive. Non si tratta soltanto di aver aggravato l’impossibilità di funzionamento del sistema politico e costituzionale vigente (indipendentemente dai difetti di origine e dalle lacune nonché dalle mancate applicazioni), ma della constatazione che esso è giunto al termine del ciclo storico succeduto alla Seconda guerra mondiale.

Non sono più possibili delle semplici riforme da parte degli attuali poteri costituiti, perché essi sono incapaci di fatto, anche se lo volessero, di proporre e attuare riforme che andassero al di là della propria sopravvivenza politica intesa nel senso più utilitaristico e immediato dell’espressione. Quindi siamo arrivati al più rozzo “si salvi chi può”.

Gli italiani, oggi, sono stati spinti da una classe dirigente presuntuosa, corrotta ed incapace a praticare quel falso e miope realismo che fu già nei secoli passati stigmatizzato da Machiavelli e Guicciardini e dal quale eravamo usciti con il Risorgimento prendendo coscienza di noi stessi. Oggi viene praticato un  regressivo “guardiamo al concreto, all’immediato, al nostro particulare e poi venga pure il diluvio, sarà quel che sarà”.

Questo falso realismo di funesta riproposizione, non solo ha contagiato buona parte del popolo diffondendo pessimismo e avvilimento, ma è stato pure praticato da governanti che hanno avuto come solo obiettivo una politica fiscale predatoria che ha depresso le forze dell’imprese e del lavoro.

D’altro canto per coloro che sono pensosi del futuro dell’Italia e dell’avvenire delle nuove generazioni, non può rappresentare una consolazione il fatto che siano stati posti  fuori dal Parlamento tanti cosiddetti “seguaci del concreto”, ma che in realtà erano degli opportunisti e cinici negatori di qualsiasi coerenza ideale.

Tuttavia, nonostante queste “espulsioni”,  non c’è stato assolutamente un ricambio di classe politica nel significato autentico del termine. Per le forze politiche già esistenti c’è stato solo un regolamento di conti fra rivali e vecchi (finti) amici; per coloro che delusi e arrabbiati hanno cercato altre soluzioni ha avuto luogo solo la coagulazione eterogenea dei protestatari.

La legge elettorale fondata sulla cooptazione, che era stata giustificata dalla ricerca della stabilità, si è così rivelata la fonte primaria della instabilità. Il soggetto partito politico ha dimostrato la sua impossibilità di fatto di costituire l’unico attore rappresentativo della base sociale sulla scena della politica istituzionale.

Il partito, invece di costituire il portatore di una concezione di guida, di soluzione dei problemi e di realizzazione del rapporto con il popolo, in concorrenza con altre entità rappresentative, si è ridotto ad un coagulo di interessi particolari ancor più conflittuali a cominciare proprio dal suo stesso interno.

Il permanere del partito quale unico attore della scena politica ha provocato molte dannose conseguenze:

  1. La impostazione clientelare  ha inquinato a livello regionale e locale il sistema elettorale nelle scelte dei singoli candidati; tale inquinamento non è stato neppure evitato, anche quando vi sono state elezioni interne nel partito stesso (le cosiddette primarie), per le candidature al Parlamento. Non è questo il metodo di selezione preliminare per far funzionare uno Stato moderno che richiede capacità e conoscenze provate sul campo professionale.
  2. La deideologizzazione del partito politico, si è rivelata un fatto patologico, che, oltre ad avere tolto trasparenza circa i valori di riferimento e gli obiettivi perseguiti,  ha fatto sorgere accanto – e spesso dentro – allo stesso partito gruppi di interessi particolari e personali, collegamenti con potentati finanziari, condizionamenti meramente localistici del tutto indifferenti all’avvenire della Nazione.
  3. Di conseguenza, non si è trattato soltanto di sottrarre agli elettori la possibilità di esprimere preferenze per i candidati nelle liste politiche nazionali, ma anche, nel caso dell’unica preferenza al singolo candidato in sede di elezioni regionali e locali, ha sancito definitivamente la impossibilità di ricostruire un rapporto autentico fra la base elettorale e gli eletti ai fini di una autentica rappresentatività.
  4. Il sistema delle liste precostituite dalle oligarchie di vertice, oltre ad aver di fatto tolto la possibilità di effettuare la selezione democratica da parte dei votanti, ha cristallizzato il sistema di chiusura al ricambio e quindi la possibilità di rinnovamento sulla base di programmi organici di crescita economica e di sviluppo civile. La campagna elettorale fatta solo di irose diatribe, gridate fra i candidati, ha fatto il resto …

Che fare? Non sono più sufficienti le c.d. riforme all’interno del sistema politico e costituzionale vigente, cioè effettuato ad opera di  soggetti costituiti, ma si rende necessaria la rifondazione dell’ordinamento giuridico-politico da parte di soggetti costituenti che ricevano la propria legittimazione da un effettivo e diretto consenso popolare libero da condizionamenti sedimentati o da voti di protesta privi di vere prospettive.

L’esempio del consenso ricevuto dal Movimento 5 stelle, che il suo leader avrà difficoltà (o sarà incapace, oppure non vorrà) ad utilizzare nel Parlamento, è dimostrativo della validità della tesi costituente del Cesi rivolta a promuovere un movimento per una effettiva alternativa di sistema.

Molti dei punti programmatici del M5S possono considerarsi anche validi ed attuali ma non si inquadrano in una visione sistematica per la radicale modifica del quadro istituzionale rappresentativo. Infatti i parlamentari da esso eletti provengono dalle più disparate espressioni a carattere settoriale oppure meramente protestatario (movimento ecologista, movimento della decrescita felice, etc.).

Anche quando questo Programma M5S intitola il suo primo paragrafo: Stato e cittadini, non esce dal contingente, in quanto chi lo ha redatto non si è reso conto che il vero problema che incombe è quello del cambiamento radicale della forma dello Stato.

Quella parte dell’elettorato, che ha reso la lista del Movimento 5 Stelle  la più votata, ha creduto di aver trovato in essa uno strumento di protesta che potesse finalmente dimostrare la possibilità di superare l’attuale sistema e quindi di aver avviato i presupposti per un radicale rinnovamento di esso.

Se, come è assai probabile questa speranza rimarrà delusa, il rischio è quello che la delusione e lo smarrimento conseguente si estenda a tutti gli italiani i quali saranno indotti a rinunciare all’idea che l’unità nazionale sia destinata ad essere superata e che pertanto l’Italia non possa più mantenere un ruolo autonomo in Europa. Di conseguenza le nuove generazioni, specialmente nella parte più dotata, saranno indotte ad abbandonare il nostro Paese per cercare altrove il loro futuro.

Per queste ragioni il Cesi si rivolge sia a coloro che sono entrati in Parlamento, sia a coloro che ne sono rimasti fuori per sottolineare che ormai si è arrivati ad un punto nodale della storia sia individuale che collettiva della Nazione italiana.

Occorre una Costituente effettiva, una Assemblea in cui si raccolgano coloro che intendono costruire un nuovo ordinamento politico e giuridico. Tale radicale cambiamento – allo stato in cui si trova l’Italia – ha maggiori probabilità di successo rispetto all’ennesima ristrutturazione di un consunto edificio, non più rappresentativo del popolo perché costruito sulla base di una legge elettorale truffaldina e consentito da una Costituzione superata.

Anzitutto è in gioco l’esistenza stessa dello Stato nazionale Italia sia perché mancano i raccordi tra la politica della scuola, della ricerca e della cultura con la realtà sociale, economica ed ambientale del Paese; sia perché si va sempre più riducendo il peso del sistema produttivo nazionale in un sistema di mercati aperti globalizzati; sia ancora perché permane una condizione di debolezza della posizione dell’Italia in Europa e continua il non protagonismo dell’Europa – non ancora veramente unita – nei confronti delle altre potenze continentali.

In particolare non viene adeguatamente focalizzato l’incombente  pericolo riguardante la tendenziale radicalizzazione dei partiti della secessione, non solo al nord ma anche al sud del nostro Paese.

Nel corso della recente campagna elettorale si è colpevolmente trascurato il fatto che la Lega ha deliberatamente posto come suo obiettivo quello di creare la macroregione del Nord Italia e  che nel Mezzogiorno d’Italia sono apparsi partiti esclusivamente interessati ad autonomie regionalistiche.

Nell’un caso e nell’altro, si punta a dare forma costituzionale autonoma, se non addirittura indipendente, a territori che risulterebbero privi di capacità di sviluppo, riportando il nostro Paese ad essere solo una “espressione geografica”, secondo la sprezzante frase dell’asburgico Metternich.

Se la cosiddetta Padania, nome e nazione mai esistiti nella storia, si aggregasse  alle cosiddette Euroregioni, che gravitano intorno alla Mitteleuropa, vedremo quegli italiani tornare ad essere soltanto satelliti di Potenze d’oltralpe, come già lo sono da tempo divenuti gli abitanti degli “staterelli” balcanici.

Analogamente il Mezzogiorno finirebbe  per divenire un territorio sul quale la qualità di vita sarebbe ridotta al livello di quella degli abitanti della sponda africana del Mediterraneo. Sul piano economico non costituirebbe più  mercato essenziale di sbocco per le produzioni delle regioni del Nord e di espansione per le merci prodotte nel Sud.

Gli italiani disuniti, in questa prospettiva, non parteciperebbero più alla costruzione della storia umana, ma solo la subirebbero.

Il Cesi, perciò, invita tutti gli italiani ad avere coraggio e fiducia in sé stessi ed incita i giovani a crearsi il proprio futuro attraverso una vera preparazione professionale ed una genuina disponibilità ad operare senza rimanere passivi incolpando la tristitia temporum e il destino cinico e baro.

Il Cesi auspica che gli intellettuali italiani, specialmente se docenti impegnati nell’educazione e nella ricerca, a farsi Maestri, cioè ad essere coscienza critica del popolo.

Il Cesi, in conclusione,  propone insieme con altri organismi similari, di realizzare un Comitato nazionale che aggreghi tutte le forze della Nazione per una Convenzione costituente che ascolti le istanze della base sociale e indichi le strutture più idonee adatte a  risolvere gli interessi conflittuali e ad indicare programmi per lo sviluppo futuro.

Carabinieri in Africa OrientaleE’ uscito il nuovo libro di Pietro Cappellari e Alberto Sulpizi Carabinieri in Africa Orientale Italiana. Immagini da un Impero, pubblicato dalla Herald Editore di Roma. Non solo una storia raccontata ma, soprattutto, un storia da vedere. Si tratta, infatti, di un vero e proprio album fotografico della conquista dell’Abissinia vista con gli occhi di un giovane Ufficiale dell’Arma. Il Prof. Sulpizi è riuscito a salvare un gruppo di foto degli anni 1936-1938 destinate alla distruzione e dall’incontro con il  Dott. Cappellari è nata l’idea di pubblicare un libro che ripercorresse quella storia dimenticata che fu l’impresa d’Etiopia, cercando, attraverso le immagini di vita quotidiana, di riscoprire quei valori che animarono milioni d’Italiani in quegli anni di passione patriottica. Si tratta di foto inedite dall’alto valore storico e anche antropologico, che ci dipingono un terra affascinante, misteriosa, romantica e ci raccontano della vita di quei giovani soldati che “fecero l’impresa”.

Il libro è stato presentato Domenica 3 Marzo 2013 nella straordinaria cornice del Forte Sangallo di Nettuno. Tra il numeroso pubblico presente, una delegazione ufficiale del Comando Compagnia Carabinieri di Anzio e della Stazione Carabinieri di Anzio. Presenti anche il Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia il reduce di El Alamein Sante Pelliccia, e delegazioni dell’Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori, dell’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo e dell’Associazione Nazionale Carabinieri. Ospiti d’onore: l’Assessore alla Cultura del Comune  di Nettuno Carla Giardiello, il Presidente della Pro Loco Dott. Marcello Armocida, la Dott.ssa Rita Dello Cicchi, l’Assessore Ernesto Flamini, l’ex-Sindaco di Ardea Prof. Carlo Eufemi, il Consigliere Comunale Prof.ssa Anna Ferrazzano, il Dott. Vincenzo Monti, il Prof. Giancarlo Baiocco e il Dott. Massimo Temperilli. Il Sindaco di Nettuno Dott. Alessio Chiavetta ha inviato ai convenuti un augurio di buon lavoro.

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L’Associazione culturale «Testimoni della Storia» ha il piacere di invitare la S.V. all’incontro:

Il fantasma de

“L’Uomo Qualunque”

nella politica italiana

in occasione della presentazione del libro «La vera storia dell’Uomo Qualunque» di Paolo Deotto e Luciano Garibaldi Edizioni Solfanelli

ore 17,30 Lunedì 4 marzo 2013 Hotel Cavalieri Piazza Missori 1 MILANO

interverranno gli Autori:
PAOLO DEOTTO
giornalista e storico,
direttore di «Riscossa Cristiana»
LUCIANO GARIBALDI
giornalista e storico,
direttore de «I Testimoni della Storia»
Commento sulla situazione politica attuale con:
GIORGIO GALLI
scrittore e politologo
DANIELE VITTORIO COMERO
autore della postfazione, giornalista e analista
elettorale
GIANLUCA MARCHI
Giornalista, direttore del giornale online
L’INDIPENDENZA
Informazioni:
tel. 02.77402454

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