Letture consigliate

da Il Giornale – di Luca Gallesi

I n occasione del settantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, l’instancabile liturgia resistenziale ci ha consegnato l’ennesimo quadretto oleografico di un’Italia che esce vittoriosamente dal conflitto, dopo aver sbaragliato, grazie all’insurrezione di tutto il popolo, il barbaro invasore tedesco.

Per inconfessabili scopi di bassa politica si continua quindi a recitare la farsa di una sconfitta militare trasformata in vittoria e di una tragedia convertita in festa; il 25 aprile si celebra una ricorrenza che, invece di invitare gli italiani a voltare pagina consegnando la guerra civile alla memoria storica, rinfocola ataviche ostilità e riapre antiche ferite, sostituendo la propaganda alla storia. Fortunatamente, le nuove generazioni di storici e ricercatori sembrano meno disposte a piegarsi alle esigenze della retorica, come dimostra un libro appena pubblicato da Laterza, Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-1948 (pagg. 180, euro 20), scritto da Michela Ponzani, collaboratrice dell’Istituto storico germanico di Roma, consulente dell’Archivio storico del Senato e già autrice di numerosi saggi sulla Resistenza e sull’Italia repubblicana. Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: la Ponzani non è affatto revisionista, non ha alcuna simpatia per la destra o, peggio, per il fascismo, e rivendica la sua convinta adesione ai valori della Resistenza, che l’hanno ispirata e guidata nelle sue ricerche. Ma è nata nel 1978, e, probabilmente, il dato anagrafico l’ha aiutata a evitare l’adesione ai frusti cliché dell’antifascismo militante.

I Figli del nemico analizza, con un approccio scientifico, il destino dei numerosi bambini, spesso illegittimi, nati dalle relazioni tra soldati tedeschi e donne italiane, oppure da internati italiani e donne tedesche, che, coinvolti dalla tragedia bellica, hanno trovato il modo di restare umani aggrappandosi al sentimento più naturale che esista, quello dell’amore, o presunto tale, i cui frutti recano un marchio infamante. È il caso di Francesca O., nata il 10 novembre 1944 a Bologna, da un padre tedesco che non ha mai conosciuto, perché tornato dalla sua fidanzata tedesca. Francesca ha cercato di rimuovere l’esistenza del suo «vero padre», ma solo quando ha saputo che stava morendo, si è sentita priva del marchio infamante di figlia della colpa. Di segno opposto, invece, la storia dei figli di Alfred, un SS di vent’anni che si innamora di Anita, da cui ha tre figli, che, amati e riconosciuti, cresceranno forti e uniti, nonostante il cognome – e le fattezze – straniere. Certo, come avverte l’autrice nell’introduzione, nella maggior parte dei casi si tratta di incontri fugaci, di «amori di guerra» che soddisfano un momentaneo bisogno d’affetto o di protezione, e che forse svaniranno col ritorno alla normalità. Le conseguenze di quelle relazioni, però, non potranno essere rimosse, e i destini dei bambini saranno molto diversi, a seconda dell’appartenenza dei padri alle schiere dei vincitori o a quelle dei vinti. Nel primo caso, parleremo di «spose di guerra», che si sono concesse ai liberatori inglesi o americani, assurgendo, nell’immaginario resistenziale, a una condizione di rispettabilità sociale quasi pari a quella delle eroine partigiane che, invece del corpo, hanno donato alla giusta causa il loro sangue. Nel secondo, invece, si tratterà di «donne disonorate» e «figli della colpa», a cui andrà tutta la riprovazione sociale e il disprezzo della comunità. La Ponzani ricostruisce le loro storie, che, sono parole sue, non hanno «nulla a che vedere con quel canone patriottico-onorevole di stampo risorgimentale che vede incerarsi il senso di rispettabilità degli italiani nell’odio e nella distanza dal tedesco invasore». Viene quindi smontato anche un altro stereotipo, quello della donna amante del tedesco, che deve necessariamente essere una collaborazionista, laddove le relazioni tra donne italiane e soldati del Reich sono spessissimo legami d’amore destinati a durare anche dopo la guerra; infatti, contrariamente alle versioni della propaganda, i militari tedeschi dislocati sul fronte italiano non sono barbari assetati di sangue, ma individui civili «entusiasti di vivere in un vero e proprio museo a cielo aperto», e non si capacitano, come scrive a casa un caporale dislocato in Lazio, del fatto che «gli abitanti di una città moderna e intrisa di storia come Roma non si rendono conto della bellezza della loro città». Al contrario, le truppe alleate che risalgono la Penisola distruggono tutto e bruciano i cadaveri dei tedeschi, mentre i magrebini aggregati al corpo di spedizione francese uccidono e violentano migliaia di donne, «ben 2000 solo nel paese di Ceprano, di cui 1500 contraggono la malaria e 800 si troveranno in stato di gravidanza».

Il mito del tedesco freddo e crudele, invece, deve essere mantenuto sempre, dato che l’Italia «ha un bisogno assoluto di ricostruire la propria immagine nazionale con la rimozione assoluta dei rapporti che l’Italia ha stabilito, dagli anni Trenta in poi, con la Germania nazista». E quindi vanno rinfocolate le rappresentazioni del «cattivo tedesco» come nemico del genere umano, «recuperando persino narrazioni che risalgono alla tradizione antiaustriaca ottocentesca». Ma «le narrazioni pubbliche di guerra, in un’Italia che si presentava come vittima del fascismo, non hanno affatto aiutato a guarire la società ma, invece, hanno avuto un effetto distorsivo sull’evoluzione delle memorie legate alla storia nazionale».

Tra le pagine, ricchissime di dati e di informazioni preziose sulle vittime più innocenti di un conflitto, quei bambini orfani o abbandonati alla carità pubblica o, più spesso, religiosa, emerge, quasi inconsapevolmente, un auspicio, che dovrebbe sostituire la retorica resistenziale: «Uscire dal silenzio, superando il trauma dei giorni del conflitto, rompere con un passato di odio allontanando da sé il peso della discriminazione, inducendo a ricordare anche tutti quei tedeschi caduti sul fronte di guerra italiano, le cui spoglie non saranno mai restituite alle rispettive famiglie».

Ecco, questo atto pietoso sarebbe una degna celebrazione della fine di un conflitto: si liberano i prigionieri e si seppelliscono i morti. E si ricomincia a vivere.

 

Les Expulsés: un milione di civili tedeschi uccisi nell’indifferenza”

La traduzione in francese dell’opera di R.M. Douglas, “Les Expulsés”, è ormai disponibile presso la casa editrice Flammarion. L’autore americano ritorna su uno dei grandi crimini di massa del XX secolo: la deportazione e la messa a morte da parte degli Alleati dei civili germanofoni subito dopo la Seconda guerra mondiale.
In totale 14 milioni di persone espulse dalla Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia…”La maggor parte erano donne e ragazzi minori di 16 anni”, sottolinea lo storico. Al termine del cammino, la morte nei campi di concentramento, sulle strade europee dell’esodo o nei carri bestiame. E’ “uno dei più grandi episodi di violazione dei diritti umani della storia moderna”, scrive R.M. Douglas.
Egli calcola una stima minima di 500.000 vittime ed una massima di 1,5 milioni di morti. Il professore di storia contemporanea all’università Colgate (New York) ricorda le sofferenze che “ebbero luogo alla luce del sole, sotto gli occhi di dozzine di migliaia di giornalisti, diplomatici, lavoratori umanitari e osservatori vari”. Il libro presenta i meccanismi di questa espulsione di massa, l’arcipelago dei campi di concentramento, le conseguenze delle espulsioni in materia di diritto internazionale ed il ruolo sotto-stimato degli Alleati in questa epurazione su vasta scala.
Questi sradicamenti brutali e mortali sono oggi quasi completamente dimenticati fuori dalla Germania. Fanno parte della lunga lista dei crimini contro l’umanità perpetrati dai Britannici, Americani e Sovietici durante gli anni ’40. Anthony Beevoir, nella sua ultima opera, “La Seconda Guerra mondiale”, consacra per esempio un intero capitolo ai “bombardamenti strategici” degli Alleati che fecero più di 300.000 morti tra il 1942 2d il 1945. Lo scopo: radere al suolo le città tedesche (Colonia,Amburgo,Dresda…) ed uccidere il massimo dei civili. Questa politica di terrore lanciò 1.350.000 tonnellate di munizioni sulla Germania.Ossia come potenza l’equivalente di 25 volte la bomba atomica sganciata su Hiroshima nel 1945…
“Abbiamo ucciso cinque o sei milioni di tedeschi e prima della fine della ne uccideremo un altro milione…c’è quindi abbastanza posto nella Germania occidentale per quelli che saranno espulsi.” W. Churchill a Yalta, 7 febbraio 1945 Per inciso, W C. si riferisce a Civili Tedeschi.

Quando questo libro venne pubblicato per la prima volta alla fine degli anni Ottanta, il mondo rimase sconvolto e il suo autore venne attaccato da più parti per aver raccontato il destino di oltre 790mila soldati tedeschi morti nei campi di prigionia francesi e americani e di oltre 500mila scomparsi nei campi sovietici. Ma l’autore ha continuato a raccogliere testimonianze e documenti che non solo confermano ciò che è stato pubblicato nella prima edizione ma ampliano il tragico scenario delle morti di massa dei soldati tedeschi che si erano arresi alle truppe alleate. Un libro destinato a scatenare un violento dibattito.

Alla fine della seconda guerra mondiale almeno quattro milioni di soldati tedeschi furono tenuti prigionieri nei campi francesi ed americani all’aperto, esposti alle intemperie, mancando delle più elementi strutture igienico-sanitarie, sottonutriti, ben presto cominciarono a soffrire di fame e malattia.Si trattava di soldati arresisi dopo l’8 maggio 1945, ad essi vanno aggiunti i civili, donne bambini ed anziani. Morirono nell’indifferenza delle autorità francesi ed americane. Queste morti,intenzionalmente volute e causate dagli ufficiali che avevano risorse sufficienti per mantenere in vita i prigionieri e che negarono, sono registrate come “Altre perdite”, nella realtà un crimine di guerra (perchè si voleva perpetuare l’annientamento del popolo tedesco ben oltre la fine delle ostilità) e contro l’umanità.
L’ICRC ( Comitato Internazionale della Croce Rossa con sede a Ginevra), negli anni ’80, rifiuta di rilasciare documenti essenziali ai ricercatori che stanno lavorando sui campi americani e francesi. In compenso, consente al altri ricercatori di accedere agli archivi per cercare materiale sui campi nazisti. Salvo poi renderli inaccessibili ,vedasi il caso dell’archivio del Servizio internazionale di ricerche dipendente dalla Croce Rossa Internazionale, ad Arolsen, in Germania; allorchè in uno dei processi contro Ernst Zuendel, il prof. Robert Faurisson aveva fatto richiesta esplicita di consultarli e renderli pubblici. Perchè rimettere la Vulgata in discussione e complicarsi la vita?
Meglio, molto meglio, sbarrare a tutti le porte dell’archivio e affidarne le chiavi ad un certo numero di Stati: tra questi “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Chiusura obbligata e chiavi in mani sicure.
Ma è troppo presto per recitare il de profundis per i ricercatori storici seri. Legge o non legge

Una nuova edizione riveduta del saggio che ha fatto conoscere un evento senza precedenti nella storia del mondo civile: l’esodo di centinaia di migliaia di civi…li tedeschi che nell’inverno del 1944 fuggirono verso Occidente nel disperato tentativo di sottrarsi all’Armata Rossa lanciata in direzione di Berlino. Erano gli abitanti delle regioni orientali del Reich, nella quasi totalità donne, vecchi, bambini e, mischiati a loro, sfollati in quelle zone, fuggiaschi dei Paesi baltici, prigionieri di guerra. Chi non ebbe fortuna cadde in mano nemica. Fu, per quella gente inerme, l’inizio di un calvario che si prolungò oltre la fine del conflitto: alle atrocità, alle deportazioni in terra sovietica, seguirono i campi di concentramento, le spoliazioni da parte di polacchi e di cechi e, infine, la drammatica espulsione dalle loro terre per decisione alleata.

Formato: 17×24 (Pagine: 288)

 Autore: Pietro Cappellari

Casa Editrice: Herald Editore (Roma 2014)

Info: heraldeditore@libero.it

IL FASCISMO AD ANZIO E NETTUNO

Come il Regime cambiò il volto dell’Italia. Il nuovo libro di Cappellari

Dopo una lunga attesa è uscito per i tipi della Herald Editore il nuovo studio del ricercatore nettunese Pietro Cappellari. L’opera raccoglie i frutti di oltre venti anni di ricerca e si pone come ultimo tassello della collana di studi storici sulla storia della prima metà del Novecento di Anzio e Nettuno inaugurata nel 2009 dal ricercatore di Nettuno. Cappellari, infatti, ha già dato alle stampe tre importanti contributi per la comprensione del Regime fascista e la Repubblica Sociale Italiana sul territorio: I Legionari di Nettunia (che narra le vicende dei combattenti della RSI di Anzio e Nettuno); Lo sbarco di Nettunia (che costituisce il più completo studio sull’operazione anfibia del 22 Gennaio 1944 e la successiva battaglia per Roma); e Nettunia, una città fascista 1940-1945. Il nuovo studio, dal titolo Il fascismo ad Anzio e Nettuno 1919-1939. Una storia italiana, si inserisce in questa collana andando ad illustrare l’avvento del Fascismo ad Anzio e Nettuno e come, su questo territorio, il Regime plasmò il volto degli Italiani, nonché la fisionomia politico-sociale-economica delle due cittadine. Si tratta di un’opera fondamentale non solo per comprendere la storia locale ma, soprattutto, per comprendere il fascismo, come questo concretamente operò, come venne percepito dalla popolazione, quale consenso ebbe e come seppe imporre la modernità anche nei più piccoli centri urbani. Uno studio che non mancherà di suscitare polemiche e interesse. Infatti, del ventennio più importante – per opere, per sviluppo, per novità, per eventi – della storia di Anzio e Nettuno rimangono pochi documenti e ancor meno memoria collettiva. Invano il ricercatore interpellerà gli anziani di questi paesi – ormai divenuti moderne città – alla scoperta di un passato cancellato dai più. Ora che gli anni hanno inghiottito anche gli ultimi testimoni di quella storia, rimane solo un deserto culturale costellato da oasi di menzogne. Gli archivi rimangono “inaccessibili” ai più e la pigrizia culturale di un popolo che sta smarrendo la propria identità rischia di lasciare nell’oblio esperienze invero straordinarie.

Lo scopo di questa ricerca – seppur con le sue lacune – è quello di far conoscere un “passato che non passa”, riscoprire quelle radici che una “modernità fatta di vuoto” ha voluto strappare dall’anima di comunità secolari. Ma “le radici profonde non gelano”, diceva Tolkien. Cappellari ha scavato negli archivi e nella sempre più rada memoria collettiva delle comunità di Anzio e Nettuno alla ricerca del “Graal”, quello scrigno perduto che conteneva il vissuto di un secolo ormai tramontato, ma che trasudava di passioni, di sogni, di realizzazioni concrete. Un secolo in cui affondano le nostre radici. Sebbene molto si è perduto, sorprese non sono mancate. E’ stato possibile, per la prima volta, ricostruire la nascita del fascismo ad Anzio e Nettuno e il suo sviluppo; far luce su personaggi “mitici” che la tradizione orale tramandava, ma dei quali, in realtà, nulla si sapeva. Ma non solo. Cappellari ha anche potuto fare una carrellata sulla vita quotidiana di quegli anni, riscoprendo spaccati popolari di paesi che sorgevano allora sulla scena internazionale dopo il “letargo” ottocentesco. Le prime grandi opere, la trasformazione urbanistica, la nascita delle attuali Anzio e Nettuno.

Cappellari ha riscoperto anche i sapori di quel tempo perduto, fatto di semplicità e profonde convinzioni, dove il vivere civile era il retaggio che un’intera comunità si tramandava di generazione in generazione. Dove la religione cattolica apostolica romana scandiva la vita delle comunità, affiancata – dopo la costituzione del Regime – da un’altra religione, quella politica di uno Stato etico che plasmava il paesaggio come gli uomini, nella visione risorgimentale dell’“Italiano nuovo”, degno erede del suo millenario passato, in grado di esercitare un “primato” e una “missione” nel mondo. In un’Italia povera come quella degli anni ’20, tutto ciò sembrò un vero e proprio miracolo. Valori di un tempo perduto si dirà, ma che certamente plasmarono il cittadino di quell’Italia così profondamente diversa da quella attuale.

Cappellari ha seguito i nettunesi e portodanzesi sui campi dei battaglia di Abissinia, come in Ispagna, dove quei valori si concretizzarono in supremi atti di eroismo e di sacrificio personale oggi dimenticati, ma che danno bene la dimensione dell’impatto del Regime sul vivere quotidiano come sulla trasformazione degli individui che si elevavano allora a Nazione cosciente di un “primato” e di una “missione”.

E’ stato, per la prima volta, possibile analizzare nello specifico anche il fenomeno antifascista – scarso e marginale in dei paesi in cui l’adesione al Regime era pressoché totalitaria – ma che pure ebbe i suoi “alfieri ideali” e spunti interessanti, come il tentativo di ricostituzione del Partito Comunista d’Italia del 1931. Si è potuto così facilmente smascherare il ritornello della vulgata antifascista e anti-italiana di un Regime liberticida e violento. Atti di clemenza, a dir poco clamorosi, che sono descritti in tutta la loro ampiezza e abbondantemente documentati, a partire dalla richieste al Duce fatte dagli stessi antifascisti.

Tutte queste storie – frammenti di una storia più grande – confluiscono ora in questo volume che fa luce su un passato così recente nel tempo, quanto lontano nello spirito. Un “passato che non passa” abbiamo detto. Ed è effettivamente così. Perché lì sono le nostre radici. Perché ogni comunità che vuole costruire il proprio domani deve sapere da dove viene e nel rispetto delle sue tradizioni proiettarsi in un futuro dove i valori spirituali non sono transeunti, ma eterni.

Primo Arcovazzi

E’ uscito il nuovo libro di Lodovico Galli, libero (nel vero senso della parola) ricercatore bresciano, che da decenni studia il periodo della R.S.I. di quella importante provincia, che fu sede, tra l’altro, del quel Governo.

Trattasi di un libro di 192 pagine, edito in proprio, senza contributi di istituzioni o fondi pubblici, tanto generosi nel finanziare una certa pubblicistica di parte, quanto sordi a sostenere gli studiosi indipendenti.

L’autore, in questo interessante studio, come è nel suo stile di concepire la storia della guerra civile, privilegia sempre il documento, a scapito della retorica antifascista e anti-italiana che ha inventato fatti e misfatti per chiari intenti politici. Infatti, anche in questo nuovo libro, Galli pubblica una serie di documenti d’epoca inediti, recuperati in vari archivi, i cosiddetti “mattinali” firmati da Manlio Candrilli, Questore che fu fucilato a guerra finita (1° Settembre 1945), salvo essere poi riabilitato dalla Cassazione nel 1959, quando però era già in Paradiso.

Pochi sanno che, durante il processo a Ferruccio Sorlini, già Commissario federale dei Fasci Repubblicani di Combattimento di Brescia, un Carabiniere Reale, tale Giuseppe Barattieri, scaricò il proprio mitra nella gabbia dove era rinchiuso il fascista, freddandolo. Così si eliminava nel Luglio 1945 un testimone scomodo dei “compromessi” che la locale Resistenza aveva intessuto con i fascisti… e la giustizia faceva il suo corso!

Altri fatti e misfatti inediti – come l’uccisione dei due Agenti di Polizia da parte del partigiano comunista Giuseppe Verginella – si possono apprendere leggendo queste pagine di storia vera, che sono costate all’autore chissà quanto lavoro di scavo nei più variegati archivi. Quegli archivi che la vulgata antifascista e anti-italiana vorrebbe tenere ben chiusi, ma che Galli ha “scardinato” con rara perseveranza e professionalità.

OPERAZIONE SALVATAGGIO

GLI EROI SCONOSCIUTI

CHE HANNO SALVATO

L’ARTE DALLE GUERRE

Il nuovo libro di Salvatore Giannella dopo “Voglia di cambiare”

Chiarelettere

(via Guerrazzi 9, Milano. Sito web: www.chiarelettere.it. Tel: 02.00649632.

Addetta stampa: Giulia Civiletti, mail: giulia.civiletti@chiarelettere.it

Salvatore Giannella, ex direttore del settimanale L’Europeo e del mensile Airone. “Operazione Salvataggio tratta le storie degli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre” (editore Chiarelettere). Nelle pagine iniziali si trova il capitolo “Il refuso ad arte del ministro Biggini”. Nel capitolo finale dedicato alle biografie dei protagonisti, vi sono altri cenni a Carlo Alberto Biggini

“Il 2013 è stato l’annus horribilis della destra italiana. È stato l’annodella diaspora politica e dellasconfitta elettorale. È stato l’annodella condanna di Silvio Berlusconi edel suo allontanamento dal Senatodella Repubblica, l’anno della scissione di Angelino Alfano, ultima in ordine di tempo, dopo quella di Futuro e Libertà di Gianfranco Fini, di Fratelli d’Italia ed ancor prima della Destra di Francesco Storace” – così in premessa del nuovo libro di Mario Bozzi Sentieri, “La destra nel labirinto – Cronache da un anno terribile” (Edizioni del Borghese, pagg. 132, Euro 16,00).

Scritti nell’arco dell’ultimo anno, un anno significativo e convulso non soltanto per la destra ma per l’intero panorama politico italiano, i capitoli de “La destra nel labirinto” presentano una scottante ed inquietante attualità. Non vi è infatti nessuno degli aspetti che hanno contraddistinto i recenti sviluppi della politica nostrana a non essere trattato o, quanto meno, toccato: dalla sconfitta elettorale e dalla proclamata uscita di scena di Berlusconi alla condanna di quest’ultimo per frode fiscale, dalla fine del Governo Monti e dal Napolitano-bis all’affermarsi prepotente dell’antipolitica grillina, fino alla riesumazione di sigle quali Forza Italia e Alleanza Nazionale che il “partito-contenitore” del Popolo delle Libertà sembrava aver messo in secondo piano e che oggi invece si ripropongono all’attenzione degli elettori con tutte le incognite e le riserve del caso.

In quest’opera l’autore si presenta come un medico che redige una diagnosi accurata dei mali di una destra che, dopo vent’anni di berlusconismo, appare stanca anche se non ancora priva di una certa vitalità e capacità propositiva. E, come ogni medico che si rispetti, Bozzi Sentieri appare altresì in grado, tra un capitolo e l’altro e nelle conclusioni a margine delle sue esposizioni spesso crude ed icastiche delle condizioni in cui versa la destra italiana, di delineare una o più possibili cure, senza mai trascurare il versante intellettuale di quella che egli stesso definisce una “battaglia culturale”, ai fini della quale non esita, in maniera alquanto provocatoria, a riproporre a destra una strategia di un’ “egemonia culturale” ispirata alle idee di un “mostro sacro” della sinistra marxista-leninista italiana del XX secolo, e cioè Antonio Gramsci.

Pur costituendo infatti un compendio di considerazioni e prese d’atto di carattere politico, “La destra nel labirinto” è soprattutto e in ultima istanza un manifesto culturale e ideologico, come del resto appare evidente nel primo capitolo in cui l’autore ripercorre l’iter intellettuale di molti giovani dell’area nazional-popolare degli Anni Settanta e Ottanta, divisi tra la lucida ed equilibrata “Rivolta contro il Mondo moderno”di Julius Evola, con il suo ideale di uomo integrale in piedi tra le rovine, e l’appassionato romanticismo politico del socialismo fascista di Pierre Drieu la Rochelle, tra le suggestioni jüngeriane della mobilitazione totale e del “Trattato del Ribelle”e le categorie schmittiane di amico e nemico e del politico.

Un itinerario,quello ricordato dall’Autore, in cui non pochi lettori potranno certamente ritrovarsi ed identificarsi e che li aiuterà, fidandosi di lui, a seguirlo meglio nella trattazione degli argomenti forse più contingenti e meno elitari, ma di sicuro valore pragmatico e strategico, di cui si compone un testo che, come resoconto dei recenti sviluppi politici inerenti alla destra italiana, si presenta alquanto completo ed esaustivo.

Con l’invito di fondo a non commettere gli identici errori commessi del passato, uscendo finalmente fuori dal “labirinto” delle contraddizioni in cui, nel corso degli anni, la destra si è persa, perdendo spesso le ragioni stesse della propria esistenza.

Segnaliamo che martedì 27 maggio alle ore 17.00 a Roma, nell’Aula Magna di Palazzo Sora (Corso Vittorio Emanuele II n. 217), presso il Sindacato Libero Scrittori Italiani, verrà presentato il volume di PRIMO  SIENA, “Giovanni Gentile. Un italiano nelle intemperie”, ed. Solfanelli.

Relatori:  Gaetano Rasi, Lino Di Stefano e Giuseppe Spadaro, modera  Francesco Mercadante.

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