Il 24 Agosto 2013, Leo Romano, in rappresentanza del Comandante dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia Prof. Pierpaolo Silvestri, ha consegnato la bandiera di guerra al Reparto A.N.A.I. di Nettunia.
Il locale Comandante Bruno Sacchi, nel ricevere il prestigioso vessillo, ha espresso al delegato milanese il vivo ringraziamento da parte di tutti i camerati di Anzio e Nettuno. «Nei prossimi giorni – ha comunicato Sacchi – rilanceremo la nostra attività su tutto il territorio. L’A.N.A.I. si pone come obiettivo quello di difendere i valori nazionali e l’identità nazionale della nostra Patria travolti, vilipesi e venduti da una classe dirigente corrotta e corruttrice. Tra i nostri primi atti vi sarà quello del recupero del Campo della Memoria – Sacrario dei Caduti della RSI che, per questioni burocratiche tipicamente “democratiche”, vive in un grave stato di abbandono ed incuria. Noi, che già ci siamo elevati a sentinelle del Capo della Memoria, non possiamo più tollerare un’offesa gratuita nei confronti di chi si è battuto per l’onore e la libertà della Nazione. Affiancheremo, inoltre, il Comitato Nettunese Pro 150° Anniversario Nascita d’Annunzio perché sia finalmente restaurata la lapide con epitaffio autografo del Vate presente presso il cimitero di Nettuno e perché, come ha proposto recentemente il Dott. Pietro Cappellari, nella nostra città sia ripristinata Via Gabriele d’Annunzio che una colpevole gestione toponomastica ha cancellato senza neanche rispettare le delibere del 1941 ancora in vigore. Sempre presso il cimitero di Nettuno, in collaborazione con il Prof. Alberto Sulpizi e il camerata Alfredo Restante, recupereremo la tomba di Filippo Mancini, primo Sindaco fascista del nostro paese, che versa in stato di abbandono. Infine, stiamo programmando una serie di manifestazioni per il 70° Anniversario dello Sbarco di Nettunia, affinché sia ricordato il valore del soldato italiano che su queste terre seppe combattere con valore il nemico della Nazione italiana e perché non siano dimenticate le vittime degli Angloamericani, quei civili che vennero uccisi dalla violenza di chi ancor oggi, con supponenza e arroganza, si appella come “liberatore” per mascherare la propria bramosia di potere sulla pelle delle Nazioni “non allineate” al suo sistema imperialistico».
Primo Arcovazzi
Ė da qualche anno (anzi da decenni) che queste accuse sulla magistratura vengono erogate da destra e sinistra. Diamogli uno sguardo noi che non siamo né di destra, né di sinistra.
Ho ricevuto tempo fa una mail che ho stampato, ma non so per quale motivo, mi è rimasto solo il testo, senza, cioè l’indicazione di chi me la spedì. Tuttavia, dato l’interesse che ha suscitato in me, me ne avvalgo.
Leggo che Vincenzo Galgano, capo della Procura della Repubblica di Napoli <ha dichiarato al ”Corriere del Mezzogiorno” del 19 ottobre 2009: “Nella nostra Procura ci sono alcuni PM faziosi e fanatici che danneggiano persone e collettività e provocano sofferenze (…). E poi abbiamo più ciucci che aquile>.
Sono parole gravissime che danneggiano l’immagine di una Istituzione che dovrebbe (sì, dovrebbe) essere al di sopra di ogni giudizio negativo e sospetto.
Ma andiamo avanti.
Antonio Ingroia (ve lo ricordate?), quald’era PM alla Procura di Palermo, ha definito politicizzata (se lo dice lui…!) la sentenza della Consulta , che ha dato ragione al Presidente Giorgio Napolitano nel conflitto con la Procura di Palermo sulle intercettazioni delle sue telefonate col Senatore Nicola Mancino, e la Cassazione ha aperto nei suoi confronti un provvedimento per illecito disciplinare perché “ha vilipeso la Corte Costituzionale e leso il prestigio dei suoi componenti”.
E ancora.
Gustavo Zagrebetsky, ex Presidente della Corte Costituzionale, disse ad Antonio Ingroia, che ha resa pubblica la confidenza. <Questa sentenza era già scritta perché i giudici della Consulta si sono lasciati influenzare dal clima di favore attorno al Presidente della Repubblica; nessuna meraviglia che le sentenze della Corte siano politicizzate>. Ci si chiede se è ammissibile in un Paese, una volta culla del Diritto, che un ex Presidente della Corte Costituzionale neghi la terzietà dei suoi colleghi e denunci comportamenti che minano la loro credibilità. Ed ora, cos’è la “terzietà”? Dal Treccani: <Elemento essenziale del “giusto processo” costituzionalmente garantito (art. 111 della Costituzione. I requisiti della “terzietà” e dell’imparzialità del giudice, garantiscono e tutelano l’equilibrio, il distacco e l’indipendenza di giudizio del singolo giudice rispetto alle parti e all’oggetto della controversia>. Ci si chiede inoltre: perché la Consulta non ha adottato alcun provvedimento disciplinare a carico di Ingroia?
Ma non è finita: Piero Ostello sul Corriere della Sera dell’11 maggio 2013, ha lasciato, tra le altre, queste straordinarie dichiarazioni: <A giudicare da come sono condotte certe inchieste (in un profluvio di intercettazioni inutili) si perviene a sentenze poi smentite anni dopo, si tratta di gente che non sa semplicemente fare il proprio mestiere o lo fa con la presunzione di poter disporre della vita degli altri a proprio arbitrio. Il difetto sta, evidentemente, in un concorso inadeguato a individuare preparazione professionale e attitudini personali. Così, arrivano nei tribunali e nelle procure persone animate o solo di un senso politico-palingenetico della propria funzione o di una idea di se stessi che rasenta , più che presunzione, la paranoia>.
L’autore di molte di queste osservazioni è Gerardo Mazziotti (premio internazionale di giornalismo civile), il quale termina con questo giudizio: <Va denunciato che in nessun altro paese del mondo esiste un’”Associazione Nazionale Magistrati”, un vero e proprio sindacato di categoria, che minaccia, e attua scioperi di protesta contro leggi ad essa non gradite. E che solo una classe politica inetta e pusillanime ha potuto consentire che i magistrati italiani si organizzassero in correnti ideologiche. Come ad esempio “Magistratura Democratica” che ha la sua Bibbia ne “La toga rossa”. Un libro che andrebbe letto e commentato ogni sera in televisione. Si tratta di organizzazioni non previste dalla Costituzione e perciò illegittime. Da abolire subito, senza se e senza ma. Basta il “Consiglio Superiore della Magistratura>.
In merito a quest’ultima osservazione di Gerardo Mazziotti, si può consigliare la lettura del libro “Le toghe rotte” , scritto dal procuratore aggiunto alla Procura di Torino edito da “Chiare Lettere”. Dove, fra l’altro possiamo leggere: <(…). Per capire perché accade tutto questo è necessario sapere che cosa succede nelle aule dei tribunali e come si lavora nelle Procure. Ecco un libro che finalmente lo racconta. Se si supera lo choc di queste testimonianze offerte da vari magistrati e avvocati, sarà poi più facile valutare le esternazioni in materia di giustizia che dal politico di turno, di volta in volta imputato, legislatore, opinion maker, e spesso contemporaneamente tutte queste cose. Accompagna le testimonianze un testo illustrativo ad uso dei cittadini per capire come funziona la giustizia (la pena, i gradi di giudizio, le indagini, il processo, ecc.)>.
Per provare a capire se la Magistratura nata dopo la Resistenza sia realmente (come da titolo) inetta, politicizzata, corrotta, farò seguire una analisi documentata di come operava la Magistratura ai tempi del Male Assoluto.
Sì, nominare il Congo mi ricorda qualcosa di brutto, di orribile. No, anche se ci sono delle affinità non ha nulla a che vedere con Piazzale Loreto ad aprile del 1945. Qualcosa di simile, però, ci si può intravedere. Ricordate l’espressione del capo dei partigiani Ferruccio Parri che definì le scene di quella famigerata Piazza: <Macelleria messicana>? Quindi, chissà, boh…
Un po’ di storia.
Congo o Zaire, ex Congo Belga, o Repubblica Democratica del Congo. Ė uno Stato dell’Africa equatoriale, come detto: già Congo Belga, capitale Kinshasa (ex Leopolville). Come era di moda in quegli anni il Belgio concesse precipitosamente l’indipendenza il 30 giugno 1960, precipitosamente, ho scritto, in quanto l’ex Congo Belga, dove quasi nulla era stato fatto per creare una elite politica locale, sprofondò nel caos e dal caos alla guerra civile il passo è breve. Le prime vittime furono i bianchi sottoposti ad atroci massacri.
Per provare a riportare ordine nel paese e certamente per salvaguardare gli interessi dei grandi investitori europei – e non solo europei – un primo passo fu compiuto da Moise Ciombè, considerato il capo dello Stato indipendente del Katanga, sostenuto dalla Union Minière e da un esercito di mercenari europei. Ma il caos e con questo la guerra civile si sviluppò con maggiore violenza causando migliaia di morti. Le Nazioni Unite, per far fronte alla tragedia umanitaria (così avevano detto) decisero di intervenire onde evitare che la popolazione civile dovesse continuare a pagare uno scotto ancora più sanguinoso. Anche l’Italia, era ovvio, partecipò a queste missioni con nostri velivoli da trasporto merci, comunemente battezzati vagoni volanti.
Breve premessa: Kindu è una cittadina della Repubblica Democratica del Congo con circa 20 mila abitanti appartenente alla provincia di Kivu. La fregatura per alcuni nostri ragazzi fu che la cittadina era munita di aeroscalo. Infatti, la mattina del sabato 11 novembre 1961 due equipaggi italiani al comando del Maggiore Amedeo Parmeggiani e da Giorgio Gonelli pilotando due C-119 (vagoni volanti) carichi di rifornimenti ebbero la sventura di atterrare all’aeroscalo di Kindu. Gli aerei italiani non si dovevano fermare: l’ordine era di scaricare la merce e ritornare alla base, il tutto nella stessa giornata. Ma chiesero e ottennero di fermarsi il tempo necessario per mangiare qualcosa e questo li fregò. Infatti i soldati congolesi del posto, al comando del generale Mobutu, in realtà attendevano il lancio di numerosi paracadutisti dell’esercito nemico di Ciombé, scambiarono l’equipaggio italiano per i mercenari del loro avversario. I soldati congolesi entrarono nella mensa, l’equipaggio italiano fu catturato e il loro medico, tenente Francesco Paolo Remoti tentò la fuga, ma fu barbaramente ucciso. Successivamente gli altri dodici militari italiani, dopo aver subito un selvaggio pestaggio, furono trucidati a raffiche di mitra. La folla inferocita che aveva assistita al pestaggio e all’uccisione, si scagliò sui corpi martoriati e ne fece scempio a colpi di machete. La notizia dell’accaduto arrivò in Italia con notevole ritardo, esattamente il 16 novembre, ben cinque giorni dopo i fatti. E solo dopo due mesi fu ritrovato quel che rimaneva dei loro corpi; erano stati sepolti in due fosse comuni nel cimitero di Tokolote, un piccolo villaggio nei pressi del luogo dell’eccidio. Solo l’11 marzo 1962 i caduti di Kindu arrivarono all’aeroporto di Pisa. Solo grazie ad una sottoscrizione pubblica, a loro ricordo fu eretto un Sacrario dove oggi riposano i poveri resti.
Ecco di seguito quanto ha osservato Giovanni Fusco: <Come scritto in precedenza , alcuni testimoni affermarono con certezza che i corpi degli aviatori italiani furono oggetto di atti di cannibalismo, quali salme furono riportate a Pisa? C’è il fondato dubbio che le autorità italiane non ebbero il coraggio di ammettere pubblicamente che i tredici italiani furono vittime di atti di cannibalismo>.
Sento il dovere di riportare i nomi dei 13 aviatori uccisi a Kindu: sottotenente pilota Onorio De Luca, 25 anni; maresciallo motorista Filippo Di Giovanni, 42 anni; sergente maggiore Armando Fabi, 30 anni; sottotenente pilota Giulio Garbati, 31 anni; capitano pilota Antonio Mamone, 28 anni; sergente Martano Marcacci, 27 anni; maresciallo Nazzareno Quadrumani, 42 anni, sergente Francesco Paga, 31 anni; maggiore pilota Amedeo Parmeggiani, 43 anni; sergente maggiore Silvestro Possenti, 40 anni; tenente medico Francesco Paolo Remoti, 29 anni; sergente maggiore Nicola Stigliani, 30 anni.
Mi chiedo: perché quello scempio oggi non viene ricordato? Erano tredici militari italiani trucidati e, stando alle testimonianze, cannibalizzati (mi si lasci passare l’orribile termine). Allora, perché oggi quel massacro viene oscurato?
Io ho un dubbio; voi amici lettori non avete le stesse (almeno) perplessità? E se questo fosse qualcosa più di dubbi o perplessità, non pensate che sia un ulteriore affronto ai tredici poveri ragazzi che in quell’11 novembre 1961 persero la vita nel modo sopra ricordato?
Ma gli italiani sono tanto buoni, tanto buoni, tanto…al punto che ai discendenti dai fatti di Kindu offriamo alte cariche istituzionali. Non è forse vero che dalla macelleria messicana si può passare alla macelleria di Kindu? Qual’è la differenza?.
Ma siamo tanto buoni…
Mercoledì 7 Agosto 2013, nella straordinaria cornice del Forte Sangallo di Nettuno, baluardo cristiano in difesa dell’invasore moro, si è tenuta una serata dannunziana curata dal Comitato Nettunese Pro 150° Nascita d’Annunzio.
Il Prof. Alberto Sulpizi ha trascinato il pubblico in un’attenta analisi del profondo rapporto che lega la città di Nettuno al Poeta Soldato, citando aneddoti dimenticati e inediti dannunziani, destando sorpresa e ricevendo attestati di stima da tutti gli intervenuti.
L’Architetto Simonetta De Ambris – pronipote del sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, braccio destro di d’Annunzio durante l’avventura fiumana – ha illustrato la figura straordinaria del pensatore parmense, accompagnando l’esposizione con la proiezione di rari documenti d’epoca.
Dopo i saluti del Dott. Marco Formato dell’Associazione “Scenari Armonici” e Vicepresidente del Circolo Culutrale “Filippo Corridoni” di Parma, si è esibito nell’interpretazione di una inedita lettera di d’Annunzio a De Ambris l’attore Umberto Fabi. Un’interpretazione che ha incanto il numeroso pubblico presente che ha potuto scoprire così un d’Annunzio molto differente da quanto presentato dalle Università e dalle scuole italiane che, ostaggi di una miopia politica decennale, raramente riescono ad andare oltre La pioggia nel pineto.
«Per questa serata dobbiamo ringraziare il Dott. Marcello Armocida che ha permesso l’organizzazione di un evento di tale portata – ha detto il Dott. Pietro Cappellari, responsabile culturale della manifestazione –. Il nostro scopo era quello di riportare d’Annunzio a Nettuno, dopo anni di colpevole oblio. Come ha evidenziato il Prof. Sulpizi, il Vate e la nostra città sono intimamente legati, eppure, oggi, non c’è nemmeno una via dedicata al Poeta Soldato. Anche se non è proprio così. Infatti, nel 1941, Via Cristoforo Colombo venne mutata in Via Gabriele d’Annunzio, al quale fu dedicata anche la piazza antistante la stazione. Nel dopoguerra, le rabberciate Commissioni toponomastiche incaricate dell’epurazione fecero una confusione incredibile e se la piazza della stazione fu ribattezzata “IX Settembre”, in ricordo di un’insurrezione popolare che mai vi fu, per la via che collega la stazione ferroviaria al lungomare non si prese nessuna decisione in quanto, errando, non ci si ricordò delle delibere del 1941 e gli addetti comunali andarono a memoria nell’affiggere le nuove tabelle toponomastiche. Nostre ricerche hanno potuto appurare che l’attuale Via Cristoforo Colombo è in realtà Via Gabriele d’Annunzio, in quanto la delibera del 1941 non risulta mai stata modificata. Domani stesso chiederemo all’Amministrazione comunale di verificare se esistono delibere che hanno abrogato quanto si è stabilito nel 1941 e, nel caso queste non esistano, di ripristinare il corretto nome della via. Ma non solo. Se un giorno Nettuno avrà un teatro vero, perché non pensare proprio al Comandante d’Annunzio per una sua intitolazione? Ci rivedremo a Settembre, per una mostra su Fiume italiana. In quell’occasione presenteremo il progetto di recupero e restauro della lapide con calligrafia dannunziana presente nel nostro cimitero che versa in un vergognoso stato di abbandono e degrado e rischia la frantumazione, con il piacere dei soliti nemici della cultura nazionale».
Primo Arcovazzi
DI COSA AVETE PAURA?
“Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre”(Isaia)
Ma la Costituzione della Repubblica italiana, non sancisce libertà di espressione per tutti? E “Noi” non facciamo parte dei “tutti”? La Corte Europea dei Diritti Umani, con sentenza N° 1543/6 del 3/5/2007 non sancisce per tutti i cittadini gli stessi diritti? E “Noi” non facciamo parte dei “tutti”? Se così fosse ditecelo: inizieremo non pagando più le tasse!
Vivo a Cerveteri, sarebbe una gran bella cittadina se fosse curata, almeno un minimo. Le strade sono piene di buche e profonde (circa cento per metro quadrato) e la pulizia ambientale lascia molto a desiderare.
Pochi giorni fa, in occasione dell’anniversario della morte del Duce apparvero su alcuni muri di Cerveteri una dozzina di manifesti raffiguranti Benito Mussolini nell’atto di alzare la mano nel saluto un tempo in voga. I manifesti hanno avuto vita molto breve: in pochi minuti il solerte Sindaco di Cerveteri (o chi per lui) ha sguinzagliato i suoi attacchini e fatto coprire quell’indecenza. Allora ho pensato: se il Sindaco è stato tanto attivo per questa operazione, perché non lo è, e non pretendo la stessa solerzia, per rimettere in sesto il manto stradale, al momento molto pericoloso per pedoni, motorini e auto? Capisco che fra i due argomenti c’è di mezzo il comune senso del pudore, infatti da una parte c’è l’immagine del male assoluto e dall’altro delle innocenti buche.
Anche se intuisco i motivi, una domanda è d’obbligo: perché un confronto vi intimorisce? Perché vi subentra il panico alla vista di un uomo assassinato sessantacinque anni fa?
E veniamo al fatto. E mi rivolgo al Sindaco e al vice-Sindaco di Locorotondo, in provincia di Bari, dove per il 1° maggio era previsto un incontro a carattere prettamente storico. Egregi signori, Sindaco e vice-Sindaco, pochi giorni fa ricevetti un invito per partecipare, nella Vostra cittadina, ad un convegno-dibattito pubblico che aveva per tema: “Socializzazione delle aziende; Signoraggio bancario; Stato corporativo”. Questo incontro era organizzato dal Circolo Politico-Culturale “Benito Mussolini”; e in questo mondo di corrotti, mafiosi, ladri ecc. ecc. quel nome mette paura.Ma di cosa avete paura? Per capire, rinnovo quanto da anni vado proponendo: un processo a Benito Mussolini, un processo che mai c’è stato e che potrebbe richiamare l’interesse, non solo italiano, sul vostro Comune.
PREMESSA:
Siamo profondamente convinti che la causa prima della situazione sociale in cui oggi
viviamo e che tende a monetizzare ogni aspetto della vita togliendo o depauperando gli aspetti più nobili che dovrebbero regolare ogni società civile, abbia le sue radici nell’esito della seconda guerra mondiale che vide uscire vincitori i due grandi blocchi formati da Usa che impersonava il capitalismo e URSS che impersonava il comunismo marxista.
Apparentemente le ideologie che dominavano i due blocchi erano in contrasto tra di loro, ma avevano in comune la concezione materialistica impersonata dall’oro.
Il capitalismo per trarre il massimo profitto da parte di chi già aveva tanto ed il comunismo per distribuire più equamente a tutti la ricchezza.
Entrambe le ideologie però avevano come unico oggetto del contendere il denaro e la ricchezza considerando che in questi orizzonti si esaurisse ogni aspetto della vita di ciascuno e del vivere sociale.
La tesi era che, una volta risolti i problemi materiali del denaro, tutto il resto si sarebbe risolto da se e comunque era di importanza secondaria e trascurabile.
Non abbiamo nulla contro il denaro, ma in termini di relatività, lo consideriamo una cosa buona se è un mezzo mentre lo consideriamo un’aberrazione sociale se diventa esso stesso un fine.
Era inevitabile che una simile concezione della società, capitalista o comunista che fosse , innescasse una deriva sociale verso un materialismo esasperato trasformando il denaro nel fine ultimo anziché nel mezzo per raggiungere degli obiettivi più alti e più nobili!
E’ una strada sbagliata che snatura la stessa essenza dell’uomo visto nel suo insieme,
nella sua completezza e la storia ci insegna che le vere conquiste che l’umanità ha fatto da quando l’uomo scese dagli alberi e cominciò a camminare eretto non sono la
produzione di ricchezza, ma il progresso del pensiero, la sua capacità di immaginare, lo sviluppo della sua sensibilità, la capacità di vivere in armonia con gli altri, il sapersi astrarre dal puro egoismo per operare nell’interesse collettivo, tutti elementi che non sono mercificabili e che non hanno perciò un prezzo a identificarli.
Per secoli e pure tra mille difficoltà, la strada è andata in quella direzione sino a quando un avvenimento epocale che ha coinvolto tutto il mondo non ha spostato gli obiettivi rimarcando un’unica e predominante priorità, quella dell’accumulo di denaro sopra tutto il resto.
Non che non ci fosse anche prima un contrasto tra due concezioni diverse, quella del
sangue e quella dell’oro, appunto, ma c’era una lotta costante come tra il bene ed il male
ed il risultato era un equilibrio tra le due posizioni in guerra tra di loro.
Poi, con la fine della seconda guerra mondiale, ha vinto definitivamente l’oro..!!
I risultati si stanno vedendo e se chi ha un’età sufficientemente avanzata per fare dei
confronti, paragona i tempi della propria giovinezza a quelli odierni, avrà immediata la sensazione di quanto il mondo sia cambiato e non certamente in meglio!
Cercheremo di fare un’analisi ed un confronto prendendo in esame le varie categorie
sociali, le varie situazioni e le varie professioni per rimarcare quanto il mondo sia cambiato in questo ultimi 60 anni e quanto sia stata deleteria per la società la concezione materialistica oggi imperante.
Alessandro Mezzano
GLOBALIZZAZIONE
Un primo risultato evidente dello spostamento dai valori etici a quelli economici in base la nuovo comandamento universale che il denaro vale più di tutto il resto è senza dubbio il fenomeno della globalizzazione.
La globalizzazione si fonda sulla ricerca del massimo profitto ad ogni costo e si basa sulla speculazione del capitalismo mondiale che ha trovato più conveniente spostare i propri investimenti verso quei Paesi poveri dove i costi di produzione sono immensamente inferiori a quelli dei Paesi più emancipati.
Al capitalismo mondiale non importa se quella produzione costa di meno perché i
lavoratori operano in una condizione di semi schiavitù, con salari da miseria e con orari di lavoro massacranti, né gli interessa che in quei Paesi non esista alcuna legge che tuteli l’ambiente permettendo altissimi tassi di inquinamento, né gli interessa che tutto ciò produca una concorrenza sleale ed insostenibile per i Paesi più avanzati provocando la chiusura delle aziende e una massiccia disoccupazione.
Anzi tutto questo, al capitalismo mondiale fa comodo perché abbassa i costi di produzione ed aumenta di conseguenza i profitti..!
Al capitalismo interessano solamente gli utili che da tale situazione possono derivare in nome appunto del profitto e della priorità che questo assume in una società in cui l’oro ha vinto sul sangue.
Il paradosso di una tale situazione è che anche i capitalisti vivono sullo stesso pianeta dei poveri e degli sfruttati e dato che il processo innescato dalla globalizzazione mette a repentaglio il futuro di tutto il pianeta, se non altro sotto l’aspetto ecologico, quando si sarà superato il punto di non ritorno, sarà segnata anche la loro sopravvivenza.
Ma il denaro non è capace di proiettare il ragionamento in prospettiva e vive solo e
sempre nel presente senza preoccuparsi delle conseguenze future del suo operare!
La globalizzazione avrebbe un senso solamente se rappresentasse una situazione
mondiale in cui ogni Paese fosse ad un grado di sviluppo eguale agli altri e quindi non si creassero discrepanze economiche e sociali, ma così non è e non serve a nulla fare finta che lo sia.
La storia insegna che i popoli e le civiltà si sviluppano e crescono in modi ed in tempi
diversi tra di loro creando delle differenza economiche culturali e sociali che non possono essere colmate con la bacchetta magica della finanza internazionale.
Se pure è giusto auspicare che i popoli meno progrediti possano raggiungere il grado di sviluppo di quelli più progrediti, pure si deve tenere conto che il processo deve essere graduale per non sconquassare le economie.
È come se da un bacino di acqua a monte si dovesse riempirne uno al valle sino ad
equilibrare i livelli.
Se l’afflusso sarà graduale non ci saranno danni, ma se si apriranno le dighe di colpo ciò provocherà una tale onda di piena da distruggere il bacino a valle…
Fuori di metafora, se si ponessero dei dazi sulle importazioni dai Paesi emergenti, in modo graduale e magari per grandi blocchi a sviluppo omogeneo, si otterrebbe il risultato di fare sì progredire quei Paesi, ma senza dissestare le economia dei Pesi più progrediti come invece sta avvenendo ..!!
Precarietà e disoccupazione rappresentano il vero dramma sociale ed economico per il nostro Paese, un’autentica emergenza che il governo Letta dovrà affrontare proponendo riforme difficili, ma il cui punto cruciale dovrà essere l’abrogazione dell’articolo 18.
Un tasso di disoccupazione che ormai sfiora il 13%, qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro obsoleti o spariti e coperti soltanto dalla cassa integrazione straordinaria e in deroga, oltre il 40% dei giovani che non studiano o lavorano, questa la drammatica fotografia della terza economia europea: l’ Italia.
Un dramma inarrestabile: precarietà ed impoverimento allagano i più svariati settori, affogando professionalità a tutti i livelli, dagli operai agli impiegati ai professional, mentre chi è fuori dal sistema produttivo non intravede la minima speranza di entrare a farne parte.
“La lotta alla disoccupazione sarà la stella polare del nostro governo, un’ossessione
quotidiana” è il mantra di Enrico Letta, ma la questione è come aggredire un sistema
Paese completamente inceppato, con un ritardo di 25 anni sulla globalizzazione e sulle trasformazioni internazionali dei mercati come ha recentemente sottolineato il Governatore Visco, ed imboccare la via della logica di lungo periodo della piena occupazione.
E’ da un po’ di tempo che negli incontri e nei dibattiti a cui mi capita di partecipare affiora l’idea che il “signoraggio bancario” sia la causa dell’attuale crisi finanziaria. A rilanciare sui mass media un tema, quello del signoraggio bancario e della sua incidenza sulla crescita economica ma caro a molti amici, c’è stato sicuramente lo scalpore suscitato dall’Avv. Marra e le bellezze mostrate (senza particolare pudore) dalla Dottoressa Sara Tommasi, oltre che naturalmente la convinta battaglia di alcuni affezionati.
Dirò subito, a scanso di equivoci con quello che seguirà, che a parere di chi scrive l’attuale crisi ha poco a che vedere con la questione del signoraggio in senso stretto[1], ma ha, invece, molto a che fare con lo scellerato comportamento del sistema bancario che ha approfittato del clima da farwest che ha dominato l’intermediazione finanziaria degli ultimi anni. Forse con più efficacia la critica andrebbe mossa al comportamento delle banche piuttosto che a quello dell’Istituto di emissione.
Ma andiamo con calma e vediamo di meglio chiarire le questioni in ballo.
Quando parliamo di signoraggio bancario, comunemente intendiamo l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta ed, in particolare, in rapporto all’euro, facciamo riferimento al reddito originato dagli attivi detenuti in contropartita delle banconote in circolazione che viene ricompreso nel calcolo del reddito monetario; ne fa menzione anche l’articolo 32.1 dello Statuto del SEBC, secondo cui il signoraggio è “Il reddito ottenuto dalle Banche Centrali Nazionali nell’esercizio delle funzioni di politica monetaria del Sistema Europeo delle Banche Centrali”. Come si vede, già da queste prime battute, il potere dalla Banca Centrale di “battere moneta” è garantito in sede di Statuto, e ad essa si riconosce il diritto al signoraggio che risulta essere il ricavo dell’attività delle funzioni di politica monetaria da questa svolta. Insomma, una precisa esplicitazione del ruolo attribuito all’Istituto di emissione e del compenso riconosciutogli e, soprattutto, come emerge ad una attenta lettura dello stesso statuto e dei trattai , incardinata in un sistema di pesi e garanzie, che marcano la distanza tuttavia al diritto riconosciuto al Principe di emettere moneta in funzione dei suoi bisogni.
[1] Maurice Obstfeld, Kenneth S. Rogoff, Foundations of International Macroeconomics, Massachussetts Institute of Technology, 1996, (chapter 8, Money and Exchange Rates under Flexible Prices, section 2, The Cagan Model of Money and Prices, paragraph 6, Seigniorage, pag. 52, e Paul R. Krugman, Maurice Obstfeld, International Economics: Theory and Policy, Addison Wesley, 2009, (Part IV, International Macroeconomic Policy, chapter 22, Developing Countries: Growth, Crisis, and Reform, pag. 626), definiscono il signoraggio come il flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi.
Tratto da Il Giornale
L’Ilva, la fabbrica che produce acciaio con base a Taranto, è un caso perfetto per raccontare l’atteggiamento schizofrenico che abbiamo nei confronti del garantismo. Lo invochiamo in ogni dove, ma pensiamo di applicarlo solo ai nostri amici. Fino a questo momento non c’è una, che sia una, sentenza che decreti gli effetti inquinanti del complesso industriale. Non c’è una sentenza che certifichi le colpe dei suoi proprietari e dei suoi manager. Non c’è una sentenza che dimostri la frode fiscale della famiglia Riva. Il solo porsi una domanda sulla correttezza delle tesi accusatorie sembra sacrilego. Eppure nell’immaginario collettivo Taranto è come Chernobyl, i Riva come Al Capone e i dirigenti della fabbrica dei complici in disastro ambientale. Esageriamo? Sentite qua. La fase delle indagini preliminari (che è quella in cui siamo) ha portato alla carcerazione preventiva da un anno, tra gli altri, di Emilio Riva. I magistrati hanno sequestrato le aree a caldo (il cuore) dell’acciaieria. E, sempre in misura cautelare, hanno sequestrato anche un miliardo di suoi prodotti finiti. Una legge fatta dal governo Monti e che avrebbe permesso all’impresa di lavorare è stata bloccata dai magistrati di Taranto con un ricorso alla Corte costituzionale. Perso il ricorso, i magistrati otterranno più o meno lo stesso effetto grazie ad un sequestro monstre di 8,1 miliardi in capo all’azienda. In cui i capi reparto della fabbrica vengono accusati di complicità in reati ambientali. Per sovrammercato, un’altra Procura ha imputato ai medesimi Riva una frode fiscale di 1,2 miliardi. Tutto da dimostrare, davanti ad un giudice di primo grado. E poi, eventualmente, su per li rami della nostra giustizia. Nel frattempo, il governo Letta per tenerla in piedi ha dovuto commissariarla, un escamotage pericolosissimo per chi non considera la proprietà privata un furto.
L’Ilva è diventata il male assoluto. Questo articolo procurerà a chi scrive minacce e insulti di ogni tipo. Ma chiediamo soltanto e laicamente una cosa: siamo sicuri? Siamo certi? L’Ilva, i Riva e i loro dirigenti sono davvero indifendibili. La Confindustria fischietta e ci racconta le solite menate sindacali buone per un convegno a via Ripetta. Un suo uomo del Nord scriveva ad uno dei potenti vicepresidenti romani: «Sull’Ilva dobbiamo fare un casino. Ne va del futuro manifatturiero del nostro Paese. Una Confindustria seria dovrebbe capire che non si può bloccare un settore che vale 7 miliardi. Rischiamo un nuovo caso Fastweb, doveva essere la truffa del secolo e poi si è rivelata un robetta». La risposta del notabile romano: «Appunto. Una Confindustria seria».
L’Ilva è in coma. Ma ciò che in Italia è morto è un minimo senso garantista verso persone e cose oggetto di una così invasiva attività giudiziaria. Per poi ritrovarci tra qualche anno a piangere sulla perdita di un settore industriale strategico e magari con sentenze definitive che ridimensioneranno colpe e pregiudizi.