Premessa.
L’iniziativa del CESI, Centro Nazionale di Studi Politici, deliberata il 19 gennaio e lanciata il 23 successivo, di un Appello a tutti i candidati alle prossime elezioni politiche per sottoscrivere un “Patto per la partecipazione” (vedi sito CESI) ha trovato numerosissime adesioni ed ha anticipato significative dichiarazioni analoghe da parte di organizzazioni imprenditoriali, dei dirigenti d’azienda, nonché di appartenenti ai sindacati dei lavoratori.
Si rende pertanto necessario approfondire la materia sia per quanto riguarda le origini che per quanto si riferisce agli sbocchi che si intravedono.
In questa direzione vi erano state in passato autorevoli indicazioni da parte di singoli esponenti del mondo imprenditoriale e giornalistico le quali avevano sostenuto, appunto, che l’introduzione dell’istituto della cogestione e della partecipazione agli utili, non solo riguarda la giustizia sociale, ma anche il progresso economico al fine di aumentare la produttività dell’intero sistema, la sua efficienza nella competizione mondiale e l’aumento della disponibilità monetaria delle famiglie dei lavoratori ai fini della ripresa della domanda aggregata per combattere la recessione.
Vale la pena, pertanto, di fare anzitutto una sintesi storica di questa proposta istituzionale che è destinata a caratterizzare fortemente un sistema politico ed economico alternativo all’attuale. Quello della cogestione, infatti, è un istituto che rientra in un complesso istituzionale coerente, di politica economica non solo di breve periodo, ma che si inserisce costituzionalmente in un indirizzo di sviluppo strutturale valido nel medio-lungo periodo con forti riflessi nel progresso civile della società.
1. Lineamenti per una storia della cogestione nella seconda metà del secolo scorso.
Anzitutto va osservato che tale indirizzo, nel tempo, si è andato precisando perché costituisce la definitiva uscita dalla concezione della lotta di classe per radicare quella della collaborazione organica fra capitale e lavoro. Inoltre, essa si caratterizza come punto essenziale di una nuova fase storica volta al superamento dei vari capitalismi finanziari, avventuristici e meramente individualistici, dopo il fallimento delle concezioni del collettivismo statalista e degli indirizzi social-comunisti.
Non può non essere ricordato, pertanto, che l’Italia, anche a questo riguardo, è stata antesignana. Infatti va segnalata quella fondamentale iniziativa di civiltà che fu proposta il 26 dicembre 1946, nel Manifesto fondante del MSI, dove, al punto VIII, si proclamava che nel nuovo Stato vi doveva essere «completa collaborazione fra i vari fattori della produzione attribuendo ai sindacati dignità e responsabilità di istituzioni pubbliche ed effettiva compartecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda e al riparto degli utili».
Così pure non può essere dimenticato che, successivamente, in tutti i documenti conclusivi dei Congressi tenuti da quel partito, tra i capisaldi progettuali fu indicata la necessità dell’introduzione dell’istituto della cogestione e della partecipazione agli utili dei lavoratori, nonché della partecipazione dei sindacati datoriali e dei lavoratori alla programmazione concertata dell’economia nazionale[1].
1° Le leggi sul lavoro determinano lo sviluppo
Anche chi non segue con particolare attenzione le vicende complesse e a volte drammatiche della grande crisi italiana dei nostri giorni ha comunque chiaro sentore della centralità e della criticità delle leggi sul lavoro, delle leggi cioè che disciplinano i rapporti tra i lavoratori ed i datori di lavoro e che determinano aspetti fondamentali della vita dei cittadini e dello sviluppo dell’economia. Problemi come quelli del precariato, dei contratti a termine o a tempo indeterminato, della cosiddetta flessibilità in entrata ed in uscita, della riforma dell’art. 18 o ancora problemi più vasti come il livello di disoccupazione o come quello della stagnante produttività del sistema economico italiano sono direttamente o indirettamente condizionati dalle modalità di approccio ai rapporti di lavoro.
Tale aspetto cruciale della vita economica e sociale della Nazione può essere profondamente innovato e sostanzialmente migliorato con l’introduzione dell’istituto della cogestione nel nostro ordinamento giuridico. L’idea base della cogestione , come è anche intuibile, concerne l’associazione dei lavoratori alla conduzione dell’impresa e comporta quindi la loro responsabilizzazione, la loro partecipazione alle decisioni di investimento e di ordinario esercizio costituendo con ciò anche la premessa per la condivisione diretta dei benefici e delle difficoltà dell’impresa stessa. La condivisione dei benefici concerne chiaramente la partecipazione alla distribuzione degli utili e dei dividendi mentre la condivisione delle difficoltà in tempo di crisi può comportare la ripartizione paritaria del minor lavoro tra i soggetti interessati (da contrapporre ad esempio alla messa in cassa integrazione, cioè all’espulsione a volte temporanea e a volte no, di una aliquota dei lavoratori normalmente impiegati).
2° Concretezza della cogestione
Occorre chiarire che nelle attuali condizioni economiche e sociali dell’Italia e dell’ Occidente in generale la cogestione è ben lungi oggi dal costituire un sogno utopistico . L’innalzamento del livello culturale della popolazione nel suo complesso, la diffusione di mansioni lavorative complesse esercitate da operatori in condizioni di sempre maggiore autonomia, lo svuotamento delle ideologie marxiste sulla lotta di classe che contrapponevano in modo
preconcetto lavoratori da una parte e “padroni” dall’altra rendono oggi concrete ed attuali le aspirazioni ad una più stretta collaborazione tra “produttori” a livello di azienda con reciproci e generali vantaggi. Tale collaborazione ha assunto nei vari paesi forme diverse: nei paesi anglosassoni ad esempio , più culturalmente legati al modello capitalistico classico, si è diffuso l’azionariato popolare, la detenzione cioè di azioni del capitale dell’impresa da parte dei dipendenti che però in concreto, almeno sinora , ha riguardato soprattutto le fasce alte del personale , dirigenti aziendali in particolare ; tale soluzione però chiaramente non incide nell’ordinamento della governance aziendale e per quanto positiva ai fini di una maggiore motivazione dei soggetti coinvolti non incide significativamente nel miglioramento delle relazioni industriali.
I risultati delle recenti elezioni italiane hanno puntualmente confermato le previsioni formulate dal Cesi. Tale conferma non è dovuta alle particolari capacità divinatorie degli studiosi del nostro Centro Studi, ma al fatto che essi hanno effettuato analisi e prospettato conseguenze in quanto esenti da ogni condizionamento personale e facendo riferimento alle più consolidate conoscenze delle leggi storiche e delle scienze politiche.
La dinamica intrinseca all’attuale sistema italiano non poteva non portare dunque che all’attuale risultato: con questo sistema il nostro Paese è ingovernabile ed è privo di prospettive. Non si tratta soltanto di aver aggravato l’impossibilità di funzionamento del sistema politico e costituzionale vigente (indipendentemente dai difetti di origine e dalle lacune nonché dalle mancate applicazioni), ma della constatazione che esso è giunto al termine del ciclo storico succeduto alla Seconda guerra mondiale.
Non sono più possibili delle semplici riforme da parte degli attuali poteri costituiti, perché essi sono incapaci di fatto, anche se lo volessero, di proporre e attuare riforme che andassero al di là della propria sopravvivenza politica intesa nel senso più utilitaristico e immediato dell’espressione. Quindi siamo arrivati al più rozzo “si salvi chi può”.
Gli italiani, oggi, sono stati spinti da una classe dirigente presuntuosa, corrotta ed incapace a praticare quel falso e miope realismo che fu già nei secoli passati stigmatizzato da Machiavelli e Guicciardini e dal quale eravamo usciti con il Risorgimento prendendo coscienza di noi stessi. Oggi viene praticato un regressivo “guardiamo al concreto, all’immediato, al nostro particulare e poi venga pure il diluvio, sarà quel che sarà”.
Questo falso realismo di funesta riproposizione, non solo ha contagiato buona parte del popolo diffondendo pessimismo e avvilimento, ma è stato pure praticato da governanti che hanno avuto come solo obiettivo una politica fiscale predatoria che ha depresso le forze dell’imprese e del lavoro.
D’altro canto per coloro che sono pensosi del futuro dell’Italia e dell’avvenire delle nuove generazioni, non può rappresentare una consolazione il fatto che siano stati posti fuori dal Parlamento tanti cosiddetti “seguaci del concreto”, ma che in realtà erano degli opportunisti e cinici negatori di qualsiasi coerenza ideale.
Tuttavia, nonostante queste “espulsioni”, non c’è stato assolutamente un ricambio di classe politica nel significato autentico del termine. Per le forze politiche già esistenti c’è stato solo un regolamento di conti fra rivali e vecchi (finti) amici; per coloro che delusi e arrabbiati hanno cercato altre soluzioni ha avuto luogo solo la coagulazione eterogenea dei protestatari.
La legge elettorale fondata sulla cooptazione, che era stata giustificata dalla ricerca della stabilità, si è così rivelata la fonte primaria della instabilità. Il soggetto partito politico ha dimostrato la sua impossibilità di fatto di costituire l’unico attore rappresentativo della base sociale sulla scena della politica istituzionale.
Il partito, invece di costituire il portatore di una concezione di guida, di soluzione dei problemi e di realizzazione del rapporto con il popolo, in concorrenza con altre entità rappresentative, si è ridotto ad un coagulo di interessi particolari ancor più conflittuali a cominciare proprio dal suo stesso interno.
Il permanere del partito quale unico attore della scena politica ha provocato molte dannose conseguenze:
Che fare? Non sono più sufficienti le c.d. riforme all’interno del sistema politico e costituzionale vigente, cioè effettuato ad opera di soggetti costituiti, ma si rende necessaria la rifondazione dell’ordinamento giuridico-politico da parte di soggetti costituenti che ricevano la propria legittimazione da un effettivo e diretto consenso popolare libero da condizionamenti sedimentati o da voti di protesta privi di vere prospettive.
L’esempio del consenso ricevuto dal Movimento 5 stelle, che il suo leader avrà difficoltà (o sarà incapace, oppure non vorrà) ad utilizzare nel Parlamento, è dimostrativo della validità della tesi costituente del Cesi rivolta a promuovere un movimento per una effettiva alternativa di sistema.
Molti dei punti programmatici del M5S possono considerarsi anche validi ed attuali ma non si inquadrano in una visione sistematica per la radicale modifica del quadro istituzionale rappresentativo. Infatti i parlamentari da esso eletti provengono dalle più disparate espressioni a carattere settoriale oppure meramente protestatario (movimento ecologista, movimento della decrescita felice, etc.).
Anche quando questo Programma M5S intitola il suo primo paragrafo: Stato e cittadini, non esce dal contingente, in quanto chi lo ha redatto non si è reso conto che il vero problema che incombe è quello del cambiamento radicale della forma dello Stato.
Quella parte dell’elettorato, che ha reso la lista del Movimento 5 Stelle la più votata, ha creduto di aver trovato in essa uno strumento di protesta che potesse finalmente dimostrare la possibilità di superare l’attuale sistema e quindi di aver avviato i presupposti per un radicale rinnovamento di esso.
Se, come è assai probabile questa speranza rimarrà delusa, il rischio è quello che la delusione e lo smarrimento conseguente si estenda a tutti gli italiani i quali saranno indotti a rinunciare all’idea che l’unità nazionale sia destinata ad essere superata e che pertanto l’Italia non possa più mantenere un ruolo autonomo in Europa. Di conseguenza le nuove generazioni, specialmente nella parte più dotata, saranno indotte ad abbandonare il nostro Paese per cercare altrove il loro futuro.
Per queste ragioni il Cesi si rivolge sia a coloro che sono entrati in Parlamento, sia a coloro che ne sono rimasti fuori per sottolineare che ormai si è arrivati ad un punto nodale della storia sia individuale che collettiva della Nazione italiana.
Occorre una Costituente effettiva, una Assemblea in cui si raccolgano coloro che intendono costruire un nuovo ordinamento politico e giuridico. Tale radicale cambiamento – allo stato in cui si trova l’Italia – ha maggiori probabilità di successo rispetto all’ennesima ristrutturazione di un consunto edificio, non più rappresentativo del popolo perché costruito sulla base di una legge elettorale truffaldina e consentito da una Costituzione superata.
Anzitutto è in gioco l’esistenza stessa dello Stato nazionale Italia sia perché mancano i raccordi tra la politica della scuola, della ricerca e della cultura con la realtà sociale, economica ed ambientale del Paese; sia perché si va sempre più riducendo il peso del sistema produttivo nazionale in un sistema di mercati aperti globalizzati; sia ancora perché permane una condizione di debolezza della posizione dell’Italia in Europa e continua il non protagonismo dell’Europa – non ancora veramente unita – nei confronti delle altre potenze continentali.
In particolare non viene adeguatamente focalizzato l’incombente pericolo riguardante la tendenziale radicalizzazione dei partiti della secessione, non solo al nord ma anche al sud del nostro Paese.
Nel corso della recente campagna elettorale si è colpevolmente trascurato il fatto che la Lega ha deliberatamente posto come suo obiettivo quello di creare la macroregione del Nord Italia e che nel Mezzogiorno d’Italia sono apparsi partiti esclusivamente interessati ad autonomie regionalistiche.
Nell’un caso e nell’altro, si punta a dare forma costituzionale autonoma, se non addirittura indipendente, a territori che risulterebbero privi di capacità di sviluppo, riportando il nostro Paese ad essere solo una “espressione geografica”, secondo la sprezzante frase dell’asburgico Metternich.
Se la cosiddetta Padania, nome e nazione mai esistiti nella storia, si aggregasse alle cosiddette Euroregioni, che gravitano intorno alla Mitteleuropa, vedremo quegli italiani tornare ad essere soltanto satelliti di Potenze d’oltralpe, come già lo sono da tempo divenuti gli abitanti degli “staterelli” balcanici.
Analogamente il Mezzogiorno finirebbe per divenire un territorio sul quale la qualità di vita sarebbe ridotta al livello di quella degli abitanti della sponda africana del Mediterraneo. Sul piano economico non costituirebbe più mercato essenziale di sbocco per le produzioni delle regioni del Nord e di espansione per le merci prodotte nel Sud.
Gli italiani disuniti, in questa prospettiva, non parteciperebbero più alla costruzione della storia umana, ma solo la subirebbero.
Il Cesi, perciò, invita tutti gli italiani ad avere coraggio e fiducia in sé stessi ed incita i giovani a crearsi il proprio futuro attraverso una vera preparazione professionale ed una genuina disponibilità ad operare senza rimanere passivi incolpando la tristitia temporum e il destino cinico e baro.
Il Cesi auspica che gli intellettuali italiani, specialmente se docenti impegnati nell’educazione e nella ricerca, a farsi Maestri, cioè ad essere coscienza critica del popolo.
Il Cesi, in conclusione, propone insieme con altri organismi similari, di realizzare un Comitato nazionale che aggreghi tutte le forze della Nazione per una Convenzione costituente che ascolti le istanze della base sociale e indichi le strutture più idonee adatte a risolvere gli interessi conflittuali e ad indicare programmi per lo sviluppo futuro.
L’ampiezza dello spazio decisionale e la piena autonomia del giudice, che sono sicuramente valori fondamentali della nostra vita democratica, determinano però nelle questioni economico-industriali e del lavoro la variabilità più assoluta e riducono la certezza nell’applicazione della legge – L’esempio dello scontro sull’Ilva.
Il caso Ilva è il più recente esempio di quella furia iconoclasta che in Italia permea certi magistrati, indifferentemente civili e penali, quando si trovano ad affrontare questioni relative alle imprese, in particolare dei grandi gruppi industriali, che possono avere, sotto l’ effetto delle loro decisioni, forti implicazioni sul piano economico, sociale, politico o sindacale.
L’ampiezza dello spazio decisionale e la piena autonomia del giudice, che sono sicuramente valori fondamentali della nostra vita democratica, determinano peraltro nelle questioni economicoindustriali e del lavoro la variabilità più assoluta e riducono la certezza nell’applicazione della
legge.
Da parte di molti osservatori è stato sottolineato che il coesistere nel tempo di diverse e contrastanti interpretazioni adottate da questo o quel giudice (si pensi solo all’ art. 18) mette in discussione la stessa legge e determina una inaccettabile imprevedibilità strutturale.
La grave situazione di incertezza nell’ applicazione della legge, che oggi è addirittura sfociata con l’ ILVA in un durissimo scontro della magistratura nei confronti del Governo, costituisce un’ulteriore forte penalizzazione per le aziende italiane che ogni giorno sui mercati internazionali si confrontano con concorrenti agguerriti e assai meno vincolati nella loro operatività.
Le imprese, come tutti i cittadini, hanno bisogno di conoscere con certezza le regole del gioco, ma non sempre è così. Prendiamo il caso di quelle sentenze che hanno stabilito che nelle aziende metal meccaniche associate a Federmeccanica non possa essere applicato agli iscritti Fiom-Cgil il contratto nazionale sottoscritto, sulla base delle rinnovate regole interconfederali sui livelli di contrattazione, da Fim-Cisl e Uilm-Uil e debba invece essere applicato il contratto nazionale precedente del 2008 sottoscritto anche da Fiom. Questo ha comportato che per tre anni, dal 2009 al 2012, nella stessa azienda sono esistiti due contratti nazionali diversi e, quindi, lavoratori che a parità di mansione potevano avere trattamenti
economici e normativi differenti. Una situazione di difficile gestione peraltro con il rischio di non essere del tutto superata, visto che il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici in vigore da gennaio di quest’ anno, firmato da Federmeccanica e Fim e Uilm, è contestato dalla Fiom.
Ancora più clamoroso è il caso della Fiat che negli ultimi due anni è stata oggetto di una campagna giudiziaria senza precedenti.
La rivoluzione islandese , ovvero l’alternativa pratica alle scelte del governo greco di far pagare ai cittadini e alla fasce piu’ deboli le colpe della finanza e della politica
E’ interessante sapere che dopo il crac finanziario islandese del 2008 è stato indetto un referendum popolare dove il 93% della popolazione ha deciso di fare pagare i danni ai banchieri ritenuti responsabili della débâcle economico-finanziaria.
Ora, alla vigilia delle elezioni politiche del prossimo aprile, vengono sospesi i negoziati di adesione alla UE (mala tempora per gli unionisti…)e, tenendo conto degli errori compiuti, l’Islanda pensa di redigere una nuova Costituzione facendo partecipare alla stesura i cittadini attraverso i social neyworks dove vengono raccolte le loro idee e le loro proposte.
Crowdsourcing si chiama questo processo che vede la partecipazione dei cittadini a scelte politiche che incideranno profondamente la loro sfera privata e sociale e va oltre l’istituto del referendum perchè coinvolge l’intera popolazione.
Dopo aver dato lezioni di democrazia e di sovranità monetaria a tutto l’occidente, ora l’Islanda dimostra come il cittadino si debba riappropriare del diritto di partecipare alle scelte piu’ importanti della vita economica, politica e sociale dell’Isola.
I dibattiti della campagna elettorale in corso, invece di orientare gli elettori circa i programmi che ciascuna forza politica intende realizzare nella prossima legislatura, si limitano quasi esclusivamente ad irosi confronti fra i singoli personaggi che si confrontano. Malgrado l’Italia stia attraversando un lungo periodo di grave crisi politica ed economica e, in particolare, sia stata soggetta nell’anno trascorso ad un pesante interventismo fiscale che ha aggravato la depressione economica e le condizioni sociali dei cittadini, non vengono avanzati progetti tali da far riprendere quello sviluppo al quale il Paese ha diritto sia sul piano civile che su quello produttivo.
L’Italia ha bisogno di radicali riforme nella sua struttura costituzionale e istituzionale e nella legislazione riguardante l’impresa, il lavoro e l’uso dei capitali. L’attuale Costituzione è insufficiente a rispondere alla dinamica civile ed economica che è stata impressa al nostro Paese, sia dalla sua appartenenza all’ U.E. e all’Eurozona, sia dal confronto sempre più aspro sui mercati aperti dovuto alla globalizzazione.
Analogamente le sue istituzioni, in vari settori essenziali dello Stato – scuola, ricerca, giustizia, sanità, tutela del territorio, servizi pubblici e infrastrutture – sono arretrate. Specialmente nel campo della produzione e della politica economica e sociale l’Italia abbisogna di adeguati e risolutivi interventi in sede di efficienza delle attività produttive (agricole, industriali e terziarie), di coerente coordinamento nella programmazione economica centrale e periferica, di formazione professionale e di garanzie occupazionali.
Tutto questo deve partire dalla base delle attività produttive – le imprese e le aziende – nelle quali deve realizzarsi una fattiva collaborazione organica tra capitale e lavoro e, quindi, una responsabile partecipazione alla gestione e agli utili in tutti i livelli operativi: dirigenziali, funzionali ed esecutivi.
Vi è urgenza a questo riguardo perché la competizione all’interno e verso l’esterno dell’Europa sarà sempre più serrata e le merci e i servizi prodotti saranno sempre più soggetti ad un aspro confronto: il fattore lavoro sarà essenziale ai fini della produttività, ossia dell’apporto partecipativo, anche da parte del lavoratore che opera in ruoli modesti o di primo impiego, ai fini del continuo miglioramento dei processi produttivi , dell’innovazione di prodotto e della maggiore quantità di beni prodotti e commercializzati..
L’esperienza tedesca deve fare scuola. La Germania, a seguito della introduzione da molti anni nelle proprie imprese dell’istituto della cogestione e della partecipazione di tutti, investitori e lavoratori, agli utili ( mitbestimmung ), ha in Europa la più alta produttività quantitativa e qualitativa per cui, anche in periodo di crisi, regge i confronti con la produzione estera in settori strategici dello sviluppo.
Tale positiva situazione istituzionale riguardante le imprese costituisce, oltre che un fattore di elevazione civile, pure un generale abbassamento dei costi fissi aziendali in quanto gli stipendi e i salari sono più contenuti rispetto alla media europea, mentre invece il contenuto reale della buste paga dei suoi lavoratori è molto più alto rispetto a quello degli altri lavoratori della U.E.
Il Centro Nazionale di Studi CESI – facendo tesoro di tutta una scuola italiana di dottrina politica, sociale ed economica – fin dalla sua nascita sostiene la necessità dell’introduzione urgente nel nostro Paese dell’istituto partecipativo sopra descritto e pertanto lancia, in occasione della presente campagna elettorale, a tutti i candidati una appello perché sottoscrivano un impegno in tal senso, (g.r.)
LEGGI E SCARICA L’APPELLO AI CANDIDATI NELL’ARTICOLO RELATIVO
Scarica l’appello in PDF – Testo del Patto da sottoscrivere – Scheda di adesione
Il CESI (Centro Nazionale di Studi Politici ed Iniziative Culturali),
CONSTATATA
La grave crisi del sistema produttivo nazionale con pesanti ricadute sui livelli occupazionali, sul tenore di vita dei lavoratori e delle loro famiglie e sul rapporto deficit/pil;
EVIDENZIATA
l’esigenza per l’economia italiana di attuare una maggiore produttività nelle imprese da raggiungersi attraverso sistemi di partecipazione alla gestione e agli utili (come sottolineato da numerosi esponenti del mondo sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro; da rappresentanti
della cultura italiana, ed in particolare del mondo della scuola di ogni ordine e grado; da sociologi ed economisti, nonché da gran parte della stampa d’opinione e specialistica);
PRESO ATTO
delle Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia sottoscritto il 16 novembre 2012 dalle maggiori confederazioni sindacali dei lavoratori – UGL, CISL e UIL – e dalla maggior confederazione industriale italiana – la Confindustria – secondo le quali è necessario «dare attuazione alle misure per la partecipazione nelle imprese ».
FA APPELLO
ai candidati impegnati nelle elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013, perché sottoscrivano un Patto finalizzato a realizzare già nella prossima legislatura istituti partecipativi nelle imprese pubbliche e private, secondo quanto richiesto dal dettato dall’art.46 dell’attuale Costituzione Italiana in vigore dal 1948 e mai introdotti nei trascorsi 65 anni: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
Il presente Appello é stato sottoscritto dagli aderenti al Centro studi CESI; dai dirigenti della UGL che si richiamano ai valori dell’ etica e della partecipazione ed è aperto alla sottoscrizione di quanti – enti, gruppi, associazioni e persone singole – ne condividono i contenuti.
Le adesioni possono pervenire sia direttamente per e-mail (cesi.studieiniziative@gmail.com) sia in qualunque altro modo della rete online, oppure, per esempio, attraverso articoli e comunicati stampa. Sarà gradita la segnalazione del proprio indirizzo e-mail .
Scarica l’appello in PDF – Testo del Patto da sottoscrivere – Scheda di adesione
La campagna elettorale è un’occasione unica per lanciare slogan e incrociare le spade per mezzo di programmi che come tutti sappiamo non verranno mai applicati.
Stavolta la situazione è particolarmente favorevole per accapigliarsi, visti la pressione fiscale, il blocco dei crediti, il crollo dei consumi, la liquidazione dello stato sociale e l’attacco a salari, risparmi e pensioni. E considerata, sempre che ce ne accorgiamo, la cessione di sovranità.
Il guaio è che non si vede come vi si possa far fronte mediante un eventuale cambio di governo, né s’indovina chi si possa candidare come classe dirigente alternativa.
Difatti, pur tra cento sfumature, sono solo due le posizioni di fondo, di cui peraltro gli stessi sostenitori non sempre sono pienamente consapevoli.
Da una parte abbiamo le concezioni meccaniciste e materialiste che condividono i marxisti e i cosiddetti mercatisti, o se vogliamo i liberisti mondialisti.
Per entrambi il potere politico è un puro e semplice involucro del potere economico, dunque del capitale internazionalizzato e del mercato unificato. Ragion per cui Napolitano come Monti ritengono naturale e salutare la cessione di sovranità. Ragion per cui Fassina e Vendola si contrappongono a Montezemolo e Albertini sul taglio delle riforme e sulla distribuzione fiscale, ma sono tutti Draghi-dipendenti.
Dall’altra parte abbiamo i pindarici, o i reazionari utopistici, che si differenziano tra loro sul come intendono il ruolo dello Stato e la politica del lavoro ma concordano tutti nell’attribuire superficialmente alla sottomissione, alla corruzione e all’incapacità della classe dirigente il portato di una crisi che, cambiando la classe dirigente e quindi la linea politica, secondo loro si andrebbe a risolvere potenziando la sovranità nazionale o regionale.
A questo secondo gruppo appartengono quasi tutti i partiti populisti del centrodestra, dell’estrema destra, dei leghisti secessionisti e di una buona fetta del populismo qualunquista grillino.
A contrapporre i primi ai secondi è poi la posizione, sempre estremistica ed irrazionale, sull’Europa. I meccanicisti la esaltano, i pindarici ne fanno un’ossessione.
Il superamento del liberalismo e del socialismo ha radici profonde in un secolo di dottrina e di esperienze istituzionali.
Purtroppo molti storici ed intellettuali di varie tendenze trascurano, o spesso negano, quanto costituisce i precedenti di un progetto politico e sociale di grande attualità valido per le soluzione delle problematiche incombenti.
Va pertanto segnalato quanto è apparso venerdì 4 gennaio 2013 sul Corriere della Sera nella Rubrica tenuta da Sergio Romano, che tutti conosciamo come noto diplomatico, storico di forte impegno ed intelligente commentatore degli avvenimenti contemporanei.
Pubblichiamo qui di seguito il testo di una lettera di Stefano Massimo Pontiggia e la risposta dello scrittore, pubblicata sotto il titolo: Fiume e la Carta del Carnaro un testo sociale e libertario.