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di Giorgio Pagano

 

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Conviene tornare sul tanto discusso convegno di commemorazione del gerarca fascista Carlo Alberto Biggini -non conosco altro modo per qualificarlo, nonostante che il Sindaco di Sarzana non sia d’accordo, perché Biggini tale era e perché lui stesso si autodefiniva così- sia per sgomberare il campo da incomprensioni o falsità sia per arrivare al nodo di fondo, che è quello dell’identità antifascista del nostro Stato e del “patriottismo costituzionale”.
Il “Secolo XIX”, riportando l’opinione di due miei amici storici e ricercatori, ha titolato: “Chi ha paura di studiare il pensiero di Biggini?”. Nessuno, ovviamente. C’è piena libertà di organizzare non solo momenti seri di studio ma anche iniziative di rivalutazione di quella figura e di manipolazione della storia. Ma c’è anche piena libertà -anzi, il dovere antifascista- di criticare queste ultime. E di criticare un Sindaco che vi interviene avallando di fatto quella rivalutazione e quella manipolazione. Che convegno si è tenuto sabato 21 novembre a Sarzana? Un convegno di rivalutazione di Biggini e anche di manipolazione della storia. La pagina a pagamento sui quotidiani e il sito dell’Istituto Biggini lo confermano: addirittura la bozza di Costituzione preparata da Biggini, allora Ministro dell’Educazione Nazionale della Repubblica sociale italiana, creata nell’Italia del centronord dagli occupanti nazisti con il loro fantoccio Mussolini, avrebbe “profondamente influenzato il testo che è diventato successivamente la Costituzione italiana del 1948”. In realtà si tratta di due Costituzioni antitetiche, e le differenze sono abissali. La Costituzione italiana, nell’articolo 1, afferma che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”; quella di Biggini, fatta propria da Mussolini, negli articoli 10 e 11 sancisce che “La sovranità promana da tutta la Nazione” e che “Sono organi supremi della Nazione: il Popolo e il Duce della Repubblica”. Ancora: la nostra Costituzione stabilisce che i tre poteri più importanti dello Stato -l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario- siano dati a tre organismi diversi, per evitare la concentrazione dei poteri che aveva caratterizzato la dittatura fascista; nella Costituzione di Biggini il Duce “esercita il potere legislativo”, a lui “appartiene il potere esecutivo”, mentre la funzione giudiziaria è esercitata dai giudici “nominati dal Duce”. Il Partito fascista è “organo fondamentale dell’educazione politica del popolo” ed è “riconosciuto come organo ausiliario dello Stato”: altro che “democrazia pluralistica”, come scrivono gli organizzatori del convegno! Ma ciò che è più manipolatorio è cercare di nascondere completamente gli articoli sulla “difesa della stirpe”, che contengono il “divieto di matrimonio di cittadini italiani con sudditi di razza ebraica”, e quelli sui “diritti e doveri del cittadino”, secondo i quali la cittadinanza italiana è titolo da “concedersi soltanto agli appartenenti alla stirpe ariana italiana” e “non può essere acquistata da appartenenti alla razza ebraica e a razze di colore”, le quali “non godono dei diritti politici”. Una Costituzione profondamente razzista, all’opposto della nostra, che nell’articolo 3 afferma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Potrei continuare, ma credo che basti e avanzi. Come abbia potuto Cavarra parlare di “senso dello Stato e della giustizia” di Biggini è stupefacente. Che il gerarca sarzanese sia stato un uomo colto e che non sia stato personalmente un assassino è vero, ma ciò certamente non lo assolve, avendo egli obbedito fino all’ultimo a Mussolini e a Hitler, dalla corresponsabilità per gli eccidi nazifascisti, per la persecuzione degli ebrei e per aver portato l’Italia alla catastrofe (si vedano il mio articolo “Se vogliamo dare un senso alla storia dobbiamo celebrare Jacobs, non Biggini”, in “Città della Spezia” del 21 novembre, e quello di Sandro Bertagna su “La Spezia Oggi” del 22 novembre). Io non dubito dell’antifascismo di Cavarra: ma ha commesso un grave errore, e dovrebbe fare ammenda. Gli farebbe solo onore.
Se insisto non è per motivazioni politico-partitiche. Io non appartengo a nessun partito. Sono il copresidente del Comitato Unitario della Resistenza in rappresentanza dell’Anpi e ho il dovere, tanto più oggi che gli “ultimi” se ne stanno andando, di impegnarmi in ogni modo per trasmettere l’eredità morale e politica della Resistenza. Ma non è semplice: la vita repubblicana, in Italia, ha progressivamente oscurato e rimosso le sue pur incontestabili origini antifasciste. Ciò è avvenuto in modo marcato a partire dalla fine degli anni Settanta. Per comprendere la crisi della memoria e della politica dell’antifascismo, occorre tornare sull’alto grado di conflittualità che dopo il 1945 caratterizzò l’esperienza italiana: mentre la politica dell’anticomunismo divideva e indeboliva il grande potenziale riformatore che si era accumulato nel fronte socialmente e politicamente assai eterogeneo dell’antifascismo, la risposta dell’antifascismo era tale per cui esso tendeva incessantemente a riproporsi non tanto e non solo come insieme di valori più o meno condivisi dall’insieme delle forze che agiscono nello spazio repubblicano, ma come linea politica tendente a rimettere in discussione le divisioni interne fissatesi con il regime della guerra fredda, e quindi a identificarsi con una parte, quella “socialcomunista”. Poi ci furono gli errori degli anni Settanta: la sconfitta della politica del compromesso storico comportò la sconfitta dell’antifascismo, che era stato strettamente associato a quella politica. Il problema della condivisione dei valori fondanti della Repubblica è più aperto che mai. Ma un Paese si può dividere sulle scelte politiche senza rischiare di perdersi come comunità solo se tutti, forze politiche e cittadini, sentono il vincolo dell’identità nazionale. Se sono consapevoli, pur nel contrasto, che il “destino” degli italiani è uno solo. Non c’è alternativa a una riconsiderazione e a una reinterpretazione dell’antifascismo e del “patriottismo costituzionale” come spazio repubblicano super partes: quali altri ideali abbiamo se non quelli che ci hanno ispirato nella lotta di Liberazione? L’unica alternativa è una repubblica priva di ogni elemento identitario, complesso di procedure gestite da una classe politica sempre più “castale”: una prospettiva inaccettabile. Il ruolo dei partiti antifascisti è stato decisivo per la Resistenza e per la Costituzione, ma i conflitti del dopoguerra e gli errori degli anni Settanta hanno fatto sì che fossero i partiti stessi, con la loro crisi, a far tramontare la stella dell’antifascismo. Oggi i partiti non ci sono più, o almeno non ci sono più quelli veri, radicati nel popolo. Molti cittadini non credono più in nulla, e si astengono dal voto: c’è una crisi anche della società civile “partigiana”. Per un ragazzo di oggi la Resistenza, cioè il fondamento della Repubblica, si confonde nel magma indistinto della storia. In una fase così difficile non bisogna andare a commemorare Biggini ma ricordare i partigiani e i contadini, le donne, i sacerdoti che li accolsero e protessero ai monti. E oggi ricordare tutti coloro che, il 29 novembre di settantun’anni fa, furono ferocemente rastrellati dai nazifascisti in Val di Magra. Nel nostro Pantheon sta la gente comune, stanno le donne e gli uomini semplici che dalla Resistenza a oggi si sono battuti per la libertà e la democrazia, indipendentemente dalla loro appartenenza politica. Bisogna tener viva la loro memoria, non quella dei gerarchi.

 

Domenica 29 novembre 2015, Città della Spezia

 

 

 

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