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da Il Giornale d’Italia

“Nessuna ingratitudine, nessuna crudeltà umana potranno più raggiungere Benito. Così avrà dato tutto all’Italia, persino la sua vita”

“Così passano le ore in un indicibile tormento, poi le notti, i giorni vedendo solo barbarie fratricida. Ad un certo momento, che non saprei precisare, veniamo fulminati dalla notizia, trasmessa alla radio, del massacro di Dongo. ‘Giustizia è stata fatta’ commentano quelle voci, e penso che nessuna ingratitudine, nessuna crudeltà umana potranno più raggiungere Benito. Così avrà dato tutto all’Italia, persino la sua vita”. Così Rachele Mussolini racconta quelle ore del 28 aprile 1945.

“La notizia dell’omicidio di mio marito aveva distrutto in me ogni volontà. Non sentivo più i rumori dei fucili attorno alla casa. La guerra civile esplodeva ovunque. I miei figli vicino a me piangevano e i loro singhiozzi rendevano ancora più acuta la mia sofferenza; mi sforzavo di lottare contro le lacrime e il dispiacere. Le ore passavano lentamente in quell’atmosfera da incubo”. Sono ore terribili per questa donna, che già tante sofferenze ha dovuto subire. E che pure trova il coraggio di affrontare la tragedia che le ha sconvolto la vita. “L’unica cosa che mi riconforta nel dolore sono le parole di Benito: ‘Gli ideali durano e trionfano al di là della morte, quando sono amati intensamente’”.

Rachele è una donna forte, granitica. Ha vissuto tutta la vita lavorando: donna del popolo dalla nascita, donna del popolo è rimasta per tutta la vita; anche quando era “la moglie del Duce” cuciva i suoi vestiti con le sue mani, educava i suoi figli con il rigore dell’essenzialità, senza lussi, senza fronzoli. L’alta società non l’ha mai affascinata, del resto Benito aveva sempre fatto lo stesso, tutto preso dal lavoro. Gente che conosce la fatica ed il dovere, e il valore del lavoro.

Sono ore tragiche, inimmaginabili per questa donna che da sola deve affrontare un lutto tanto grande, badare a crescere i suoi figli e superare le infamità che le riserverà quel popolo che il Duce aveva sempre servito e al quale aveva sacrificato la sua stessa vita.

“Mi consultai con i ragazzi e fummo d’accordo nel porre termine a quella situazione equivoca, facendo annunciare la nostra presenza al comitato di liberazione di Como – continua a raccontare Rachele – Subito, tre uomini si presentarono per perquisire. M’imposi la calma per non far perdere il coraggio ai miei figli, ma non serbavo più illusioni sulla nostra sorte. L’ispettore esaminò attivamente le mie poche valigie mentre un giovane partigiano s’impossessava di una miniatura di Bruno che non lasciavo mai; chiaramente allettato dalla cornice che gli sembrava d’oro, gridò: ‘Questo appartiene al popolo!’. ‘Tutto appartiene al popolo – risposi io guardandolo negli occhi – ecco perché noi gli abbiamo dato sempre tutto e lui, mio figlio, ha sacrificato la sua vita’. L’ispettore intervenne e mi fece restituire la miniatura scusandosi”.

Rachele fa appello al vescovo di Como, affinché si prenda cura dei figli, ma il prelato si rifiuta di assumersi la responsabilità di ricevere in custodia Romano ed Anna Maria. I ragazzi vengono separati dalla mamma, che viene inviata in una cella del carcere femminile di Como: “Nel disordine che regnava ovunque, il mio arrivo passò inosservato; quelle donne mi guardavano appena, occupate com’erano a raccontarsi per la centesima volta la storia del loro arresto. Una sola, che mi lanciò un’occhiata stupefatta, gridò: “Voi qui?”. Con un gesto la pregai di tacere; si mise a piangere in silenzio. Di quando in quando qualche notizia dall’esterno filtrava fino a noi. Il massacro si estendeva e cresceva con una furia spaventosa. Uomini, donne, bambini, cadevano sotto i colpi degli assassini solo per essere sospettati di essere fascisti. Di tanto in tanto sentivamo risuonare nel cortile un triste appello seguito da una scarica. Poi una pausa in cui scricchiolavano le ruote di una carretta, e l’appello riprendeva. Durò tutta la notte […] In quell’inferno conservavo una calma che stupiva gli altri. Mi chiedevano: ‘Voi non piangete? Non siete stata separata da nessuno?’. Ma il dolore, quando raggiunge il culmine, toglie il sentimento alla realtà […] Visto che Benito non mi avrebbe più rivisto, la morte non mi faceva più paura, ma pensavo ai miei figli, trascinati solo Dio sa dove”.

È il dramma di una donna, una delle più coraggiose che la storia d’Italia ricordi. Che ha portato sulle spalle il peso di una storia tanto grande e che ad essa è sopravvissuta. Il destino, che muove i suoi fili a volte inspiegabilmente, ha voluto lasciarla su questa terra per molti anni ancora, forse affinché potesse raccontare quella storia ed essere prezioso punto di riferimento per chi sarebbe arrivato dopo.

Emma Moriconi

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