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da Il Giornale – di Luca Gallesi

I n occasione del settantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, l’instancabile liturgia resistenziale ci ha consegnato l’ennesimo quadretto oleografico di un’Italia che esce vittoriosamente dal conflitto, dopo aver sbaragliato, grazie all’insurrezione di tutto il popolo, il barbaro invasore tedesco.

Per inconfessabili scopi di bassa politica si continua quindi a recitare la farsa di una sconfitta militare trasformata in vittoria e di una tragedia convertita in festa; il 25 aprile si celebra una ricorrenza che, invece di invitare gli italiani a voltare pagina consegnando la guerra civile alla memoria storica, rinfocola ataviche ostilità e riapre antiche ferite, sostituendo la propaganda alla storia. Fortunatamente, le nuove generazioni di storici e ricercatori sembrano meno disposte a piegarsi alle esigenze della retorica, come dimostra un libro appena pubblicato da Laterza, Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-1948 (pagg. 180, euro 20), scritto da Michela Ponzani, collaboratrice dell’Istituto storico germanico di Roma, consulente dell’Archivio storico del Senato e già autrice di numerosi saggi sulla Resistenza e sull’Italia repubblicana. Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: la Ponzani non è affatto revisionista, non ha alcuna simpatia per la destra o, peggio, per il fascismo, e rivendica la sua convinta adesione ai valori della Resistenza, che l’hanno ispirata e guidata nelle sue ricerche. Ma è nata nel 1978, e, probabilmente, il dato anagrafico l’ha aiutata a evitare l’adesione ai frusti cliché dell’antifascismo militante.

I Figli del nemico analizza, con un approccio scientifico, il destino dei numerosi bambini, spesso illegittimi, nati dalle relazioni tra soldati tedeschi e donne italiane, oppure da internati italiani e donne tedesche, che, coinvolti dalla tragedia bellica, hanno trovato il modo di restare umani aggrappandosi al sentimento più naturale che esista, quello dell’amore, o presunto tale, i cui frutti recano un marchio infamante. È il caso di Francesca O., nata il 10 novembre 1944 a Bologna, da un padre tedesco che non ha mai conosciuto, perché tornato dalla sua fidanzata tedesca. Francesca ha cercato di rimuovere l’esistenza del suo «vero padre», ma solo quando ha saputo che stava morendo, si è sentita priva del marchio infamante di figlia della colpa. Di segno opposto, invece, la storia dei figli di Alfred, un SS di vent’anni che si innamora di Anita, da cui ha tre figli, che, amati e riconosciuti, cresceranno forti e uniti, nonostante il cognome – e le fattezze – straniere. Certo, come avverte l’autrice nell’introduzione, nella maggior parte dei casi si tratta di incontri fugaci, di «amori di guerra» che soddisfano un momentaneo bisogno d’affetto o di protezione, e che forse svaniranno col ritorno alla normalità. Le conseguenze di quelle relazioni, però, non potranno essere rimosse, e i destini dei bambini saranno molto diversi, a seconda dell’appartenenza dei padri alle schiere dei vincitori o a quelle dei vinti. Nel primo caso, parleremo di «spose di guerra», che si sono concesse ai liberatori inglesi o americani, assurgendo, nell’immaginario resistenziale, a una condizione di rispettabilità sociale quasi pari a quella delle eroine partigiane che, invece del corpo, hanno donato alla giusta causa il loro sangue. Nel secondo, invece, si tratterà di «donne disonorate» e «figli della colpa», a cui andrà tutta la riprovazione sociale e il disprezzo della comunità. La Ponzani ricostruisce le loro storie, che, sono parole sue, non hanno «nulla a che vedere con quel canone patriottico-onorevole di stampo risorgimentale che vede incerarsi il senso di rispettabilità degli italiani nell’odio e nella distanza dal tedesco invasore». Viene quindi smontato anche un altro stereotipo, quello della donna amante del tedesco, che deve necessariamente essere una collaborazionista, laddove le relazioni tra donne italiane e soldati del Reich sono spessissimo legami d’amore destinati a durare anche dopo la guerra; infatti, contrariamente alle versioni della propaganda, i militari tedeschi dislocati sul fronte italiano non sono barbari assetati di sangue, ma individui civili «entusiasti di vivere in un vero e proprio museo a cielo aperto», e non si capacitano, come scrive a casa un caporale dislocato in Lazio, del fatto che «gli abitanti di una città moderna e intrisa di storia come Roma non si rendono conto della bellezza della loro città». Al contrario, le truppe alleate che risalgono la Penisola distruggono tutto e bruciano i cadaveri dei tedeschi, mentre i magrebini aggregati al corpo di spedizione francese uccidono e violentano migliaia di donne, «ben 2000 solo nel paese di Ceprano, di cui 1500 contraggono la malaria e 800 si troveranno in stato di gravidanza».

Il mito del tedesco freddo e crudele, invece, deve essere mantenuto sempre, dato che l’Italia «ha un bisogno assoluto di ricostruire la propria immagine nazionale con la rimozione assoluta dei rapporti che l’Italia ha stabilito, dagli anni Trenta in poi, con la Germania nazista». E quindi vanno rinfocolate le rappresentazioni del «cattivo tedesco» come nemico del genere umano, «recuperando persino narrazioni che risalgono alla tradizione antiaustriaca ottocentesca». Ma «le narrazioni pubbliche di guerra, in un’Italia che si presentava come vittima del fascismo, non hanno affatto aiutato a guarire la società ma, invece, hanno avuto un effetto distorsivo sull’evoluzione delle memorie legate alla storia nazionale».

Tra le pagine, ricchissime di dati e di informazioni preziose sulle vittime più innocenti di un conflitto, quei bambini orfani o abbandonati alla carità pubblica o, più spesso, religiosa, emerge, quasi inconsapevolmente, un auspicio, che dovrebbe sostituire la retorica resistenziale: «Uscire dal silenzio, superando il trauma dei giorni del conflitto, rompere con un passato di odio allontanando da sé il peso della discriminazione, inducendo a ricordare anche tutti quei tedeschi caduti sul fronte di guerra italiano, le cui spoglie non saranno mai restituite alle rispettive famiglie».

Ecco, questo atto pietoso sarebbe una degna celebrazione della fine di un conflitto: si liberano i prigionieri e si seppelliscono i morti. E si ricomincia a vivere.

 

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