Il novantesimo anniversario della Marcia su Roma è l’occasione migliore per fare un confronto tra l’Italia che prese il via da quell’evento storico, e l’Italia di oggi, piegata dalla corruzione e dalla crisi del lavoro giovanile.
Incominciamo, dunque, dalla corruzione. Rifacendomi ad una segnalazione inviatami a suo tempo dall’amico Filippo Giannini, vorrei ricordare che poco tempo dopo il crollo del Fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, per ordine dei “liberatori” (dietro ai quali, ovviamente, erano la grande finanza e il capitale internazionale) ci fu imposta una Commissione parlamentare incaricata di indagare su gerarchi, prefetti, alti funzionari di Stato circa loro ipotetici “illeciti arricchimenti” negli anni del Ventennio. La commissione parlamentare era presieduta da un illustre uomo politico comunista, Umberto Terracini.
Vennero inquisiti 5005 fra gerarchi, alti funzionari, prefetti che avevano svolto attività nel corso del Ventennio. Lo scopo, era ovvio: squalificare il Fascismo in modo definitivo, dimostrando la corruzione del sistema.
Grande fu lo scorno quando, dopo mesi e mesi di indagini, condotte in un clima di accanita caccia al fascista, non uno solo degli inquisiti risultò penalmente perseguibile. Quando questa vicenda si stava concludendo, sui giornali dell’epoca apparve una scritta esultante: “Trovato il tesoro di Italo Balbo”. Si trattava di una cassetta riposta in una banca a nome, appunto, del grande trasvolatore. Quando gli inquisitori andarono ad aprire il “tesoro” vi trovarono solo la “Sciarpa Littoria”, assegnata a Balbo per la trasvolata atlantica.
Il Fascismo fu una sorta di religione, un modo di vivere che la generazione di oggi non potrebbe comprendere. Questa generazione naviga nella corruzione e nelle menzogne più sfrenate, l’una e le altre necessarie per confondere le idee del popolo e continuare, così, a ingannarlo e tradirlo, unico modo perché l’attuale classe politica (oggi giustamente definita “casta”) possa perseverare nel latrocinio.
Durante il Ventennio fascista, almeno fino al tragico scoppio della seconda guerra mondiale – nella quale ancora oggi nessuno sa dire con certezza se sarebbe davvero stato possibile non essere coinvolti -, furono compiuti dei veri e propri miracoli. Provo a citarne un paio, per la precisione quelli che riuscirono a pacificare due grandi avversari: il lavoro e il capitale.
Intervento al Park Hotel Suisse per la commemorazione del 28 Ottobre
Una serata dedicata al novantesimo anniversario della Marcia su Roma è l’occasione migliore per fare un confronto tra l’Italia che prese il via da quell’evento storico, e l’Italia di oggi, piegata dalla corruzione e dalla crisi del lavoro giovanile.
Incominciamo, dunque, dalla corruzione. Rifacendomi ad una segnalazione inviatami a suo tempo dall’amico Filippo Giannini, vorrei ricordare che poco tempo dopo il crollo del Fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, per ordine dei “liberatori” (dietro ai quali, ovviamente, erano la grande finanza e il capitale internazionale) ci fu imposta una Commissione parlamentare incaricata di indagare su gerarchi, prefetti, alti funzionari di Stato circa loro ipotetici “illeciti arricchimenti” negli anni del Ventennio. La commissione parlamentare era presieduta da un illustre uomo politico comunista, Umberto Terracini.
Vennero inquisiti 5005 fra gerarchi, alti funzionari, prefetti che avevano svolto attività nel corso del Ventennio. Lo scopo, era ovvio: squalificare il Fascismo in modo definitivo, dimostrando la corruzione del sistema.
Grande fu lo scorno quando, dopo mesi e mesi di indagini, condotte in un clima di accanita caccia al fascista, non uno solo degli inquisiti risultò penalmente perseguibile. Quando questa vicenda si stava concludendo, sui giornali dell’epoca apparve una scritta esultante: “Trovato il tesoro di Italo Balbo”. Si trattava di una cassetta riposta in una banca a nome, appunto, del grande trasvolatore. Quando gli inquisitori andarono ad aprire il “tesoro” vi trovarono solo la “Sciarpa Littoria”, assegnata a Balbo per la trasvolata atlantica.
Il Fascismo fu una sorta di religione, un modo di vivere che la generazione di oggi non potrebbe comprendere. Questa generazione naviga nella corruzione e nelle menzogne più sfrenate, l’una e le altre necessarie per confondere le idee del popolo e continuare, così, a ingannarlo e tradirlo, unico modo perché l’attuale classe politica (oggi giustamente definita “casta”) possa perseverare nel latrocinio.
Durante il Ventennio fascista, almeno fino al tragico scoppio della seconda guerra mondiale – nella quale ancora oggi nessuno sa dire con certezza se sarebbe davvero stato possibile non essere coinvolti -, furono compiuti dei veri e propri miracoli. Provo a citarne un paio, per la precisione quelli che riuscirono a pacificare due grandi avversari: il lavoro e il capitale.
Lo Stato Corporativo Fascista riuscì a far superare, prima e meglio di qualsiasi altro Stato moderno, la grande crisi economica iniziata nel 1929. Cito in proposito un brano di una celebre opera dello storico e politologo ebreo Zeev Sternhell, professore di Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme e autore del libro «La terza Via fascista», da cui traggo il brano:
«Il Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni, che dominarono i primi anni del secolo. Il Corporativismo riuscì a dare la sensazione a larghi strati della popolazione che la vita fosse cambiata, che si fossero dischiuse delle possibilità completamente nuove di mobilità verso l’alto e di partecipazione».
Alcuni di essi (mai individuati nominalmente) hanno in pugno la cultura, la comunicazione e la propaganda del cosiddetto Centro-Destra. Ecco perché, per il presente e per il futuro della Destra, in Italia, non c’è speranza.
Il 17 maggio 2002, in occasione del trentennale della morte di Luigi Calabresi, nel corso della commemorazione celebrata nel salone d’onore di Palazzo Barberini, monsignor Francesco Salerno, segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, diede lettura di un messaggio fattogli pervenire dal Santo Padre Giovanni Paolo II. Nel messaggio Papa Wojtyla definiva Calabresi “generoso servitore dello Stato e fedele testimone del Vangelo”, e, ricordandone “la costante dedizione al proprio dovere pur fra gravi difficoltà e incomprensioni”, auspicava che il suo esempio potesse diventare “uno stimolo per tutti ad anteporre sempre all’interesse privato la causa del bene comune”. Concludeva “assicurando per lui particolari preghiere e invocando da Dio Padre misericordioso sostegno per la sua famiglia”.
Due anni dopo, il 17 maggio 2004, il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, concedeva alla sua memoria la medaglia d’oro al valor civile. La Chiesa e l’Italia incominciavano finalmente a valutare nella corretta dimensione il sacrificio di quel Giusto. Erano passati più di trent’anni dal suo assassinio.
Luigi Calabresi ha rappresentato, nella mia vita di cronista e di testimone del tempo, un punto di riferimento essenziale. Nel ’72, quando fu assassinato, non esitai a denunciare, in una serie di articoli pubblicati su vari giornali, i miei colleghi giornalisti complici morali del delitto. Nel 1980 fui il primo giornalista a convincere la vedova di Calabresi ad uscire dalla cortina di silenzio che si era imposta da sempre, realizzando con lei la sua prima, dettagliata, approfondita intervista: l’intervista che pubblicai sul settimanale “Gente” diretto da Antonio Terzi, di cui ero il redattore capo.
Enzo Tortora, mio amico dai tempi del mio esordio nel giornalismo a Genova, aveva difeso Calabresi senza riserve, si era scagliato contro i suoi detrattori e i suoi assassini morali e pensava sempre di scrivere un libro sulla tragedia che aveva coinvolto il commissario. Non fece in tempo, perché a sua volta fu vittima di una crudele persecuzione giornalistica e giudiziaria, vera origine del tumore che lo portò a prematura morte. Mi passò il testimone: i fascicoli legali contenenti tutti i particolari del calvario subìto da Luigi Calabresi, che l’avvocato Michele Lener aveva promesso a Tortora, toccarono a me. Quella imponente documentazione contribuì non poco alla realizzazione, nel 1990, del libro di memorie di Gemma Capra «Mio marito il commissario Calabresi», da me curato, e costituisce la base del mio nuovo libro «Calvario», che narra una delle più tragiche storie della cosiddetta «Prima Repubblica».
Tra i miei ricordi affiorano le parole pronunciate, all’indomani del suo martirio, dal suo padre spirituale don Ennio Innocenti: «Approfondì la sua cultura religiosa e partecipò fervidamente a gruppi di giovani e di adulti che si riunivano, con periodica puntualità, a meditare la Sacra Scrittura. La sua frequenza ai Sacramenti diventò quella ideale e la sua vocazione al matrimonio fu perfettamente orientata. Fu seriamente preoccupato per la scelta della professione e fui proprio io a incoraggiarlo per la carriera in polizia, essendo anche questa una importante struttura dove i cristiani devono agire con buon fermento».
Una importante riscoperta storica ha potuto essere realizzata dall’Ares (Associazione Ricerche e Studi) di Milano, grazie alla collaborazione dell’Assessorato alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia, retto dal professor Ettore A. Albertoni. La riscoperta consiste nell’aver posto in luce due straordinarie personalità della storia militare della nostra Patria, i generali Maurizio e Ferrante Gonzaga, padre e figlio, discendenti della illustre famiglia mantovana, uno eroe della Prima e l’altro eroe della Seconda Guerra mondiale. Il privilegio di porre in luce l’eroismo e il particolare valore storico delle due personalità è toccato a chi scrive. Ho infatti ben presto potuto rilevare quello che può considerarsi l’aspetto storico più significativo della vicenda dei due Generali. Come ha detto il professor Albertoni nella sua introduzione al Convegno, «se è vero che la storia è magistra vitae, è altrettanto vero che gli uomini che, con il loro sacrificio per gli ideali per i quali si sono battuti hanno fatto la storia, sono autentici magistri gentium. E’ questo il caso», ha proseguito Albertoni, di Maurizio e Ferrante Gonzaga, due eroi del Novecento: Maurizio (1861-1938), il generale più decorato della Prima Guerra Mondiale con due medaglie d’oro e tre d’argento, e suo figlio Ferrante (1889-1943), medaglia d’oro alla memoria, il primo generale del Regio Esercito ad essere ucciso dai Tedeschi a Salerno l’8 settembre 1943 a poche ore dalla notizia dell’armistizio». L’assessore Albertoni ha sottolineato come il convegno (seguito da illustri personalità del mondo politico e militare, soprattutto dai giovani allievi, in alta uniforme, della Scuola Militare Teulié), sia riuscito a porre nella giusta luce l’eroismo di queste due figure, non isolandole peraltro dal loro contesto storico, analizzato grazie al contributo di illustri studiosi, da Luciano Garibaldi ad Alberto Lembo, da Massimo De Leonardis a Manlio Paganella, da Mirko Molteni a Gianni Grigillo. «E’ appena il caso di ricordare», ha poi concluso Albertoni, quanto la nostra Regione sia debitrice sul piano storico ed artistico alla famiglia Gonzaga, cha ha saputo fare per secoli di Mantova un centro di irradiazione culturale senza eguali». Ma veniamo alla eroica vicenda dei due Gonzaga (è ancora vivente la vedova del generale errante, la principessa di origine genovese Luisa Anguissola-Scotti Gonzaga, che ha appena compiuto i 102 anni). E parliamo innanzitutto del generale di Corpo d’Armata Maurizio Gonzaga che fu il mitico comandante, durante la Grande Guerra, della 53.a Divisione di Fanteria, la Divisione invincibile, detta «la Ferrea», che non si arrese né si sbandò neanche dopo Caporetto. Tanto che Benito Mussolini, all’indomani del delitto Matteotti, visto traballare il regime che aveva appena instaurato, lo chiamò a comandare la Milizia, per dimostrare al popolo che finalmente un uomo super partes, un grande eroe, avrebbe riportato l’ordine e la legalità. Il che non impedì che suo figlio, il generale di Divisione Maurizio Gonzaga, anch’egli pluridecorato di medaglie d’oro e d’argento, sarebbe stato il primo alto ufficiale dell’Esercito Italiano ad opporsi alla richiesta di resa avanzata dai tedeschi l’8 settembre 1943 e per questo sarebbe stato il primo ad essere ucciso con una raffica di mitra. Due grandi italiani, che smentiscono in maniera clamorosa la leggenda del soldato italiano pronto a darsela a gambe. La importante operazione culturale ha dunque consentito di parlare sia della prima sia della seconda guerra mondiale e del valore dei soldati italiani, spesso sottovalutato, ma capace di esprimere figure addirittura gigantesche, come i due esponenti della grande famiglia lombarda. Di particolare significato, l’accettazione, da parte del generale Maurizio Gonzaga, del difficile e impegnativo incarico di comandante generale della MVSN onde riportarne le formazioni sul terreno della assoluta legalità, e la Medaglia d’Oro al Valor Militare di Ferrante Gonzaga, la prima dell’Esercito Italiano dopo l’occupazione militare tedesca dell’Italia. Nella motivazione della MOVM si legge tra l’altro: «Minacciato a mano armata dall’ufficiale germanico, insisteva nel suo fermo atteggiamento e, portando a sua volta la mano alla pistola, ordinava ai propri dipendenti di resistere con le armi alle intimazioni ricevute, quando una scarica di moschetto automatico nemico lo uccideva all’istante». La realizzazione del progetto, il cui merito va riconosciuto alla Regione, che, con il sostegno dato all’iniziativa, ha reso possibile questa importante operazione di riscoperta storica, ha richiesto la raccolta di documentazioni e testimonianze inerenti ai due Eroi, padre e figlio, nonché una ricerca sulla storia della dinastia, comprese le biografie dei suoi esponenti più rappresentativi. Al convegno hanno presenziato altresì i figli dell’eroe Ferrante Gonzaga, Maurizio e Corrado. Per quanto mi riguarda, dalle operazioni di ricerca intendo trarre un libro che mi auguro venga collocato nella serie dei libri che stanno revisionando la nostra storia.
Luciano Garibaldi