I bambini di Salò

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D. Gabusi, I bambini di Salò. Il ministro C.A. Biggini e la scuola elementare nella Rsi (1943-1945), Scholè-Morcelliana, Brescia 2018, pp. 624.
Il saggio nasce nell’intento di colmare un passaggio lacunoso nella storiografia scolastico-educativa contemporaneistica che – per ragioni di natura sia ideologica sia archivistica – ha per molti decenni trascurato lo studio della scuola nell’ultima fase del fascismo, quello della Repubblica sociale italiana (1943-1945). Ma proprio la presa d’atto della scomparsa dell’archivio del ministro dell’Educazione nazionale della Rsi, Carlo Alberto Biggini, ha condotto a valorizzare, oltre alle carte dell’Archivio centrale dello Stato, altre fonti inedite, collocate sia in archivi privati sia negli archivi scolastici locali e provinciali: documenti trasmessi preziosissimi, che consentono di ricostruire due anni di vita scolastica (a.s. 1943-1944 e 1944-45) di insegnanti e alunni della scuola elementare, riportando alla luce aspetti pedagogico-didattici, politico-propagandistici e socio-economici.
Seguendo due assi interpretativi principali (dinamiche di continuità/rottura con il passato regime fascista; costruzione di un’identità e ricerca del consenso da parte della Rsi) si è cercato di far emergere – da una parte – i caratteri della politica educativa del fascismo repubblicano che, nel più generale tentativo di ‘metamorfosi’ ideologica, si collocava tra educazione fascista ed educazione nazionale. Dall’altra, si sono indagate le ragioni della tenacia con la quale il governo di Salò tenne aperte le scuole elementari nel contesto bellico (nonostante le quotidiane incursioni aeree, gli allarmi, le distruzioni, le requisizioni dei locali, le derequisizioni, i flussi di sfollamento). La scuola elementare (l’ordine scolastico che accoglieva le masse popolari e che era capillarmente diffuso su tutto il territorio), oltre a costituire il canale privilegiato dell’educazione nazionalistico-patriottica e della distribuzione di provvidenze socio-assistenziali rivela, veniva investita di una funzione ulteriore: essa era infatti ormai l’unica istituzione che – a fronte del mancato allestimento di un nuovo esercito – poteva ottenere quella credibilità e quel consenso che il nuovo regime fascista stentava a guadagnarsi presso l’opinione pubblica, ma soprattutto rendere tangibile la continuità dello Stato, interrotta dallo ‘sdoppiamento istituzionale’ seguito all’8 settembre.
Molteplici sono dunque le figure che si incontrano tra le pagine di questo saggio: il ministro Carlo Alberto Biggini, in primo luogo, ma anche Benito Mussolini (suo interlocutore privilegiato) e Giovanni Gentile. Vi sono poi direttori didattici e provveditori agli studi, funzionari ministeriali di ‘lungo corso’ (come Aleardo Sacchetto) e intellettuali antifascisti (come Mario Bendiscioli, Norberto Bobbio e Concetto Marchesi), commissari americani e delegati dei Cln che subentrarono nel governo della scuola al passaggio del fronte. Esso cerca inoltre di dar voce ai protagonisti più diretti della vita scolastica: non solo maestre e maestri, ma anche ‘bambini immaginari’ (usciti dalle pubblicazioni dell’Ufficio propaganda del ripristinato ministero della Cultura popolare) e alunni reali, vittime del freddo, della guerra, della povertà e di un nuovo processo di ‘ri-fascistizzazione’ e di ‘ri-nazionalizzazione’.
Nella scuola, come in tutte le comunità in guerra, emergevano al contempo le molteplici forme di resistenza alla rinascita del fascismo, all’occupazione nazista, alla propaganda politica, alla guerra stessa: anche a esse si è cercato di dar spazio, nel solco della fondamentale linea storiografica tracciata da Claudio Pavone, che invitava a studiare con rigore scientifico i drammatici anni della guerra civile, al fine di restituire a ciascuna delle due parti, fascista e antifascista, la propria «reale fisionomia, evitando strumentali appiattimenti e false pacificazioni, irrispettose innanzi tutto per i morti di entrambe le parti, spogliati dell’identità che ebbero da vivi».

Daria Gabusi è Professore associato (abilitato alla I fascia) di Storia della pedagogia presso l’università Giustino Fortunato di Benevento ed è docente a contratto della medesima disciplina presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia. È segretaria di redazione degli «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche» e coordina il comitato scientifico del «Centro studi sulla Brigata Perlasca delle Fiamme Verdi e la Resistenza bresciana». Tra i suoi lavori: La stampa della Resistenza, in C. Pavone (ed.), Storia d’Italia nel secolo ventesimo (2006); La svolta democratica nell’istruzione italiana. Luigi Gui e la politica scolastica del centro sinistra (2010); A “sick culture”: essays and manuals on the formation of a racial consciousness in Fascist Italy, (2015); Per un ‘disarmo’ degli spiriti. Percorsi di educazione alla pace negli editoriali clandestini di Laura Bianchini (1943-1945), in F. De Giorgi (ed.), Cantieri di pace nel Novecento (il Mulino, 2018); Aldo Moro ministro della Pubblica Istruzione, in N. Antonetti (ed.), Aldo Moro nella storia della Repubblica (il Mulino 2018)

 

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Alle elementari di Salò, primi aneliti di libertà

 

Da Avvenire.it

In controtendenza con Pavolini, il ministro dell’Educazione Biggini le rifondò depoliticizzate per aprire le giovani menti alla prospettiva del dopoguerra. Uno studio di Daria Gabusi

Nell’arroventato clima storico di una guerra ormai perduta, in un contesto segnato dall’occupazione tedesca, dalle deportazioni, dai bombardamenti, dalla violenza efferata, dalla fame e dalla povertà, alla nascita della Repubblica sociale italiana, nell’autunno del 1943, si pose il problema di come far risorgere la scuola elementare, crollata, con tutto il sistema, dopo gli eventi dell’estate precedente, dal 25 luglio in poi. Ad affrontare questo tema, nel primo studio organico e originale, è la storica della pedagogia Daria Gabusi, autrice del denso saggio I bambini di Salò (Scholé, 640 pagine, 37 euro), che rappresenta anche il tentativo di scrivere una narrazione ‘sociale’ del primo ciclo dell’istruzione in quel periodo, ricorrendo ai documenti del vissuto quotidiano di alunni e insegnanti, come agli archivi scolastici locali.

Gabusi comincia con lo spiegare che la rinata scuola della Rsi mussoliniana portò i tratti distintivi del suo artefice, il ministro dell’Educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini. Questi, accademico prestato alla politica, accolse l’impari sfida di far ripartire le elementari, secondo lo spirito con cui aveva accettato l’incarico ministeriale: ossia, ricostituire un minimo di continuità dello Stato, ma in un contesto del tutto diverso da quello del ventennale regime, perché aperto, almeno potenzialmente, all’inclusione di inediti elementi di libertà e di partecipazione nella vita del tessuto sociale. Biggini, infatti, era un esponente di spicco di quel fascismo moderato che mirava a sanare e a ricucire quelle profonde ferite che avevano dilaniato il corpo della nazione, puntando a una strategia della riconciliazione e della pacificazione interna, in netta antitesi con l’intransigenza del segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, che invece perseguì una militarizzazione dell’intera società approfondendo il fossato della guerra civile.

L’opera di Biggini fu innanzitutto mossa da una preoccupazione sociale: quella di sottrarre i bambini alla strada, per riportarli nelle aule. Ne sortirono due bienni scolastici, tra i più brevi della storia unitaria: il 1943-44 e il 194445. Il ministro di Salò inserì il suo nuovo, e sperimentale, ciclo elementare, in un quadro disastrato, dove mancava di tutto: dagli edifici dove ospitare le lezioni, alla carta per poter stampare il libro unico di Stato, che, proprio per quella situazione di provvisorietà e di penuria, finì per scomparire: il che favorì, con l’adozione di testi prodotti sul mercato, l’ingresso dei primi elementi di pluralismo in quella tradizione monolitica che era stata la scuola di regime fino al 25 luglio 1943. Ma Biggini fece anche molto altro, per sbarrare il passo a una nuova ‘politicizzazione’ delle elementari: confinò l’Opera nazionale balilla, risorta sulle ceneri della Gioventù italiana del littorio (Gil), alle pure funzioni assistenziali, nel garantire il servizio di refezione nei plessi. Inoltre, preservò la vita della scuola da una fascistizzazione imposta attraverso i programmi, per privilegiare la rinnovata missione educativa, civile e morale, affidata agli insegnanti.

In questo senso, Gabusi definisce «patriottismo scolastico » quello delle elementari di Salò, che segnarono un primo indicatore di marcia verso l’autonomia della funzione docente, da adattarsi al singolo e specifico ambiente in cui veniva a collocarsi. Le circolari del ministro evitavano accuratamente riferimenti diretti alla politica fascista, e insistevano sulla necessità di costruire, nelle più giovani menti, un terreno adatto all’attecchimento di quegli aneliti di concordia nazionale che sarebbero stati fondamentali nel clima del dopoguerra. Forse sorprende che, addirittura, in una direttiva del 20 novembre 1944, Biggini indicasse, tra i compiti primari dell’educatore, la promozione dello spirito di libertà: «una libertà che nasce dai sacrifici dell’ora attuale e che trova il suo fondamento nella responsabilità di ciascuno di fronte a Dio, di fronte a se stesso, di fronte agli uomini». A questo processo di ‘spoliticizzazione’ della scuola, corrispondeva un innalzamento della responsabilità della funzione docente. Se ne ritrova riscontro nei registri di classe, dove gli insegnanti, molti dei quali cattolici, recepiscono gli orientamenti ministeriali. Ne è un esempio illuminante il brano con cui la maestra Ambrogina Volonté di Cirimido, in provincia di Como, il 18 settembre 1944, inaugura il registro del nuovo anno: «Trenta fanciulli sono tornati a me per attingere nuova luce, per acquistare maggior consapevolezza di sé, del mondo. Chiedo a Dio l’aiuto per non tradire la loro fiducia, per compiere appieno il mio dovere. La maggioranza degli alunni mi conosce e sa che esigo bontà, diligenza, pulizia, non voglio però una scuola rigida, fredda, senz’anima. Però fin dal primo giorno chiedo a loro collaborazione attiva basata su principi d’ordine senza i quali non sarebbe possibile un proficuo insegnamento.

La coscienza del grave momento che la Patria attraversa è presente nelle loro parole e nei loro silenzi. Essi vivono la vita nella sua cruda realtà: ascoltano trasmissioni radiofoniche, odono i discorsi degli adulti, vedono i giornali, sanno le difficoltà nuove, le nuove rinunce, il nuovo sacrificio, aspettano la mia parola che dia ali al loro spirito». Sul Duce, sul fascismo, nemmeno una parola. Un silenzio assordante come un rombo di tuono. In compenso, la scuola elementare del piccolo paese di Cirimido oggi è intitolata alla grandissima, e mai dimenticata, maestra Volonté.

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