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Di Gaetano Rasi

Vi sono due  punti nevralgici nella crisi economica attuale: da un lato l’azione fuorviante delle società di rating per quanto si riferisce al grado di rischio dei titoli obbligazionari pubblici e privati posti sul mercato; dall’altro la certificazione molte volte menzognera o errata delle società di revisione dei bilanci che dovrebbero invece essere a garanzia del buon stato di salute delle imprese che hanno quotazioni in Borsa.
Per quanto riguarda le società di rating esiste già una abbondante letteratura critica basata sul fatto che esse sono possedute dai grandi centri di speculazione finanziaria i quali hanno evidenti interessi a manovrare il mercato e quindi le quotazioni. Di qui la richiesta generale di affidare i giudizi di credibilità dei titoli piuttosto ad enti pubblici che a soggetti privati (per esempio la ventilata società di rating dell’UE).
Invece non è analizzata in maniera sufficientemente chiarificatrice l’attività  delle società di certificazione dei bilanci.
Come è noto, sia in dottrina che nell’analisi economica, la revisione ha la funzione di fornire un servizio di controllo sui conti della società revisionata e, contestualmente, costituisce per fornitori, azionisti, clienti, investitori e finanziatori la garanzia che la stessa società di cui si è certificato il bilancio non andrà nel breve termine incontro a crisi finanziarie. Ma troppe volte non è stato così. Oggi, comunque il problema è ulteriormente incombente perché ad esse si vorrebbe affidare anche la certificazione dei bilanci dei partiti. Ma procediamo per gradi.
Negli Stati Uniti, solo a titolo di esempio vale ricordare, prima il caso della Enron (che ha trascinato nel fallimento anche l’antica, e a suo tempo prestigiosa, società di certificazione Arthur Andersen), e poi il caso del fallimento della Banca Lheman Brothers, che ha posto in rilievo l’inconsistenza dei mutui subprime, e che ha innescato la crisi diventata mondiale  e nella quale ancora oggi siamo coinvolti.  Altri casi clamorosi, per esempio, si sono avuti  in Giappone come quello Olympus, dove il management ha dovuto pubblicamente ammettere di aver occultato per oltre 20 anni perdite per più di un miliardo di dollari, mentre i revisori dei bilanci, succedutosi nel tempo, non se ne erano affatto accorti. E ancora recentemente in Svizzera  una società di revisione, che aveva certificato come sani i bilanci della BCGE (Banca Cantonale di Ginevra), ha dovuto pagare in sede di sopravvenuto fallimento della stessa, 110 milioni di franchi a titolo di risarcimento per i danni causati.

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Crisi del partito come istituto  costituzionale o crisi dei partiti come attualmente sono strutturati?  Tutti sappiamo che la Costituzione in vigore in Italia non parla dei partiti come istituzione attraverso i quali si forma la classe dirigente  rappresentativa dei cittadini. L’articolo 49, l’unico che usa il termine “partito”,  dice  soltanto che «tutti  i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

La formulazione non potrebbe essere più generica di così ed infatti, le diverse leggi elettorali, varate dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione) in poi,  non hanno nella realtà effettiva regolato il meccanismo con il quale il popolo esprime i propri rappresentanti in Parlamento.

Di volta in volta le leggi elettorali hanno solo modificato la maniera della presenza dei partiti  nelle due Camere ed inoltre tali legislazioni non si sono mai occupate dei sistemi  di selezione dei rappresentanti del popolo.

Questo compito è sempre stato lasciato alle oligarchie che hanno dominato i singoli partiti. Ne è derivato che  a determinare la formazione e quindi ad esprimere la volontà  del Parlamento è stata solo una  casta di cooptanti  che ha qualificato il regime politico vigente in l’Italia  come una partitocrazia invece che come una democrazia.

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Di Gaetano Rasi, il Secolo d’Italia

Tra poco sono 5 mesi che si è insediato il Governo Monti e non si intravede una vera politica economica di ripresa, l’unica che sia in grado di far fronte agli impegni finanziari che gravano sull’economia italiana.
L’aver puntato tutto sulla politica fiscale, sul tentativo di aumentare la concorrenza e sul finanziamento del debito pubblico, ha innescato una recrudescenza recessiva che tende a prolungarsi e ad accentuarsi (la cosiddetta riforma del rapporto di lavoro, tuttora non definita, resta un roboante, ma insignificante fattore di ripresa).
E’ evidente che una generale diminuzione dei redditi da spendere ed un contemporaneo aumento dei prezzi non può che generare una ulteriore caduta del PIL cui si aggiunge – posta in evidenza in questi giorni dalla stampa – la contrazione dei prestiti da parte del sistema bancario verso le imprese e le famiglie.
I dati della Banca d’Italia ci dicono che da dicembre a gennaio il credito agli italiani residenti si è ridotto di 30 miliardi. La giustificazione della mancata (ma è proprio vero?)  richiesta di prestiti viene giustificata con una caduta della produzione per cui le imprese – non prevedendo nuove commesse, né nuove iniziative – riducono la domanda di disponibilità finanziaria proveniente dal sistema bancario.
Ma circolano anche altre spiegazioni. Una prima è: “Bisogna aspettare che la liquidità proveniente dalla BCE (prestiti all’1% d’interesse della durata di 3 anni) arrivi all’economia reale”.
Una seconda spiegazione è questa: “Questo ritardo nel finanziare le attività direttamente produttive è dovuto al fatto che le banche prima di tutto acquistano Titoli di Stato guadagnando sul differenziale di interessi e quindi si arricchiscono con poca fatica”. Una terza spiegazione: “Questo comportamento delle banche è giustificato dall’applicazione delle regole dell’accordo “Basilea 3”, le quali – per salvare il loro equilibrio di bilancio ed evitare future e crisi di liquidità per la possibile insolvenza dei debitori- impongono alle banche di aumentare il loro patrimonio “fermo”.

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Di Gaetano Rasi, il Secolo d’Italia

La questione delle modifiche della legislazione sul rapporto di lavoro si sta rivelando capace di far esplodere un problema costituzionale di  grande rilevanza che non può non coinvolgere quanti fanno riferimento al nostro mondo politico.
Non si tratta solo di discutere circa l’efficacia e l’equilibrio delle modifiche apportate dalla riforma specifica sostenuta dal governo Monti e cioè analizzare soltanto se essa accrescerà o diminuirà la flessibilità del c.d. mercato del lavoro  (brutta espressione per ciò che è frutto della volontà e dell’intelligenza della persona umana …) e se essa favorirà l’occupazione  o accrescerà i pesi per le imprese.
Naturalmente le questioni relative a queste analisi sono oggi dominanti e non possono non esserlo perché si riferiscono a forti problemi incombenti che riguardano la  ripresa economica, la capacità delle imprese di produrre modernamente a costi competitivi e il rispetto della giustizia sociale riguardante i diritti e i doveri dei lavoratori.
Ma  tutto questo sarà motivo di dibattito dopo le elezioni amministrative che si svolgeranno il  6 e il 7 maggio prossimi in 777 comuni, di cui 22 capoluoghi, interessando 7,3 milioni di elettori e il cui esito certamente avrà ripercussioni su questa materia entro e fuori il Parlamento.
A questo proposito, già ora, la CGIL annuncia che lo sciopero generale, già deciso, avrà luogo non subito, ma verso la fine di maggio evidentemente per poter svolgere, direttamente e attraverso la piazza (disordini?), a tempo opportuno una pressione adeguata sul PD senza che essa, ora, crei allarmi pericolosi per la  sua tenuta elettorale. Non si tratta solo di tatticismi elettorali, ma di posizioni che debbono far riflettere.

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Di Gaetano Rasi, Il Secolo d’Italia

Qualche lettore attento mi ha chiesto di essere più esplicito circa le affermazioni che sono apparse sul mio ultimo articolo, (Secolo d’Italia dell’11 marzo scorso) dal titolo “Banche e finanza non salveranno l’economia reale“.  In particolare scrivevo «perché i pubblici poteri non assumono adeguate iniziative, né responsabilità dirette, volte a creare servizi infrastrutturali di durevole utilità   sociale ?»

E più avanti ribadivo il concetto che,  per uscire dalla crisi economica, ossia per dare un iniziale  volano alla ripresa della crescita di tutta l’economia nazionale, è necessario  puntare subito su massicci lavori pubblici rivolti all’ammodernamento e al potenziamento delle reti infrastrutturali nazionali in forte ritardo di sviluppo.

Infatti, concludevo, l’esperienza della storia economica degli ultimi due secoli dimostra che solo da una politica di investimenti in opere pubbliche possono derivare, poi, attraverso la distribuzione  di redditi per questi lavori, una ripresa della domanda aggregata di beni e servizi in grado di indurre  le imprese a nuove  iniziative e ad investimenti, e quindi alla nuova occupazione di uomini   e di capitali.

Ebbene, ecco le mie precisazioni. Due sono le strade da percorrere: quella della programmazione che mobiliti progettazioni e investimenti da parte degli enti pubblici (governo centrale  e amministrazioni territoriali), e quella  del partenariato pubblico-privato attraverso il sistema del project financing. Anche questa strada inserita in un’unica programmazione generale.

Per il primo aspetto siamo ancora molto lontani da affrontare in maniera risolutiva la crisi attraverso opere pubbliche. Attualmente non siamo andati oltre  a quanto aveva cominciato a fare il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti,  Altero Matteoli, il quale aveva avviato nell’agosto dell’anno scorso lavori pubblici per  circa 9 miliardi di euro.

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Articolo del 15/03/12, Il Secolo d’Italia – Il dibattito politico attualmente in corso, oltre gli aspetti riguardanti i problemi incombenti sul nostro Paese e sull’Europa,
si caratterizza per una generale accusa nei riguardi delle aspettative deluse e quindi di sfiducia nella classe politica. La questione riguarda non solo l’Italia, ma tutta l’eurozona e quindi costituisce un grave pericolo per l’avvenire. Ci si domanda infatti come è possibile che coloro i quali hanno responsabilità politica non vedano l’abisso in cui l’Europa
rischia di precipitare per l’assenza di prospettive e non presentino progetti adeguati alle esigenze attuali e, soprattutto, future…

Eccoci con l’ormai consueto appuntamento con gli articoli del nostro Presidente On. Prof. Gaetano Rasi.

Nell’articolo uscito l’8 Marzo, Rasi affronta le problematiche legate al mondo del lavoro, tema di strettissima attualità visto che pare ormai imminente l’intervento del Governo su questo delicato settore.

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Il Prof. Gaetano Rasi, Presidente del Cesi e dell’Istituto Carlo Alberto Biggini, ha presenziato alla presentazione del libro di Primo Siena La perestroika di Mussolini, tenutasi a Roma venerdì 2 Marzo.

Il presidente Rasi nel corso del suo intervento, ha parlato principalmente del lavoro svolto con il Prof. Siena, nel periodo in cui quest’ultimo era ancora in Italia.

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La copertina del libro

Dedica di Primo Siena all’Istituto

Dedica di Primo Siena a Carlo Alberto Biggini

L’articolo redatto dall’On. Prof. Gaetano Rasi presidente del Cesi e dell’Istituto Biggini, sulle liberalizzazioni adottate del governo Monti.

Pubblicato sul Secolo d’Italia.

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In passato abbiamo già presentato l’opera di Dino Campini, Piazzale Loreto, ma riteniamo che sia quanto mai opportuno approfondire l’analisi su questo testo, trattando di argomenti che in qualche modo risultano ancora d’attualità e di misteri che ancora non hanno avuto una soluzione, legati principalmente alla sparizione dei carteggi di Mussolini.
Ma chi era Dino Campini e perchè è così importante la sua testimonianza? Campini fu Comandante del IV° Btg. Carri M del 133 Reggimento corazzato in Africa Settentrionale, prima di divenire il segretario speciale del Ministro Biggini, con il quale si instaurò un rapporto non solo lavorativo, ma anche di cordiale amicizia.
La stretta vicinanza con Biggini, portò Campini ad un contatto ravvicinato con i carteggi della linea d’ombra, conservati nell’ormai famosa cartellina di marocchino rosso, scomparsa immediatamente dopo la morte del Ministro Biggini.
Il rapporto di Campini con quei documenti fu anche in qualche misura di soggezione, in virtù dell’enorme peso storico del carteggio. In un passo del libro arriva infatti a definire la cartellina sua “nemica”, ma ne divenne in più occasioni il custode fidato, a partire dall’anno 1944. I documenti erano divisibili in tre carteggi: quelli tra Mussolini e gli inglesi, quelli tra Mussolini e i tedeschi, quelli tra Mussolini e il Vaticano e Biggini era l’unico ad averli in custodia tutti e tre. Campini rimane comunque il primo a parlare pubblicamente dell’esistenza del carteggio e dei suoi contenuti e nello stralcio del libro che pubblichiamo, è possibile comprendere quale sia l’importanza ed il peso di quei documenti.

Scarica la terza parte del libro

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