L’imbroglio costituzionale
Come molti lettori del bollettino hanno notato, in questi ultimi numeri il CESI non ha trattato il problema della Riforma Costituzionale che l’attuale legislatura si è arbitrariamente assunta senza averne avuto alcun mandato dagli elettori. Già in passato il CESI aveva sostenuto la necessità che per attuare il cambio del sistema politico vigente, ossia del regime partitocratico, fosse necessario indire una Assemblea Costituente completamente separata da una “legislatura costituente”. Oggi dobbiamo prendere atto che sono diventati addirittura “costituenti” i parlamentari che non sono stati affatto eletti per svolgere questo compito.
Il Governo e le forze politiche che lo sostengono – PD, FI e NCD – dichiarano che entro luglio saranno varate decisive riforme che modificheranno l’assetto costituzionale italiano in maniera irrimediabilmente dannosa in quanto riguardante la composizione e l’attività del Parlamento (introduzione del Senato delle Autonomie), la radicalizzazione del nefasto regionalismo e, non da ultimo, una legge elettorale volta a travisare radicalmente la genuina espressione dei cittadini votanti.
Come abbiamo detto all’inizio, ci siamo astenuti dall’esprimere valutazioni perché i dibattiti in corso erano annebbiati da giornaliere modifiche nelle impostazioni non finalizzate alla costruzione costituzionale, ma piuttosto a precarie schermaglie tra le forze politiche in campo al solo scopo di conservare vantaggi di posizione. Ora però, che la Commissione Affari Costituzionali del Senato ha varato una proposta sostenuta dalla maggioranza e che sarà dibattuta nei prossimi giorni, intendiamo esprimerci in maniera più dettagliata appunto perché il bersaglio appare ormai ben individuato anche se potranno esservi marginali aggiustamenti.
Non possiamo comunque non sottolineare con estremo disagio come in Italia la forza nazionale e sociale di opposizione – che si è assunta il compito di ridare unità ed identità ben definita a quanti si sono perduti in una dispersione improduttiva – sia rimasta assente e sostanzialmente al rimorchio di un alibi, quello di un generico presidenzialismo, questione parziale rispetto al problema essenziale che è quello della mobilitazione per una nuova Costituzione che deve riguardare tutti i poteri dello Stato a cominciare soprattutto da quello legislativo.
A nessuno sfugge, infatti, che sostenere un generico “presidenzialismo” sia del tutto insufficiente per quanto riguarda la premessa essenziale. Innalzare soltanto questa bandiera – presidenzialismo vuol dire dare efficienza all’attività dell’”esecutivo” (termine che esprime, appunto, il concetto che deriva dal verbo “eseguire”, cioè fare quello che un Parlamento decide) – è poco significante e fuorviante rispetto alle necessità vere per tutta la società nazionale che sono quelle costituite dalla legiferazione di una Assemblea veramente rappresentativa delle idee espresse tramite i partiti e delle competenze espresse tramite le categorie della cultura e del lavoro. Soprattutto da essa discende la vera governabilità che attui l’uscita dalla crisi e il progresso civile del Paese.
SOMMARIO DI QUESTO NUMERO
L’equivoco percorso per modificare senza legittimazione popolare la Costituzione italiana
La presente legislatura si arroga arbitrariamente il diritto di essere costituente di Gaetano Rasi
1° – Delineata l’arbitraria e nefasta modifica costituzionale; 2° – Continua l’ipoteca regionalistica della Lega secessionistica; 3° – Gli istituti costituzionali strumentalizzati dalle precarie esigenze elettoralistiche. Permane il problema della delegittimazione della presente legislatura; 4° – Una bozza di legge elettorale antidemocratica e strumentalmente rinviata; 5° – Il decadimento del potere legislativo; 6° – Il Senato delle Autonomie è figlio del vergognoso e subdolo tradimento dell’art. 5 della Costituzione: unità ed indivisibilità della Repubblica; 7° – I componenti del Senato delle Autonomie inevitabilmente prigionieri dei localismi deleganti; 8° – Validità di un Parlamento bicamerale con funzioni distinte per ciascuna delle Assemblee.
La Repubblica è finita, grazie anche ad una destra politica che tutto ha saputo fare meno che il suo mestiere. La Casta politica nonostante le “fiere parole” difende a “voto tratto” i propri privilegi.
Gli Italiani stanno affondando in una crisi economica, sociale e morale che non si vedeva da quasi cent’anni. Da otto anni siamo in guerra, una guerra economica voluta dal mondo anglosassone, creatura politica e militare di un sistema globalizzato, guidato e voluto dai centri economici delle grandi banche private.
Di fronte a tutto questo, gli Italiani non si ribellano, non scendono in piazza, preferiscono fare le fila per pagare le tasse, facendosi prestare dalle banche i soldi.
Prandelli dichiara che “la Patria ci guarda”. La nostra Nazione, come disse Churchill, affronta le guerre come una partita di calcio e le partite di calcio come una guerra.
La verità è che, nonostante si difenda il popolo e ad esso ci si richiami con politiche “populiste”, la democrazia parlamentare esprime in larga parte la mediocrità dell’elettorato, impedendo a chi ha le capacità di usarle al servizio della “res publica”.
Si continua a parlare di legislature costituenti, assemblee costituenti: tutto questo ricorda il conclave di Viterbo, durato oltre tre anni, e risolto grazie all’intervento deciso del Capitano del Popolo, in pratica l’esercito.
A questo va aggiunto il continuo arrivo di africani, mediorientali e profughi di ogni tipo, che usano l’Italia come terra di transito per l’Europa. Quella stessa Europa (Francia, Germania, Scandinavia) che, però, non li vuole.
“Il Re è nudo”. Renzi ha convinto i media che il suo vestito è bellissimo, quando in realtà non esiste e tutta la sua politica è vuota. Lui, vero erede di Berlusconi, sta portando il Paese verso un Principato “democratico” dal quale non si uscirà per anni …
Riusciremo a trovare il “bambino” che sveli alla gente l’inganno in atto?
In Italia, si sa, spesso le buone azioni e gli atti di eroismo vengono insabbiati se a compierli sono i “cattivi” e non i “buoni”.
Questa è la storia di come si è evitata una strage che avrebbe ricordato quella avvenuta a Sant’Anna di Stazzema.
E’ il 1944, a Forno, un piccolo paese in provincia di Massa, la situazione sta per degenerare.
Il nostro testimone, Angelo Fialdini, è un sopravvissuto alla strage e per la prima volta racconta, in esclusiva per il Fatto Bresciano, come si sono svolti i fatti: ” I tedeschi erano a Massa e mai si sarebbero sognati di addentrarsi tra i monti per raggiungere il nostro paese, non ne avevano nessuna motivazione. I partigiani, però, compirono un’azione di guerriglia lasciando cadere dal fianco della montagna un masso su una vettura tedesca, causando vittime tra i soldati nazisti”.
I tedeschi non vogliono lasciare impunita questa azione di rappresaglia, decidono quindi di invadere Forno per cercare i responsabili tra i partigiani che lì avevano trovato rifugio. A Forno c’era una caserma dei Carabinieri alla quale soprintendeva il maresciallo Ciro Siciliano che aveva permesso ai partigiani di nascondersi tra i boschi che circondavano il paese. I Carabinieri avrebbero dovuto denunciare la presenza di partigiani, ma il maresciallo Siciliano non lo fece. I tedeschi, per prima cosa, raggrupparono l’intero paese sulla sponda del fiume Frigido e rinchiusero i partigiani più giovani nella caserma con l’intenzione di deportarli in Germania. Gli altri partigiani, dopo essere stati catturati, vennero uniti al resto del paese in attesa di essere fucilati.
A Forno non c’erano solo partigiani, Carabinieri, donne e bambini, ma, come conferma Fialdini “anche membri delle brigate nere”. Quando questi ritornarono in paese e videro che cosa stava accadendo ai loro famigliari e compaesani, chiamarono immediatamente la caserma di Lucca dalla quale partì l’ordine di fermare subito le fucilazioni”. Non tutti gli abitanti purtroppo si salvarono: la notte del 13 giugno 1944 furono uccise 67 persone, tra cui il maresciallo Siciliano. “Pensavamo di morire, – dice Fialdini – sarò eternamente grato a quelle persone che hanno salvato la vita a me, ai miei fratelli e alla mia mamma. Mio padre era un membro delle Brigate Nere, ma ha compiuto insieme ai suoi compagni un atto di grande misericordia e meriterebbero un riconoscimento!”. La medaglia d’oro al merito civile è stata, però, attribuita al maresciallo Ciro Siciliano che, a differenza di quello che vogliono farci credere, non ebbe alcun ruolo nell’azione.
Fialdini ora vive a Brescia e tiene a precisare: ” Qualche anno fa ho potuto constatare che a Forno non sono l’unico a pensare che si debbano incolpare il maresciallo Siciliano e i partigiani per quello che è avvenuto, e che si debbano ringraziare gli uomini che hanno fatto quella telefonata a Lucca”. Questo dovrebbe far riflettere tutti noi: un colore politico non può essere associato a priori al bene o al male, al giusto o allo sbagliato.
In qualità di direttore responsabile della testata, sento l’obbligo di precisare che né la giornalista Panni, né nessun membro della redazione de il Fatto Bresciano, ha simpatie verso il fascismo e le sue ideologie. Tutti noi condanniamo qualsiasi forma di governo dittatoriale.
La scelta di pubblicare questo articolo risponde al diritto – e dovere – di cronaca.
Il direttore responsabile,
MS
Da Imolaoggi.it
“E’ giusto considerare anche gli aspetti poco noti, i lati bui, di un passaggio storico che viene valutato positivamente, come la liberazione dal nazi-fascismo. Fatti che hanno lasciato tracce profonde nei territori dove si sono verificati”. Così, Gigi Di Fiore, autore del saggio ‘Controstoria della liberazione’ (Rizzoli), inquadra criticamente il fenomeno delle cosiddette ‘marocchinate’: gli stupri di massa commessi 70 anni fa in Ciociaria dalle truppe coloniali nord-africane che combattevano con i francesci nelle forze alleate.
“La liberazione del Sud fu rapida ma si lasciò dietro stragi e crimini dimenticati. Le testimonianze raccontano che, alla vigilia della battaglia finale controi tedeschi, il generale Juin promise ‘carta bianca’ ai soldati marocchini in caso di successo. Avrebbero potuto comportarsi come vincitori sui vinti, contando sulla connivenza e i silenzi degli ufficiali francesi”. Così, la popolazione ciociara che aspettava gli americani liberatori, subì le violenze, gli stupri dei militari nord-africani.
“Ci fu una battaglia giuridica, ma le circa 60mila donne vittime di violenza – che causarono malattie e, soprattutto, fecero nascere figli indesiderati – ricevettero un risarcimento solo in alcuni casi, perché lo stupro non era considerato crimine di guerra. Poca cosa rispetto alla conseguenza che quelle violenze ebbero sulle loro vite, rovinate per sempre anche dal punto di vista sociale. Anche molti uomini che cercarono di difenderle furono uccisi o stuprati“, spiega Di Fiore.
Uno dei comuni più colpiti dalle ‘marocchinate’ fu Esperia, in provincia di Frosinone, proprio per questo medaglia d’oro al merito civile dal 2004. “Per noi il 17 maggio è il Giorno della memoria. Nel ’44 fummo liberati dai nazi-fascisti ma poi subimmo violenze dai cosiddetti liberatori”, spiega il sindaco Giuseppe Moretti. “Abbiamo 700 casi di stupri conclamati, anche di anziani e bambini. Un parroco, don Alberto Terilli, che aveva tentato di salvare alcune donne, morì proprio in seguito alle violenze sessuali subite. Sono fatti all’inizio rimossi, di cui si iniziò a parlare solo vent’anni dopo la fine della guerra”.
“I silenzi furono causati da ragioni di stato. L’Italia doveva farsi perdonare il peccato originale dell’alleanza con i nazisti per essere riamessa nel consesso internazionale. E fare queste denunce non era opportuno”, spiega Di Fiore. “Ci furono anche polemiche che investirono L’Osservatore Romano che dal Vaticano denunciò queste vicende e fu zittito dalla stampa degli alleati“.
“Oggi – conclude il sindaco di Esperia – insegnamo ai nostri giovani la memoria di queste vicende, perché non si ripetano, ma anche soprattutto per evitare che i ricordi si trasformino in risentimento per i tanti nord-africani che vivono in Italia. Anzi, ospitiamo da noi famiglie marocchine proprio per educare alla fratellanza”.
(Fabio Colagrande) radiovaticana
L’inversione dei termini riguardanti i veri portatori del progresso civile
Non si dice certamente qualcosa di nuovo quando si afferma che il futuro ha le sue basi in quello che è stato il passato. Tuttavia è necessario che di questo passato venga selezionato ciò che effettivamente rappresentava la valida premessa per uno svolgimento costruttivo dell’avvenire e ciò che invece rappresentava soltanto un tentativo di mantenersi un ruolo di fronte a situazioni politiche e sociali cambiate dopo una forte evoluzione.
L’occasione di identificare l’azione politica caratterizzante quanto sopra viene dalla concomitanza di due anniversari: quella del centenario della nascita (1914) di Giorgio Almirante e il trentennale dalla morte (1984) di Enrico Berlinguer. Si tratta di personaggi che agivano sulla base di concezioni diametralmente opposte e che, nella valutazione storica che già si può dare, il primo, ossia Almirante, sta sul fronte dell’innovazione, mentre il secondo, ossia Berlinguer, in quello della conservazione.
Tutto questo contraddice la “religione”dell’intellettualità cosiddetta progressista per la quale, solo militando a sinistra, si può costruire un futuro di avanzamento civile, mentre militando a destra, si intende mantenere condizioni socialmente conservatrici e di mera difesa dei vantaggi esistenti. Tale impostazione appare indubbiamente superata spesso proprio dall’area di coloro che in passato hanno militato a sinistra così come pur usando il termine destra – per una pigrizia di consuetudine schematizzante – la vera spinta innovatrice e sostanzialmente rivoluzionaria ha i contenuti diversi da una filosofia grettamente conservatrice.
Pubblichiamo qui di seguito questo saggio dal quale si rileva, appunto, addirittura l’inversione nell’attribuzione delle qualifiche innovatrici provenienti da “sinistra” e di quelle conservatrici provenienti dalla “destra”. È un altro aspetto per considerare obsoleti i due termini e far appello a tutti coloro che, qualsiasi provenienza abbiano avuto, sentano il bisogno di riconsiderare le vere radici dalle quali far derivare un futuro di vero progresso civile.(g.r.).
SOMMARIO DI QUESTO NUMERO
- Anniversari che obbligano a ragionare su ciò che è vero cambiamento e ciò che è miope conservazione Almirante e Berlinguer di Gaetano Rasi
1° – Posizione di ciascuno rispetto alla provenienza e ai successivi svolgimenti; 2° – La formazione culturale ed ideologica dei due esponenti politici; 3° – La concezione della democrazia e l’intento modificativo del sistema liberalcapitalistico; 4° – L’evoluzione dell’azione politica dei due leader; 5° – Le diverse concezioni degli obiettivi nella vita politica. Il “compromesso” di Berlinguer e l’”alternativa” di Almirante; 6° – La distorsione strumentale del significato dei termini politici; 7° – Per Reichlin è necessaria una nuova “rivoluzione italiana”, ma la limita ad un mero “patto (contratto!) sociale”; 8° – Per Almirante: una politica di pacificazione fra gli italiani e non mero riformismo, bensì rifondazione costituzionale dello Stato partecipato dai cittadini.
- Il nuovo libro di Mario Bozzi Sentieri.“La destra nel labirinto. Cronache da un anno terribile”
- Riflessioni da parte di un lettore intellettualmente attrezzato. Il libro di Mario Bozzi Sentieri scuoterà un certo mondo politico? di Vincenzo Pacifici
Convergenze di analisi e di tesi propositive
Qualsiasi discorso riguardante un nuovo assetto istituzionale della società moderna -individuabile territorialmente sia considerando le singole nazioni organizzate a Stato, che il complesso degli Stati riuniti in unioni, o federazioni, o comunque in articolazioni di dimensione continentale – abbisogna di adeguate analisi a carattere non solo antropologico, ma anche più ampiamente sociologico e in definitiva effettuate con riferimento ad ineliminabili principi di etica naturale. E da qui pervenire alla riconquista degli eterni valori sui quali si fonda la vera attività politica.
Non c’è dubbio che istituzioni dominate da ideologie sbagliate portino al corrompimento generale del tessuto sociale, ma il cambiamento istituzionale, o meglio ancora, costituzionale per essere veramente “rifondativo”, deve avere consapevolezza delle origini del male sempre più diffuso attraverso comportamenti criminali che vengono considerati invece come normali, oppure subiti come ineludibili nella moderna evoluzione della società globale.
In questo numero del bollettino Il Sestante, un sociologo del CESI, il prof. Carlo Vivaldi-Forti, affronta questa problematica facendo riferimento ad alcuni testi della moderna letteratura sull’argomento e constata che l’estensione e la profondità dei comportamenti criminali – ancorché mascherati da ipocrisie liberali e da meccanismi di “accettabile” raffinatezza finanziaria -, portano autori che originariamente erano inquadrabili nei vecchi schemi di “destra” e di “sinistra”, a convergere su tesi comuni.
L’auspicio è che si amplifichi e si approfondisca, con onestà intellettuale, un dialogo sempre più necessario per un rivolgimento globale di carattere etico e quindi di iniziativa politico-istituzionale (g.r.).
SOMMARIO DI QUESTO NUMERO
- Verso il superamento dei termini di “sinistra” e di “destra”
La manipolazione totale e l’alternativa della partecipazione di Carlo Vivaldi-Forti
- Analisi sociologia ed antropologica
Crisi economica o corruzione globale? di Carlo Vivaldi-Forti
Da dove comincio? Da Cristoforo Colombo? Perché non se ne è stato a casa? Da Colombo un saltino alla Dottrina Monroe, sarebbe necessario; ma diverrebbe un discorso troppo lungo. Allora partiamo da oggi: inizio questo articolo ai primi di giugno 2014, giorno dei Ludi Veneziani, dove, tanto per cambiare, sono stati arrestati alcuni politici, e di nuovo tanto per cambiare, intenti a rubare. Nulla di nuovo sotto il cielo di questa Repubblica nata dalla Resistenza. Ma da qualche parte debbo pur iniziare, e allora ricordiamo quanto ebbe a dire l’ineffabile Woodrow Wilson (non lo ricordate?) in una lezione alla Columbia University nell’aprile 1907; quando rivolgendosi a giovani studenti americani, dichiarò: <Dal momento che il commercio ignora i confini nazionali e il produttore preme per avere il mondo come mercato, la bandiera della sua nazione deve seguirlo, e le porte delle nazioni chiuse devono essere abbattute… Le concessioni ottenute dai finanzieri devono essere salvaguardate dai ministri dello stato, anche se in questo venisse violata la sovranità delle nazioni recalcitranti… Vanno conquistate o impiantate colonie, affinché al mondo non resti un solo angolo utile trascurato o inutilizzato>. Immaginate cosa sarebbe accaduto se queste parole fossero state pronunciate da un Mussolini o da un Hitler. Ma adiamo avanti.
Oggi, per completare l’opera di distruzione, è in programma la svendita persino della Banca d’Italia e questa vendita, viene fatta passare dai carognoni, come un’operazione di salvataggio. Nessuna meraviglia: quest’opera di falsificazione è un tipico dei servizi inglesi e statunitensi che mirano di fare apparire il contrario di ciò che è nella realtà. Questi metodi tendono a rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, come poi è avvenuto, al potere finanziario. Andiamo avanti e facciamo un saltino sino al 2 giugno 1992 e saliamo sul panfilo Britannia (da http://alfredodecclesia.blogspot.it/): <(Il Britannia), in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’elite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri ai quali si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A questa riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del Ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Fra i complici italiani possiamo trovare l’ex ministro del Tesoro Piero Barocci, l’allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani (come sta avvenendo, nda) di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani (…). Nel giugno 1992 si insediò al governo Giuliano Amato. Un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in Società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’elite finanziaria le potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale che, come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’elite (…). Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni (un gioiello mussoliniano, ndr), che venne svenduta. Il gruppo Rothscild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia (…). Dietro tutto questo c’era l’elite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg. Rockefeller, Rothschild ecc), che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori (…). Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’elite economico finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo sui cittadini, sulla politica e sul paese intero (…)>.
Come siamo arrivati a questo? Per una risposta più prossima alla verità, ci dobbiamo spostare alla metà degli anni ’30 dello scorso secolo. Ecco come lo storico Rutilio Sermonti dichiara (L’Italia nel XX Secolo): <La risposta poteva essere una sola: perchè le plutocrazie volevano un generale conflitto europeo, quale unica risorsa per liberarsi delle Germania – formidabile concorrente economico – e soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira a evidenziare la verità storica: soprattutto dell’Italia>. Infatti il reale avversario delle plutocrazie erano i fascismi con le loro idee e proposte sociali, idee che si stavano espandendo in tutto il mondo; ecco, allora, la necessità di spingere la Germania e l’Italia alla guerra attraverso provocazioni e minacce.
Proviamo ad approfondire. Nel novembre 2011, sia l’Italia che la Grecia hanno subito un golpe bianco, senza che i rispettivi popoli ne abbiano preso conoscenza. Chi sono gli autori del golpe bianco? Il governo tecnico di Papademos in Grecia, e il governo tecnico di Monti in Italia. Chi sono questi personaggi? Da dove provengono? Entrambi erano membri della Commissione Trilaterale di quel soggettino che ha nome David Rockefeller, appartenente ad una delle tredici famiglie che da sempre hanno dominato il mondo attraverso l’economia e la finanza. Quelle famiglie che il fascismo ha tentato di combattere. Tutto ciò era stato ben compreso da quello che, chi scrive queste note, considera il più grande politico dello scorso secolo: Benito Mussolini. Ecco con quanta lungimiranza e lucidità il 7 febbraio 1944 (!) scriveva: <(…): Il progetto statunitense, in parole povere, si può dunque riassumere così: tutte le nazioni porteranno i loro risparmi nelle casse del Tesoro americano, che li amministrerà pro domo sua. Secondo tale piano, infatti, il governo di Washington si assicura, nell’amministrazione del Fondo internazionale di livellamento dei cambi, di cui propone la costituzione; il numero di voti sufficienti per essere in grado di fermare qualsiasi decisione contraria al suo interesse. In tal modo gli Stati Uniti, oltre all’accaparramento in corso di attuazione delle basi navali ed aeree del mondo e alla creazione delle più potenti flotte navali e aeree di guerra e commerciali, indispensabili ai loro piani imperialistici, avrebbero anche finanziariamente tutte le altre nazioni alla loro mercè (…)>.
Quanto sin qui scritto è solo una parte microscopica della storia mondiale, ma sufficiente per comprendere come ci hanno portato nella cacca. I passaggi essenziali partono dalla Dottrina Monroe (elaborata in realtà da Quincy Adams), ma ci dobbiamo spostare ai primi del 1800, con la quale Monroe espresse l’idea della supremazia degli Stati Uniti nel continente americano, e da qui è facile passare alla supremazia nel globo intero. Oggi possiamo contare da quelle enunciazioni almeno cento guerre condotte dagli Stati Uniti al di fuori del continente americano. Tutte guerre d’aggressione per affermare il potere finanziario anglo-americano. Come poco sopra scritto, il fascismo provò a fermare tutto ciò, ma fu sopraffatto dal grande capitale.
La domanda: visto che siamo nella cacca, c’è un modo per uscirne? Non so dare una risposta, ma ritengo che questa se c’è si trova nelle teorie mussoliniane, dovremmo, in pratica, ma sia chiaro questo è una mia personale affermazione, dovremmo ripartire dall’aprile del 1945, perché in quella data possiamo vedere come il nostro futuro fu compromesso e ci fu rapinato.
In ogni caso vedo il futuro nostro e di chi ci seguirà molto, ma molto oscuro.
Certo la propaganda è stata asfissiante, ma siamo pure un tantinello imbecilli, soprattutto perché c’è tanta gente che ancora accorda fiducia a certi personaggi ben individuabili.
Concludo: e pensare che c’è ancora qualcuno che ci propone di festeggiare il giorno della liberazione.
Poveri noi!
San Miniato, in provincia di Pisa, è stato per mezzo secolo un tempio dell’antifascismo, quei mausolei “naturali” che, per essere stati oggetto di una strage tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale, si sono prestati alla speculazione dei partiti dell’arco costituzionale ed essere, di conseguenza, elevati a fabbriche di odio antifascista permanente. Quei luoghi sacri agli istituti della Resistenza (immaginaria) e alle associazioni dei partigiani (del dopo la guerra, ovviamente), davanti ai quali, a scadenze prestabilite, si riuniscono obbligatoriamente tutti gli studenti del circondario per ascoltare il verbo dei politici di professione, tutti uniti a tramandare, di generazione in generazione, l’odio contro i nazisti e i fascisti. Anche i fratelli Taviani si sono sentiti in dovere di contribuire alla diffusione della “buona novella” con un famoso lungometraggio sulla strage “nazista” di San Miniato, La notte di San Lorenzo (1982): tutto l’apparato della Repubblica Italiana, dalla destra nazionale alla sinistra extra-parlamentare, aveva offerto il suo “agnello sacrificale” – ricevendo ovviamente in cambio alti riconoscimenti economici e politici – al mito della “liberazione”.
Ma il crollo del muro di Berlino, la scomparsa del comunismo, ha provocato la frana di tanti miti resistenziali, seppelliti dal peso della loro stessa menzogna. E così, a San Miniato, quel mormorio “fascista” che strisciava per le vie del paese si è fatto sempre più forte, fino ad esplodere con effetti drammatici. E allora, anche chi per decenni aveva – dietro congruo compenso – diffuso odio in nome dell’antifascismo di professione, ha dovuto ammettere che a San Miniato c’era stato un piccolo errore di valutazione. Sì, quel giorno, ad uccidere quei poveri innocenti – di cui nessuno, tra l’latro, si era mai interessato, se non per sfruttarne la morte sull’altare dell’antifascismo – non erano stati i Germanici, ma gli Statunitensi. Ma perché indignarsi tanto? Il “male assoluto” era pur sempre il “male assoluto”, una piccola bugia a fin di bene era sempre preferibile… alla verità.
Il lettore si domanderà cosa c’entra San Miniato con la provincia di Rieti. Ebbene, sembra che anche questa provincia italiana, un tempo della Repubblica Sociale Italiana, abbia la sua piccola San Miniato “irredenta”, dove una strage compiuta dai Britannici è da sempre stata attribuita ai Germanici, per poterne sfruttare l’orrore in nome dell’odio e dell’unità antifascista.
Quel 10 Giugno 1944, mentre le truppe dell’Impero inglese avanzavano lungo la Salaria, senza per altro incontrare resistenza, Poggio Mirteto viveva l’ansia dei “grandi giorni”. I fascisti e il grosso delle unità tedesche avevano lasciato la provincia di Rieti da alcuni giorni, in tutta tranquillità, senza essere disturbati da nessuno. Di partigiani neppure l’ombra, solo qualche mitragliamento aereo anglo-americano aveva impensierito la lunga marcia verso il Nord, dove si sarebbe continuata la battaglia per la libertà e l’onore d’Italia. Quel 10 Giugno, solo alcuni piccoli reparti germanici rimanevano in zona, per gli ultimi preparativi. Contro queste unità si accanì l’aviazione anglo-americana e le artiglierie britanniche, intenzionate a radere al suolo qualsiasi cosa si frapponesse alle truppe in marcia, fossero semplici casali di campagna, fossero piccoli paesi di montagna. E prima dell’arrivo delle truppe, un’ultima azione di “bonifica” a suon di mortai. Nessun combattimento a viso aperto si voleva coi Germanici. Difficile sconfiggerli solo con i Fanti, anche se in rapporto di uno a dieci. E così, alla vista di Poggio Mirteto, importante centro reatino, dotato fino a qualche giorno prima anche di un forte ed efficiente Presidio della Guardia Nazionale Repubblicana, gli Inglesi – nel timore fossero presenti ancora unità nemiche – decisero di “spazzolarlo” con i mortai, prima dell’entrata delle truppe. La sorte volle che diversi paesani stessero saccheggiando un magazzino viveri quando avvenne l’attacco contro i nemici immaginari: e fu strage. Un eccidio che fu un trauma per tutti coloro che credevano fosse finalmente finita la guerra e le sofferenze. Una beffa mostruosa che pregiudicava anche la mitologia della “liberazione”: come far diventare un crimine di guerra commesso dai “liberatori” in una festa politica? Il trauma psicologico e le necessità politiche imposero la rimozione della realtà storica e quella che era solo una delle tanti stragi dei “liberatori di schiavi”, divenne come per magia, un eccidio “nazi-fascista”, con tanto di lapide ricordo, con tanto di manifestazioni di cordoglio, con tanto di scolaresche schierate a sentire i sermoni dei Professoroni antifascisti (pagati con i soldi dello Stato, ovviamente).
«A 70 anni da questo drammatico evento di sangue – ha dichiarato il Dott. Pietro Cappellari, Responsabile culturale del Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti – c’è chi ancora tenta di speculare politicamente parlando di una “strage tedesca”. Le risultanze storiche, la logica, un’analisi indipendente priva della distorsione ideologica dei fatti in questione, però, pone seri dubbi su questa etichetta. Siamo dell’avviso che i soli responsabili del massacro di Poggio Mirteto siano i Britannici che, come al solito, preferirono aprirsi la strada con l’aviazione, le artiglierie e i mortai, nel costante timore di dover affrontare a viso aperto i reparti germanici sul campo di battaglia. Abbiamo chiesto al Sindaco di modificare la lapide politica che nella piazza centrale del paese ricorda il drammatico evento attribuendolo ai Tedeschi. Volevamo organizzare insieme una manifestazione in ricordo delle vittime di quel crimine di guerra, senza più speculazioni politiche, in modo che – finalmente – si potesse rendere un omaggio disinteressato ai dimenticati di quel giorno, “liberarli” dalla falsità e rendere loro giustizia. Dalla risposta avremmo espresso un giudizio morale nei suoi confronti. Il lungo silenzio faccia esprimere questo giudizio all’intera cittadinanza».
Claudio Cantelmo
Ufficio Stampa
Comitato Pro 70° Anniversario
della RSI in Provincia di Rieti
Bisogna stampare più moneta europea!
L’Italia (e l’Europa) deve disporre di una maggiore quantità di euro per grandi lavori pubblici ed una nuova politica industriale
Questo numero del bollettino CESI è interamente dedicato ad una nuova concezione monetaria, adeguata alla moderna economia ad eliminare il ritardo nelle infrastrutture e a risolvere, insieme, i problemi occupazionali e quelli di nuovi redditi per i cittadini.
I dati forniti dalle relazioni del Governatore della Banca d’Italia, Visco, e del Presidente della Confindustria, Squinzi, cui si aggiungono quelli dell’Osservatorio dell’Università Bocconi di Milano, dell’Istat e della Corte dei Conti, denunciano una situazione che non può più essere risolta con le misure derivanti dal Fiscal compact, parte integrante del Patto di stabilità della UE. Né può essere più tollerata l’assenza delle nazioni europee dalla diretta sovranità monetaria. Esse debbono disporre di quantitativi di euro in misura adeguata alle singole necessità.
L’Italia è, a questo riguardo, la nazione che oggi ha le maggiori, drammatiche esigenze.
Il programma di quelle forze politiche che in Italia tendono a riprendere una unità ed una identità necessarie alla ripresa dello sviluppo, deve essere improntato alla energica proclamazione di un progetto organico che dia credibilità e determini la mobilitazione di fresche energie dirigenti.
Le pagine che seguono tendono a questo scopo (g.r.).
SOMMARIO DI QUESTO NUMERO
Lo Stato italiano deve partecipare alla sovranità monetaria europea
di Gaetano Rasi
I Parte – Illusorie le c.d. riforme di Renzi.
Necessaria l’emissione di euro in quantità adeguata all’economia italiana
II Parte – La revisione delle teorie monetarie
I costi del “non fare” nel campo delle infrastrutture e della politica industriale
III Parte – Uscire dalla crisi con adeguati programmi di politica economica e sociale
L’enorme disoccupazione va combattuta con grandi lavori pubblici e il diretto finanziamento dell’industria
Nelle prime ore del 4 Giugno 1944, dopo mesi di cruente battaglie sulla linea di Cassino, dopo i rovesci sul fronte di Nettunia, le avanguardie della possente Armada statunitense – dopo aver dirottato altrove gli scomodi compagni di viaggio britannici – si apprestavano ad entrare nella Capitale. A scuola (i Professori prezzolati) e in televisione (i giornalisti americanizzati) ci hanno poi educato al culto della “liberazione”, mostrandoci le immagini del popolo romano che festoso – con tanto di scuscià e segnorine, vero vanto nazionale – accoglieva i nuovi padroni. E così siamo venuti su, con il passare degli anni, educati ad amare la “libertà”, quella che gli stranieri avevano donato – sacrificando i loro figli migliori – a quei poveri pezzenti di Italiani settanta anni fa. Eppure, qualcosa in questa fiaba non quadrava. Ma nessuno era intenzionato a porsi domande. Specie se il padrone vittorioso era così generoso… in Dollari. Prima di tutto, non ci aveva mai convinto la storiella che, prima della venuta dei “liberatori”, gli Italiani erano degli schiavi? Di chi? Di se stessi, forse? Poi, come mai, tra quel tripudio festoso del 4 Giugno, non si erano visti i famosi e gallonati Generali statunitensi, quelli che erano riusciti a perdere tutte le battaglie e, nonostante tutto, vincere la guerra. Come mai, il Gen. Clark entrò in Roma solo il giorno successivo?
Se nessuno ha mai posto questa domanda, impegnato più a chinare il capo e ossequiare il vincitore di turno, ovviamente ben pochi hanno cercato una risposta. Ebbene, i Generali statunitensi entrarono a Roma solo il 5 Giugno, in quanto solo alla mezzanotte della sera prima, i soldati americani erano riusciti a raggiungere tutti gli obiettivi fissati. Come mai quasi 24 ore per compiere quella che, in fin dei conti, è presentata come una passeggiata tra i fiori e le prostitute italiane?
Ebbene, quel 4 Giugno i “liberatori” non trovarono ad accoglierli solo i “morti di fame”, ma anche i fascisti, i franchi tiratori fascisti, che per tre giorni ingaggiarono una battaglia nella Capitale “liberata” ben presto dimenticata. Le camicie nere – tra cui numerosi ragazzi e ragazze – spararono a più riprese contro le unità americane che si apprestavano ad occupare la Città Eterna, causando pesanti perdite al nemico della Patria italiana e tenendo ben lontano i Generali gallonati dalla parata trionfale che – con smacco – dovette essere rimandata di un giorno.
I franchi tiratori che furono catturati vennero passati per le armi e per loro si aprì l’oblio della memoria. La loro storia è tornata alla ribalta delle cronache con lo studio del 2010 del ricercatore nettunese Pietro Cappellari. Nel suo Lo sbarco di Nettunia e la battaglia per Roma (Herald Editore), dopo tanti decenni di silenzio, i franchi tiratori fascisti della Capitale hanno riavuto la loro voce, soffocata dalle grida della canea che, in quegli stessi giorni, al seguito degli occupanti, scendeva in piazza in cerca di prede indifese. I soldati statunitensi e gli antifascisti dell’ultima ora, però, trovarono decine di ragazzi e ragazze in camicia nera che, con quegli ultimi colpi di fucile, ricordarono al mondo che vi erano degli Italiani che avevano deciso di non arrendersi. Per l’onore e la libertà dell’Italia.
Claudio Cantelmo
Ufficio Stampa
Comitato Pro 70° Anniversario dello Sbarco di Nettunia