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da ilprimatonazionale.it

Roma, 9 mag – Questo 8 maggio – giorno della resa della Germania – cade il 70esimo anniversario di quella che è stata definita la “Finis Europae”: fine non solo della Germania, dell’Italia e delle nazioni loro alleate, ma anche del potere globale delle “vincitrici” Francia e Inghilterra, rapidamente eclissato negli anni seguenti da USA e URSS.

Fine evidente più che mai in questi mesi, con una “Unione Europea” completamente divisa in ogni campo e una Russia sempre più isolata, e che festeggerà il suo anniversario della fine della Grande Guerra Patriottica il 9 maggio boicottata da quasi tutte le nazioni occidentali, con presenti invece Cina, Cuba e una schiera di nazioni in via di sviluppo, parterre che ci sembra far tornare all’apice della Guerra Fredda.

Ma tornando a settanta anni fa, non tutti deposero le armi alla fine ufficiale delle ostilità.

Iniziamo con l’Italia: se il 25 aprile 1945, giorno dell’Insurrezione proclamata dal CLN, viene comunemente usato come data della fine della guerra in Italia, e il 28 aprile Mussolini viene assassinato a Giulino, sono decine le unità della RSI che continuarono a combattere contro partigiani e Alleati.

Ricordiamo infatti i reparti della Divisione Decima schierati sul “Fronte Sud”, tra il Senio e Comacchio, sul settore orientale della Linea Gotica: i Battaglioni Lupo, Barbarigo, Freccia e gli artiglieri del Colleoni, infatti, ripiegarono combattendo ben oltre il 25 aprile contro inglesi, partigiani e badogliani del “Cremona”, marciando verso nord per cercare di rischierarsi sul confine orientale contro l’avanzante IX Korpus di Tito, passando il Po con mezzi di fortuna; e sulla riva nord di questo fiume combattevano gli adolescenti delle Fiamme Bianche, assegnati come artiglieri ai pezzi Flak da 88 mm capitanati da veterani tedeschi alla Divisione Etna della GNR. Testimonianza d’archivio del coraggio di questi “ragazzi del 99” del Fascismo, un rapporto post operazione dell’esercito americano citerà che “l’attraversamento del Po fu ostacolato dal tiro preciso di 88”: erano quei ragazzini ai loro cannoni, che li caricavano e sparavano tra la pioggia di granate e bombe al fosforo dei cacciabombardieri nemici. Nonostante i loro sforzi, la strada dei marò della Decima fu tagliata dai reparti corazzati nemici, costringendoli ad accettare la resa con l’onore delle armi presso Padova il 29 aprile 1945.

Nel settore occidentale e centrale della Linea Gotica ripiegarono combattendo aliquote della Monterosa e della Italia dalla Garfagnana e della San Marco dall’Abetone, assieme a unità bersaglieri e altri reparti dell’Esercito Nazionale Repubblicano e della GNR, e i giovanissimi Arditi del Battaglione Forlì, aggregati alla 278. Infanterie-Division e ritenuti dal Generale comandante, il prussiano Harry Hoppe, tra i suoi soldati migliori. Anche per essi, la fine della guerra fu il 29 aprile, vicino a Rovigo, dopo un durissimo combattimento di ripiegamento contro l’enorme superiorità terrestre e aerea Alleata.

A Piacenza, si svolse invece l’ultimo combattimento tra carri della campagna d’Italia, quando alcuni carri medi Ansaldo M 14, mezzi obsoleti ma con carristi eredi dello spirito di El Alamein, affrontarono con i loro pezzi da 47 mm un numero di gran lunga superiore di carri Sherman, pesanti il doppio e con cannoni da 76 mm, riuscendo a fermare per un’intera giornata l’avanzata americana, grazie anche al sacrificio di una compagnia di SS italiane che distrusse alcuni degli Sherman, seppur venendo quasi annientata durante i combattimenti successivi.

Diverso settore ma simile epopea la vissero gli uomini della base ovest dei mezzi d’assalto di superficie della Xa MAS e i militari della RSI in ripiegamento dal ponente ligure, tra Imperia e Savona, assieme ai marinai della Kriegsmarine e ai granatieri tedeschi della 34. Infanterie-Division del generale Lieb. Direttisi verso nord, sfondarono ogni sbarramento partigiano dall’Appennino Ligure al basso Piemonte, cedendo le armi solo agli Alleati nella zona di Ivrea l’8 maggio 1945, dopo aver percorso centinaia di chilometri, mentre un troncone della San Marco, partito sempre dal ponente Ligure, aveva puntato invece verso Novara; il suo Gruppo Esplorante, gli Arditi specialisti della controbanda del colonnello Marcianò si sciolsero a Magenta il 1° maggio, Ecco la testimonianza di Luigi del Bono, ufficiale medico della Xa:

Venne l’immancabile prete con tre personaggi del CLN. Parlarono col Comandante. Erano disposti a darci un salvacondotto per tornare alle nostre case, purché ci arrendessimo ai partigiani consegnando le armi. Il nostro Ufficiale fu di poche parole e rifiutò. Mostrò al gruppetto le postazioni delle mitragliatrici, i marinai di guardia sul muro di cinta e le vedette coi binocoli sull’altana della villa. Il terzo giorno arrivarono un Maggiore e due Capitani americani. Parlamentarono a lungo. Disse il più anziano in perfetto italiano: “Sappiamo che avete fatto degnamente, fino in fondo, il vostro dovere di soldati. Fra due giorni consegnerete le armi pesanti. Con i vostri autocarri e le armi leggere vi recherete in una località a dieci chilometri da qui. Avrete l’onore delle armi da parte di un nostro reparto. Entrerete poi in campo di concentramento”. Sbattere di tacchi, saluti e se n’andarono. Il tempo si manteneva al bello. Un tiepido sole, alberi in fiore. Il parco centenario pieno di uccelli. Due giorni prima di lasciare per sempre la villa, ci fu la cerimonia di addio coi camerati della Marina tedesca. Sullo spiazzo erboso, fra statue barocche, il nostro reparto schierato in armi. Al centro la bandiera tricolore della base Mas. Di fronte una Compagnia tedesca di marinai con trombe e tamburi. Tre squilli di tromba. Si presentò con passo marziale il Generale Lieb (35) comandante la 34a Divisione tedesca, con la quale avevamo compiuto tutta la ritirata, accompagnato da un Capitano di Corvetta. Parlò brevemente ringraziandoci per la nostra fedeltà alla bandiera italiana e all’alleato pur nella sfortuna. Rispose il nostro comandante con parole di circostanza. Rullare di tamburi. Si distribuiscono le ricompense al valore a Ufficiali, Sottufficiali e marinai della nostra squadriglia. Nel ricevere la Croce di Ferro di 2a Classe mi commossi. Pensavo agli amici morti in mare l’ultimo giorno di guerra. La morte aveva loro risparmiato il dolore della sconfitta. Partiti i tedeschi, bruciammo la bandiera tricolore. Meglio ridotta ad un pugno di cenere, che cederla agli americani come preda bellica. Cantammo per l’ultima volta, con un groppo alla gola, l’inno della Decima Mas. Verso l’orto esplosioni a non finire. Era l’Aspirante Guardiamarina con i suoi due allievi che dava fondo a una cassa di bombe a mano. L’8 maggio fu il più triste e malinconico giorno di quella primavera del ‘45. Salimmo sugli autocarri in silenzio per l’ultimo trasferimento. La contessa non si fece vedere. I suoi due figli a cavalcioni del muro di cinta sventolavano piangendo un piccolo tricolore. La colonna degli autocarri procedeva lentamente in un bosco di castagni, quasi a ritardare il momento della resa finale. Mi ero arrampicato sulla cabina di guida. Col binocolo esploravo il panorama. “Ragazzi c’é una discesa ed un grande spiazzo. Un reparto americano con bandiera e molta folla…”. Mario fece una risata: “Quella gente ci aspetta per sputarci addosso…”.

Più a ovest, i granatieri della divisione Littorio continuarono a opporsi ai tentativi di penetrazione francesi e americani oltre le Alpi Marittime oltre il 25 aprile, e il loro generale comandante, Tito Agosti, piuttosto che farsi processare da “un branco di traditori”, si suiciderà in carcere nel 1946, e a levante di Genova reparti della San Marco e Monterosa si arresero solo il 27 aprile, dopo essere riusciti precedentemente a sfuggire agli americani distruggendo all’imbocco della galleria della Ruta di Camogli uno Sherman americano con un aggiustato colpo di controcarro Pak 40 da 75 mm.

Per i reparti della RSI di Alpini, Militi, Bersaglieri e marò in Istria e Dalmazia, impegnati nella lotta senza quartiere contro i partigiani slavi, arrendersi invece poteva solo significare una fine orrenda nelle foibe o una prigionia in condizioni inumane. Non stupisce che questi soldati italiani, isolati all’estremo confine d’Italia, preferirono spesso combattere sino all’ultimo uomo, con reparti che cessarono di combattere solo ai primi di maggio del 1945.

Nel resto dell’Europa, anche dopo la morte di Hitler e la caduta di Berlino il 3 maggio 1945 i combattimenti continuarono sulla costa atlantica della Francia, dove le Festung (“fortezze”) delle città costiere di Lorient, La Rochelle, Saint Nazaire e Dunkerque, circondate da forze americane e francesi sin dal giugno-luglio 1944 erano riuscite a tenere duro per lunghi mesi, non solo tenendo impegnate le unità avversarie assedianti: le truppe dell’ammiraglio Frisius della Festung Dunkirchen condussero in una occasione una offensiva limitata tale da causare una crisi momentanea del comando Alleato, che diede l’ordine di far saltare i ponti adiacenti alla sacca. Tutte queste Festung si arresero addirittura giorni dopo la capitolazione tedesca, cedendo le armi agli Alleati tra il 9 e l’11 maggio. Comandate quasi tutte da ufficiali della Kriegsmarine, avevano cancellato così l’onta della Marina Imperiale alla fine della prima guerra mondiale, quando molti marinai si erano ammutinati, sobillati dalla propaganda spartachista.

Lo stesso fecero i reparti tedeschi di presidio nelle isole della Manica inglesi di Guernsey e Jersey, che deposero le armi ben dopo la resa della capitale del Reich, e solo quando fu ufficiale la capitolazione della Germania l’8 maggio. Anche in questo caso, i marinai e soldati tedeschi non si limitarono a tenere le loro posizioni, ma nella notte tra l’8 e il 9 marzo 1945, con un vero “furto con scasso”, attaccarono il porto francese di Granville con una “Invencible Armada” formata da qualche dragamine, una motosilurante senza siluri e alcune chiatte, mettendo fuori combattimento un pattugliatore americano, danneggiando navi da carico e strutture portuali, e portandosi via un mercantile carico di carbone e prigionieri americani e soldati tedeschi liberati dalla prigionia Alleata!

Nell’Egeo, presidi e guarnigioni tedesche isolate, come quella di Creta, rimasero anche essi in armi fino alla fine.

In Germania, nelle zone occupate da americani e inglesi, i reparti speciali SS e del Werwolf compirono operazioni di propaganda psicologica e attentati sia contro le truppe nemiche che contro i tedeschi antinazisti “collaboratori” delle autorità d’occupazione, e resistettero spesso anche dopo la fine aprile-inizio maggio 1945.

Sul fronte orientale, continuarono a combattere le unità tedesche e europee a nord, sud e sudest, dall’Elba alla Boemia-Moravia, come pure proseguirono la lotta le divisioni accerchiate in Curlandia, che si consegnarono ai sovietici solo dopo la diffusione della dichiarazione di resa del Grand’ammiraglio Dönitz l’8 maggio 1945, e i volontari delle SS estoni, lituani e lettoni; questi ultimi, “andati nella foresta” nei paesi baltici, diedero filo da torcere ai sovietici con una disperata lotta di guerriglia durata per anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, fino a che furono tutti uccisi o deportati.

Ricordiamo infine l’esodo di massa della popolazione tedesca – milioni di persone – dalle province orientali, e la titanica operazione di soccorso montata dalla Kriegsmarine con ogni nave disponibile, partendo dai porti del Baltico incendiati dai bombardamenti e difesi da quel pugno di Panzer e Grenadiere, ultimi resti della una volta potente Wehrmacht, per salvare donne, bambini e anziani tedeschi dalle atrocità dell’Armata Rossa, iniziata alla fine del 1944 e proseguita ancora alcuni giorni dopo la dichiarazione di resa.

Andrea Lombardi

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