Lontano dall’Italia da oltre trent’anni – salvo periodici rientri di poche settimane – soffro come quasi tutti gli italiani residenti all’estero del “mal di Patria”; un male prodotto da quella nostalgia che il dálmata Niccolò Tommaseo nel milleottocento definí: amore struggente di Patria lontana.
La mia nostalgia risale alla sua radice semasntica, dove riecheggia il vocabolo greco nostos che – trasformando il desiderio della patria lontana in un percorso come quello del mitico Enea – lenisce lo strappo delle origini, la lontananza dalla terra natía trasformandola in un ponte lanciato sulla sponda del nuovo approdo, dove il processo di dislocazione conserva tuttavia la memoria delle origini.
Nel caso specifico il mio “mal di Patria” si fa piú intenso, a causa delle vicende sulle quali gli italiani ben nati si arrovellano con rabbia e per le quali l’odierna Italia non mi piace. E a non piacermi non é solo l’Italia delle ricorrenti tangentopoli della corruzione politica e mafiosa che ne corrode il territorio, le coscienze e lo spirito. Non mi piace l’Italia festaiola delle lotterie e degli insulsi concorsi a premio che la Rai-TV diffonde sulle vie dell’etere presentando a tutto il mondo l’immagine fittizia di un Paese che sembra cullarsi nell’incoscienza colettiva e nell’evasione ludica mentre tutto gli sta crollando attorno. Certo chi visita spesso l’Italia sa perfettamente che l’immagine televisa che corre per il mondo non corrisponde all’Italia reale che, nonostante l’irresponsabilità della classe dirigente al potere, lavora in condizioni difficili per risalire dalla terribile crisi socio-economica e civile che attanaglia le famiglie, le piccole e medie imprese, la scuola, che nega un futuro alle giovani generazioni e getta nella miseria generazioni di pensionati, che induce alla fuga all’estero le migliori energie del paese impoverendolo intellettualmente e professionalmente.
Né mi piacciono quegli intellettuali italiani che, per fuggire dalla triste realtà odierna, cercano un rifugio consolatore nella lontana memoria del sacro romano impero, il cui pallido riflesso è custodito nella tomba viennese di Cecco Beppe, penultimo imperatore di una tramontata “Austria felix”; nè coloro che stanno imbastardendo con vocaboli stranieri (soprattutto con anglicismi) la nostra lingua. Antico vizio nostro, purtroppo, già denunciato a suo tempo da Vincenzo Gioberti (1801-1852) quando considerava costume indegno, basso e vile il “trasandare la propria loquela ed il vezzo di parlare o scrivere, senza bisogno, la lingua forestiera” ; mentre Giacomo Leopardi (1798-1865) aggiungeva, a sua volta, che “la lingua, l’uomo e le nazioni per poco sono la stessa cosa”.
Né mi sento partecipe di quello “spiritaccio” che induceva il pratese Curzio Suckert-Malaparte a considerarsi discendente dai longobardi di Borgo al Cornio che fu il nocciolo di Prato, per cui – sempre secondo il Curzio Malapratese – pensavano di nulla dovere “al solito Mario, al solito Silla, al solito Cesare”. Per la mia discendenza toscano-emiliana mi sento invece vincolatissimo con i soliti Mario, Silla e Cesare perchè non posso espellere le mie solide radici italiane dal quell’ inconscio collettivo di quella atavica “Italica Gens” che assieme agli antichi romani contribuí alla formazione del popolo italiano, se é vero che l’Italia – specificamente come patria – è anche e soprattutto la sua Storia.
Ma la Patria, per la indubbia derivazione sua dal vocabolo latino pater, si puó definire non solo come “terra dei padri”, ma altresì come il luogo dove spiritualmente, e non solo materialmente, si nasce e si cresce. Di conseguenza, si puó convenire, con l’abate Gioberti, che l’Italia contemporanea più che patria, intesa nel senso attribuitole dagli antichi Greci – luogo cioè di vita morale e culturale, ispiratore di una comune fede civica, generetrice del cittadino adulto – è Matria: terra matrice, bália degli italiani delle generazioni dell’ultimo secolo, rimasti all’età infantile. Si tratta di un infantilismo non ingenuo, invece assai malizioso, affiorato nel cinquantennio a cavallo tra il XXº secolo, ormai tramontato, ed il XXIº da poco iniziato, che segna il fallimento della patria italiana in quanto luogo di crescita culturale e spirituale; fallimento dovuto alla rottura di quell’unità metafisica tra popolo e patria per cui “noi apparteniamo alla patria e la patria appartiene a noi” e di cui ha parlato a suo tempo il filosofo tedesco Eduard Spranger.
Personalmente ritengo responsabili di tale fallimento le varie istanze dell’educazione (famiglia, scuola, classe poplitica) che, pur in diversa maniera, tutte hanno abdicato al loro compito esistenziale ed istituzionale o – quel che è peggio – lo hanno svolto secondo un rovesciamento di principi e valori, le cui conseguenze negative emergono quotidianamente in quell’entità che la classe dirigente dominante identifica come Paese, vergognandosi di chiamarla con il nome vetusto che – come scrisse a suo tempo il poeta romano Virgilio – “dagli Enotri nomossi: or, com’è fama, preso d’Italo il nome, Italia s’è detta” (Eneide, IIIº, 164).
L’Italia, dunque – che si espanse dalle radici degli Enotri – e della quale, come italiano all’estero, quotidianamente sento l‘assenza, perchè mi sento geneticamente radicato in essa, e sulla quale mi arrovello con passione perchè – anche se oggi non mi piace com’è stata ridotta – non potró mai spogliarmi di essa finché conserverò la consapevolezza delle mie radici storiche e spirituali.
Già suo tempo, il nostro Niccoló Machiavelli dichiarava all’amico Francesco Vettori, d’amare la patria piú dell’anima, lasciando, già nel XVº secolo ai posteri l’alta visione di quel moto di formazione delle nazioni per cui la piccola patria antica si allarga poi a nazione moderna per affermarsi quindi come Stato nazionale nella prima metà del secolo XXº.
Bisogna rifarsi dunque all’avveniristica lezione del geniale segretario fiorentino per sensibilizzare quegli italiani che sono sopinti alla disperazione dalla crisi attuale e sognano antistoriche ed utopistiche tentazioni d’indipendentismo regionale; e riproporre ad essi la rifondazione morale e la reintegrazione politica dell’Italia contemporanea. Come ricordava puntualmente Marcello Veneziani in un coraggioso articolo del 14 febbraio 2014, dove – rivolgendosi agli italiani del Veneto – li invitava ad abbandonare la rabbia utopica della secessione, ammonendoli che: “Non si reagisce alle crisi e al malgoverno sfasciando il Paese. Una Patria non è un contratto che cambia gestore se l’offerta non è più generosa. Una patria è una storia da cui provieni, la geografia in cui ti muovi, la lingua che parli, l’arte che vedi, la terra degli avi, i loro sacrifici, tuo padre, tua madre. Difendere oggi l’Italia nella sua unità, è difendere la civiltà italiana”.
Solo la pertinace diseducazione verso l’Italia, Nazione-Stato – sintesi di libertà-autorità, maestà-diritto, costituita dalla forza, dall’intelletto e dalla fiducia degli italiani – può indurre qualche nostro compatriota, per incosciente che sia del suo status storico giuridico a sostenere, in odio alla prepotenza di una classe politica squalificata, che “dal 1866 la nazione veneta è oppressa dallo Stato italiano”, confondendo rozzamente i termini di popolo e nazione e scambiando quindi il primo con il secondo.
Infatti mentre esiste un popolo veneto, accanto ad un popolo lombardo, piemontese, sardo, napoletano, pugliese, siciliano, ecc. – (inteso il vocabolo “popolo” come sininimo di “gente”) – esiste solo una Nazione Italiana.
La Nazione italiana esiste, sotto il profilo socio-culturale, almeno da tremila anni, secondo l’ affermazione dell’autorevole sociologo Franco Ferrarotti raccolta dal settimanale L’Italia del 20 gennaio 1993.La Nazione Italiana- spiegava allora Ferrarotti – ha radici antropologiche profondissime.
Da qui l’esigenza di riscoprire, soprattutto per gli italiani d’Italia, il significato di patria e l’urgente vigenza del suo valore, il recupero della sua missione comune nel patrimonio culturale e storico della nazione italiana mediante la sua riaffermazione unitaria nella Stato. Anche questo da rifondare nel contesto della realtà attuale dove il senso dello Stato, deformato a statalismo dagli abusi burocratici, va restituito alla sua essenza originaria: quale unità di destino delle diversità d’origine e di costume delle genti italiche; e quindi espressione dell’ordine giuridico che il popolo si da per presentarsi con onore tra gli altri popoli della terra, come ha insegnato sapientamente Romano Guardini, un italiano di cultura germanica, nato a Verona nel 1885 e trasferitosi all’età di cinque anni in terra tedesca, seguendo suo padre, nominato console a Magonza del giovane Regno d’Italia.
L‘urgenza della Patria s’impone soprattutto in tempi come questi, quando gl’italiani sembrano rincorrere solo i richiami delle suggestioni e degli egoismi locali; e s’impone come voleva Giuseppe Mazzini – ripreso un secolo dopo dall’alto magistero di Giovanni Gentile – intendendo la Patria “anzitutto come conscienza della Nazione”.
Nei suoi Scritti editi ed inediti, Mazzini, a proposito della Patria avverte: “Il suolo che calpestate ed i limiti che la natura pone tra la vostra terra e quella del prossimo, e la dolce lingua che in essa risuona, non sono che la forma visibile della Patria.Ma se l’anima della Patria non palpita in questo santuario della vostra vita che ha nome coscienza, questa forma resta simile ad un cadavere inanimato. E voi siene una tomba anonima, una massa d’individui, non un popolo. La Patria è la fede nella Patria. Quando ciascuno di voi abbia questa fede e sia disposto a dare il suo sangue per essa, solo allora possederete la Patria, non prima”.
Insomma la Patria vive nella fede di chi la vuol far vivere, sicchè non esiste nazione e patria dove non esiste la volontà d’essere nazione e patria, cioè una “identità nazionale” che in Italia ha sempre costituito “un riferimento ambivalente ed ambiguo” come osservava ancora il Ferrarotti.
Ora da tale ambiguitá si puó uscire solo con una educazione nazionale spinta in profondità. Ma dal 1945 in poi, l’educazione nazionale è stata sostituita da una anodina “istruzione pubblica” che non osa educare le giovani generazioni italiane (abbandonate alle peggiori influenze straniere) nella fierezza delle radici, nell’orgoglio del nostro patrimonio storico, nel culto dei simboli della Patria.
Nei Paesi dell’America Latina – meglio definita dalla sapienza dell’italo-argentino Carlos Alberto Disandro (1919-1994), quale “America Romanica – non c’è cerimonia scolastica od atto civico che non s’apra con l’alzabandiera e l’esecuzione corale dell’inno nazionale.
Il ballo nazionale cileno d’origine popolare (la cueca), si concludecon l’omaggio alla bandiera. Nella principale “avenida” di Buenos Aires campeggia un gigantesco cartellone dove si legge: Argentina, te quiero (Argentina, ti amo!).
Manifestazioni simili, sono inimmaginabili nell’Italia contemporanea dove il tricolore s’esisbisce poco e l’inno nazionale s’intona distrattamente negli stadi solo in occasione di partite di calcio a livello internazionale.
Qui consiste il punctum dolens: l’identità italiana s’è interrota da quando la volontà d’essere patria e nazione s’è spenta nel rinunciatarismo implicito nel processo mal condotto di una unione europea sollecitata dalle illusoni di un consumismo materialista omologato all’occidentalismo nordamericano.
Mancando questa volontà, gl’italiani oggi sono tutti orfani, specialmente quegli italiani che le dure vicissitudini della vita hanno spinto sulle vie del mondo. Infatti per gli italiani emigrati, la patria assente produce un senso di sradicamento che – specie per i figli degli italiani all’estero – significa il rischio di un assorbimento irreversibile nel contesto socioculturale nei Paesi d’accoglimento.
In tempi di fughe nell’oblio o, peggio, di diserzione come quelli in cui viviamo, la fedeltà alla Madre Patria costituisce la sola salda premessa per la rinascita della coscienza civica nazionale.
L’Italia perenne risorgerà a nuova vita feconda solo quando tutti gli italiani affronteranno i problemi comuni, profondamente contagiati – come noi – dal mal di Patria.
Santiago del Cile, maggio 2015.
Primo Siena
Italiano all’estero dal 1978