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Tratto da Il Giornale

L’Ilva, la fabbrica che produce acciaio con base a Taranto, è un caso perfetto per raccontare l’atteggiamento schizofrenico che abbiamo nei confronti del garantismo. Lo invochiamo in ogni dove, ma pensiamo di applicarlo solo ai nostri amici. Fino a questo momento non c’è una, che sia una, sentenza che decreti gli effetti inquinanti del complesso industriale. Non c’è una sentenza che certifichi le colpe dei suoi proprietari e dei suoi manager. Non c’è una sentenza che dimostri la frode fiscale della famiglia Riva. Il solo porsi una domanda sulla correttezza delle tesi accusatorie sembra sacrilego. Eppure nell’immaginario collettivo Taranto è come Chernobyl, i Riva come Al Capone e i dirigenti della fabbrica dei complici in disastro ambientale. Esageriamo? Sentite qua. La fase delle indagini preliminari (che è quella in cui siamo) ha portato alla carcerazione preventiva da un anno, tra gli altri, di Emilio Riva. I magistrati hanno sequestrato le aree a caldo (il cuore) dell’acciaieria. E, sempre in misura cautelare, hanno sequestrato anche un miliardo di suoi prodotti finiti. Una legge fatta dal governo Monti e che avrebbe permesso all’impresa di lavorare è stata bloccata dai magistrati di Taranto con un ricorso alla Corte costituzionale. Perso il ricorso, i magistrati otterranno più o meno lo stesso effetto grazie ad un sequestro monstre di 8,1 miliardi in capo all’azienda. In cui i capi reparto della fabbrica vengono accusati di complicità in reati ambientali. Per sovrammercato, un’altra Procura ha imputato ai medesimi Riva una frode fiscale di 1,2 miliardi. Tutto da dimostrare, davanti ad un giudice di primo grado. E poi, eventualmente, su per li rami della nostra giustizia. Nel frattempo, il governo Letta per tenerla in piedi ha dovuto commissariarla, un escamotage pericolosissimo per chi non considera la proprietà privata un furto.
L’Ilva è diventata il male assoluto. Questo articolo procurerà a chi scrive minacce e insulti di ogni tipo. Ma chiediamo soltanto e laicamente una cosa: siamo sicuri? Siamo certi? L’Ilva, i Riva e i loro dirigenti sono davvero indifendibili. La Confindustria fischietta e ci racconta le solite menate sindacali buone per un convegno a via Ripetta. Un suo uomo del Nord scriveva ad uno dei potenti vicepresidenti romani: «Sull’Ilva dobbiamo fare un casino. Ne va del futuro manifatturiero del nostro Paese. Una Confindustria seria dovrebbe capire che non si può bloccare un settore che vale 7 miliardi. Rischiamo un nuovo caso Fastweb, doveva essere la truffa del secolo e poi si è rivelata un robetta». La risposta del notabile romano: «Appunto. Una Confindustria seria».
L’Ilva è in coma. Ma ciò che in Italia è morto è un minimo senso garantista verso persone e cose oggetto di una così invasiva attività giudiziaria. Per poi ritrovarci tra qualche anno a piangere sulla perdita di un settore industriale strategico e magari con sentenze definitive che ridimensioneranno colpe e pregiudizi.

Carissimi Amici,

vi riporto le considerazioni del dott. Cassano davanti alla tragedia industriale che sta vivendo il Gruppo Riva Ilva e tutti i fornitori e dipendenti, dopo che la magistratura ha sequestrato la cassa della holding Riva Fire bloccando di fatto qualunque movimento finanziario dell’intero gruppo,nessun fornitore da questo fine mese è stato pagato con il rischio che in pochi giorni si arrivi a una reazione a catena di fallimenti/concordati, vista la notevole mole di denaro che si sposta nella vendita del rottame e materie prime della Siderurgia, ci si augura che nei prossimi giorni le associazioni di categoria, le istituzioni intervengano immediatamente per evitare un disastro che potrebbe creare un effetto domino con conseguenze catastrofiche, in una situazione  economico, finanziaria, sociale italiana  già gravissima .

Carlo Alberto Biggini

Siamo in molti a rimanere attoniti dalle vicissitudini che stanno attraversando i Riva. Ora si apprende che l’ultima azione di sequestro della “Magistratura?” ha reso impossibile per tutto il gruppo il pagamento puntuale delle scadenze del mese, causando nel mercato una comprensibile anche se immotivata apprensione.

Certo bisogna considerare che tali situazioni stanno pesantemente compromettendo non più solo i mercati riguardanti l’Ilva e Taranto, ma tutto il ns. comparto da nord a sud, tutta la siderurgia italiana, il commercio interno e le transazioni con l’estero.

Tale follia a cosa mira e a cosa ci porterà? Ci si rende conto che le accuse, le condanne già pronunciate e le pene già inflitte anche se non si è neanche ancora aperto il processo, stanno “uccidendo” non solo i Riva ma anche tutti i ns. già fragili equilibri e bilanci?

Cosa possiamo fare per farci ascoltare e per ottenere un minimo di ragionevolezza dai “potenti”? Da quel potere che ormai rimane l’unico a disporre come meglio crede delle nostre vite e dei nostri soldi e che non deve rendere conto a nessuno delle proprie azioni?

Oltre al carattere di sfogo personale, questa mail cerca di essere anche uno stimolo per tutti a meditare se è veramente arrivato il momento di compiere azioni incisive per ottenere qualche risultato, oppure se rimane qualche spiraglio per la discussione e il ragionamento.

La smettiamo di farci prendere in giro da dei mascalzoni ? Stanno distruggendo le ns. ambizioni e polverizzando il futuro dei ns. figli ! Rimarrà qualcuno in Italia a cui continuare a rubare e infierire?

Cosa pensa in proposito la ns. Associazione Assofermet ? Quali azioni pensa di intraprendere per arginare il disastro?

Resto in attesa di Vs. urgenti considerazioni.

Dott. Giovanni Cassano

Incontri nella Terra di Mezzo, il nuovo libro del Prof. Primo Siena. Clicca sull’immagine per ingrandire

E’ invece dello scorso anno la Perestroika di Mussolini, pubblicazione nella quale si parla ampiamente del Prof. Biggini. Clicca sull’immagine per ingrandire

Certamente il mondo resterebbe, per usare un eufemismo, meravigliato se i giornali, i telegiornali, i twitter annunciassero che Papa Francesco ha dichiarato guerra.

   Eppure, fin dalla sua elezione, nei suoi discorsi, nelle sue omelie è ricorrente il tema della guerra, della guerra al diavolo, con il quale, ancora recentemente, ha dichiarato, in modo perentorio, che non ci può essere dialogo, e che, non senza ironia, ha definito un “cattivo pagatore”.

   Proprio su questi temi della predicazione di Papa Francesco è uscito, sull’Osservatore Romano, un bell’articolo il 4 maggio scorso di Inos Biffi, il quale ha messo in evidenza come il Nuovo Testamento, non solo i Vangeli, ma le Lettere paoline, le Lettere di Giovanni, l’Apocalisse, sia tutto caratterizzato proprio dalla rappresentazione di questa grande battaglia, che è iniziata prima della storia e si prolungherà fino alla fine dei tempi.

   Ancora prima della sua elezione a Vescovo di Roma, l’allora Cardinale Bergoglio, a proposito delle proposte di legge sul matrimonio omosessuale, le attribuiva all’invidia del demonio, attraverso la quale – così scriveva ai monasteri carmelitani di Buenos Aires – il peccato entrò nel mondo: “un’invidia che cerca astutamente di distruggere l’immagine di Dio, cioè l’uomo e la donna che ricevono il comando di crescere, moltiplicarsi e dominare la terra”.

   In altre parole non si trattava, per il Cardinale Bergoglio, di una battaglia politica, ma del tentativo distruttivo del disegno di Dio, tentativo voluto dal demonio per confondere e umiliare gli uomini.

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signoraggioSo bene che chi scrive su questo argomento (il signoraggio) rischia la vita. Perché?  Leggete avanti.

Quante volte ho confessato che di  economia ne capisco poco. Tuttavia, quando in un giorno del 2003 mi fu chiesto di organizzare un MANIFESTO DEL XXI SECOLO, aderii con entusiasmo, con l’idea di riaccendere quella fiamma che animò tanti uomini e donne, in quel 14 novembre 1943, quando a Castelvecchio a Verona si celebrò il congresso del Partito Fascista Repubblicano. E in quel contesto vennero fissati i punti cardini di un Manifesto che avrebbe dovuto essere la premessa della nuova Costituzione dello Stato Repubblicano. Poi fummo sopraffatti dalla più grande coalizione liberal-capitalista e l’idea della socializzazione dello Stato andò a morte prima della nascita.

Ma torniamo al 2003. Quando mi fu affidato l’incarico contattai Rutilio Sermonti, Alberto Spera, Stelvio Dal Piaz, Carlo Morganti e, Manlio Sargenti che essendo lontano e piuttosto malato non poteva intervenire direttamente, tuttavia mi garantì l’assistenza. Tutti aderimmo con entusiasmo. Ho tralasciato di ricordare, a ragion veduta, la presenza attiva di Giacinto Auriti. Così nacque il Manifesto del XXI secolo. “Ho tralasciato”, come ho scritto, “a ragion veduta”, la collaborazione di Giacinto Auriti perché in quel periodo di economia ne capivo ancor meno di quanto ne capisco oggi. Quando questo maestro (Giacinto Auriti) mi parlava di signoraggio, non lo capivo e, probabilmente non capivo perché mi sembrava impossibile (come mi sembra impossibile ancora oggi) che una truffa di questa portata possa aver preso vita senza che gli organi di uno Stato, che si dice dei diritti e della libertà, non sia intervenuto (e ancora oggi non interviene) a bloccare quella che alcuni sostengono essere la più grande truffa mai perpetrata.

Per essere più chiari riporto il Punto 13 delle Proposte ideali, voluto e imposto proprio dal (Grande) Giacinto Auriti: <Il popolo crea la ricchezza col proprio lavoro. La moneta nasce dunque di proprietà dei cittadini. Essa è di proprietà del popolo e la sovranità di essa appartiene al popolo>. Inutile ripetere che allora, in quel contesto, mi sembrava fissare un punto di grande ovvietà. Invece… Sì, invece approfondendo l’argomento ho cominciato (finalmente) a capire qualcosa.

Qualche giorno fa ho ricevuto una mail da Excalibur Italia contenente un articolo di Gianfredo Ruggiero, articolo dal quale riporto molti concetti.

Gianfredo Ruggiero inizia ricordando che all’origine del debito pubblico (chiamiamolo  così, anche se questo è il frutto della grande truffa), che ha generato nei conti dello Stato una voragine in continuo aumento, vi è un meccanismo ben congeniato definito “signoraggio”.

(altro…)

Verso una Assemblea costituente

Il CESI sta terminando il lavoro di elaborazione di un Appello agli italiani per una nuova Costituzione e di un Manifesto per la rifondazione dello Stato. Ne uscirà un volume articolato, non solo nelle proposte di indirizzo, ma anche in numerosissime e corpose note esplicative.

Non si tratta di una bozza di articolato per la necessaria nuova Costituzione, che dovrà sostituire quella superata del 1948, ma una serie di sostanziosi indirizzi tali da focalizzare le problematiche incombenti ed indicare i contenuti del lavoro di una Assemblea costituente.

Sull’argomento pubblichiamo un articolo del Consigliere CESI, Innocenzo Cruciani, noto giornalista già direttore per lungo tempo del Giornale Radio Rai ed ora Presidente della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo.

In esso, Cruciani delinea il travagliato ed inutile percorso della classe dirigente partitocratica che per decenni ha tentato di affrontare le necessarie riforme costituzionali, senza però essere capace di dare quei risultati che già da tempo erano indispensabili e che ora finiscono per essere inutili persistendo l’attuale sistema politico.

 

(G.R.)

 

Necessità di una fase costituente

 

 

Strutturale incapacità riformatrice

dell’attuale sistema politico

di Innocenzo Cruciani

Una questione più di tante altre salda la storia della prima repubblica a quella attuale  della seconda repubblica o repubblica di mezzo: la pertinace riluttanza a fare le riforme, la latitanza dei partiti dinanzi alla necessità di aggiornare le regole dello stare insieme.

Il cronista, o lo studioso, che voglia ricostruire la vicenda delle riforme mancate, negate oppure omesse si trova a percorrere una sentiero tortuoso lastricato di dichiarazioni solenni, di buone intenzioni, di

appuntamenti mancati e di promesse non mantenute, mentre circoli politici e costituzionalisti continuano a dividersi tra quanti considerano la Costituzione moderna e intoccabile e quelli che invece la giudicano datata , in ritardo, inadeguata a garantire l’agile funzionamento di una grande democrazia europea.

C’è oggi più di ieri una pressante richiesta di riforme che viene dai settori produttivi della società: una domanda di riforme grandi e piccole, capaci di riscrivere le norme che disciplinano il funzionamento della democrazia, di allentare i vincoli che rallentano e in troppi casi bloccano lo sviluppo, di favorire chi vuole fare impresa e creare occupazione e ricchezza.

Che qualcosa non funzioni e abbia urgente bisogno di revisione lo dice con parole nette anche colui che della Costituzione è il supremo custode, il presidente della Repubblica. Nel discorso del giuramento che ha segnato l’inizio del suo secondo mandato, Napolitano ha definito  “imperdonabile il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e  mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario”. I tentativi di modificare la Carta sono stati puntualmente vanificati dalla “sordità” delle forze politiche. Neppure la grave crisi economica e sociale che attraversiamo ha smosso i partiti e “hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi: ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento”.

La critica che il presidente della Repubblica ha rivolto al “tabù” del bicameralismo, questione dibattuta da decenni,  trova conferma nel documento preparato dai “saggi” messi al lavoro dal Quirinale mentre Bersani girava a vuoto attorno al tentativo di comporre una maggioranza ignorando i rapporti di forza parlamentari.

 

Scrivono i “saggi”: “Il gruppo di lavoro ritiene che l’attuale modello di bicameralismo paritario e simmetrico rappresenti una delle cause  delle difficoltà di funzionamento del nostro sistema istituzionale. A tal fine propone che ci sia una sola Camera politica  ed una seconda Camera rappresentativa delle autonomie regionali (Senato delle Regioni)”.

Mentre ascoltavamo nell’aula di Montecitorio il discorso di Napolitano, la mente ripercorreva la sequela degli appuntamenti mancati, il lungo elenco delle riforme promesse e poi omesse.

Errori ed omissioni vanno distribuiti tra i partiti, a cominciare da quelli “storici” che hanno condotto il gioco nella prima Repubblica. Fu per il centrodestra un errore grave la decisione di ribaltare il tavolo della Bicamerale costituita nel 1997 e presieduta da D’Alema.

Il 24 gennaio 1997 venne promulgata la legge costituzionale che prevedeva l'”Istituzione di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali”. Alla presidenza , oltre a D’Alema, furono eletti tre vice presidenti: Leopoldo Elia (PPI), Giuliano Urbani (Forza Italia), Giuseppe Tatarella (AN). Ma il 1 febbraio 1998 Berlusconi sconfessa la Bicamerale e chiede un cancellierato con sistema proporzionale. Il 9 giugno il presidente della Camera, Violante, annuncia all’aula che D’Alema gli ha comunicato che l’ufficio di presidenza della commissione ” ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione”.

Fu una grande occasione mancata. Si sarebbero potute fare le riforme che il paese aspettava, i partiti avrebbero  dato le risposte che la gente chiedeva, le maggiori forze parlamentari in campo si sarebbero reciprocamente riconosciute e legittimate superando così le divisioni e i sospetti che avevano circondato e intriso la Costituzione dell’immediato dopoguerra.

Ma anche a sinistra furono in molti a fare sabotaggio dietro le linee. L’antiberlusconismo ideologico fu pessimo consigliere di chi temeva di non potere più combattere Berlusconi avendolo come interlocutore e collaboratore in una epocale riforma della Costituzione. Anche in quella occasione la parola d’ordine fu “Mai con Berlusconi”.

La storia delle mancate riforme è li ad inchiodare partiti e uomini alle rispettive responsabilità. Ci provarono tra il 1983 e l’85 con la bicamerale presieduta da un galantuomo, il liberale Bozzi. Ci riprovarono nel ’93 con la bicamerale De Mita-Iotti. Poi fu la volta della bicamerale D’Alema del ’97 finita come abbiamo detto.

Ora Enrico Letta, nel discorso con cui ha presentato il governo “di servizio” o delle larghe intese, ha immaginato una Convenzione per riprendere il cammino incerto e più volte interrotto della riforma costituzionale. Al momento è difficile prevedere se ci saranno le decisioni politiche e il tempo,  nella legislatura appena cominciata, per rivedere una Costituzione pensata e scritta quando da poco era finita la guerra ma non del tutto la guerra civile.

In mancanza di risposte tempestive e concrete, chieste con insistenza per primo dal capo dello Stato, resta una sola possibilità per dare alla Nazione le regole fondamentali e far funzionare la democrazia: una Assemblea costituente che in un tempo da stabilire scriva una nuova Costituzione.

All’attenzione del Direttore di “Metronews” – Redazione di Roma

 

Nettuno, 20 Maggio 2013

Egregio Direttore,

è con piacere che ho letto l’articolo comparso oggi Lunedì 20 Maggio 2013 di Lorenzo Grassi: Pio XI: basta il “Cupolone” a salvarci dalle bombe. Al termine della lettura, la mia attenzione si è concentrata nell’articolo di corredo in basso a destra, non firmato, redazionale, dal titolo I due bombardamenti ad opera dei fascisti, in cui si ripete una falsità storica da decenni smascherata, oggetto – tra l’altro – di un mio studio (Santità, chi è stato? Bombe angloamericane sul Vaticano 1943-1944, Fondazione della RSI, Bologna 2011).

Nell’articolo si afferma testualmente: “L’obiettivo del raid voluto dal gerarca repubblichino Roberto Farinacci (come documenta il libro 1943 Bombe sul Vaticano di Augusto Ferrara) erano gli impianti di radio vaticana”. Ebbene, come ben si dovrebbe sapere, Farinacci e i fascisti della RSI non c’entrano nulla con questa triste vicenda i cui responsabili sono solo gli Angloamericani (i veri autori dei due bombardamenti) e, soprattutto, come ho evidenziato nel mio studio, il libro da voi citato, a tal proposito, non documenta assolutamente nulla. Anzi, si riproducono solo stralci di documenti che, se pubblicati nella loro interezza, avrebbero svelato il vero volto dei profanatori dei palazzi apostolici: gli Statunitensi.

La fandonia dei “bombardamenti fascisti” contro la Santa Sede – come l’altrettanto fantasiosa leggenda del progettato rapimento da parte dei Germanici del Pontefice – nasce e si sviluppa in circoli antifascisti per mere esigenze di propaganda politica. Una fandonia, come abbiamo già detto e documentato, smascherata decenni fa, ma che, di tanto in tanto, fa capolino, specie durante le campagne elettorali, dove l’obiettività è spesso vittima di manovre politiche interessate a gettare odio contro gli avversarsi.

Per amore della realtà storica, Vi prego di rettificare quanto affermato nel Vostro articolo, rimandando per ogni approfondimento al mio studio (http://campomarzio.spazioblog.it/181603/SANTITA%26%2339%3B%2C+CHI+E%26%2339%3B+STATO%3F+Bombe+angloamericane+sul+Vaticano+1943-1944.html), che si può richiedere alla Fondazione della RSI – Istituto Storico di Terranuova Bracciolini (tel. 051.24.03.41; p.e.: info@fondazionersi.org).

 

In attesa di un Vostro riscontro, invio distinti saluti.

 

 

Pietro Cappellari

Ricercatore Fondazione della RSI

Risolto un rebus che mette in luce nuovi aspetti del fascismo repubblicano nella Capitale

Il 9 Aprile 2013, durante l’annuale assemblea dei soci della Fondazione della RSI a Terranuova Bracciolini (AR), il ricercatore Emilio Scarone, impegnato in uno studio sulle Brigate Nere, ha espresso delle perplessità riguardo una foto pubblicata da Giorgio Sala, in cui erano ritratti i Militi del Battaglione “Tevere” della Repubblica Sociale Italiana, un reparto costituito nel Marzo 1945, composto da romani ripiegati al Nord dopo l’occupazione della Capitale.

Le perplessità erano sorte dopo che Scarone, scandagliando l’archivio fotografico della Fondazione della RSI, aveva ritrovato alcune foto scattate subito dopo l’attentato di Via Rasella, in cui si vedevano dei fascisti con una divisa del tutto uguale a quella del Battaglione “Tevere”, ossia giacca grigio-verde da Paracadutista, camicia nera, berretto rigido nero con teschio, fiamme pentagonali nere con lupa capitolina e gladio. Una divisa che richiamava più le Brigate Nere – costituite, però, solo nell’Estate 1944 – che un reparto della RSI operante in quella Primavera. Se a ciò si aggiunge che il Battaglione “Tevere” venne costituito solo l’anno successivo, si ha il quadro esatto del mistero che si era creato: di quale reparto si trattava?

Si sa che dopo l’attentato a Via Rasella furono impiegati nel quartiere con funzioni di polizia anche reparti italiani, come la PAI e la Decima MAS, ma nessuno citava la presenza di “speciali” unità in camicia nera che, come si evince dalla foto, portando i gladi, non potevano nemmeno appartenere alla Guardia Nazionale Repubblicana. Questa Forza Armata, infatti, nonostante che le sue Compagnie OP avessero adottato il berretto rigido nero con teschio, sfoggiava, sul bavero della giacca, le fiamme nere a doppia punta (tipiche della Milizia) e le doppie emme saettanti, non le fiamme pentagonali con il gladio.

Pietro Cappellari, Coordinatore del Gruppo Ricerche Storiche della Fondazione della RSI, ha contattato Giorgio Sala nel tentativo di risolvere il mistero. Dopo un consulto, Cappellari ha ricordato come, nei suoi studi sul fascismo repubblicano nella Capitale, si era imbattuto in due formazioni giovanili tipicamente romane, i Gruppi Fascisti di Azione Giovanile “Onore e Combattimento” e lo sconosciuto Battaglione “Roma o Morte”. Entrambi le unità erano state costituite dal PFR per inquadrare i giovani dell’Urbe in reparti paramilitari e curarne la formazione in vista di un successivo ipotetico impiego bellico. Se i Gruppi “Onore e Combattimento” sono piuttosto conosciuti, dubbi vi erano sul “Roma o Morte”, una unità pre-militare composta da Compagnie della Morte e Reparti Volontari d’Assalto, sul quale mancano notizie certe.

Le foto delle Camicie Nere operanti in Via Rasella e Via Quattro Fontane delineavano profili certamente non giovanili e, di logica, difficilmente potevano essere associati ad appartenenti a reparti di adolescenti. Infine, un altro dubbio: il Battaglione “Roma o Morte” era già stato costituito nel Marzo 1944?

Consultando l’emeroteca della Fondazione della RSI si è risolta la questione, effettivamente il “Roma e Morte” era operativo a quella data, potendo schierare ben mille giovani romani e gli “anziani” che operarono quel 23 Marzo in Via Rasella potevano essere benissimo gli Ufficiali di questo reparto, accorsi sul luogo dopo l’esplosione.

Giorgio Sala ha sollevato un’altro dubbio: l’unica foto conosciuta del Battaglione “Tevere” ritrae effettivamente questa unità?

L’attribuzione in oggetto era stata data in relazione al ritrovamento di una coppia di mostrine pentagonali nere caricate di lupa romana con motto garibaldino sottostante “Roma o Morte” e gladi repubblicani che, nel libro Distintivi e Medaglie della R.S.I. (vol. I, pag. 83), venivano identificate come fregi appartenenti al Battaglione “Tevere”. Identificazione avvenuta sicuramente per la presenza del motto di cui sopra, largamente usato dopo l’entrata degli Alleati in Roma il 4 Giugno 1944. Si deve considerare che di questi reparti nulla si conosceva. Anzi, prima degli studi e ricerche di Giorgio Sala e relativa pubblicazione su Brigate Nere. Le mobili, le operative, le speciali, le autonome, si credeva che il Battaglione “Tevere” (o addirittura la VII Brigata Nera “Tevere”) fosse stato costituito nell’Estate del ’44, con fascisti romani trasferitisi a Milano dopo la perdita della Capitale.

Nella foto in questione (in possesso di Giorgio Sala), il reparto è schierato alla presenza di Carlo Borsani e, di conseguenza, tutti hanno collocato fisicamente l’evento ritratto a Milano, dove Borsani viveva. Tuttavia, Sala aveva notato su questa foto una piccola didascalia riportante la scritta “Roma 1944”, che ha indotto a porsi degli interrogativi. La soluzione del rebus è arrivata consultando la documentazione disponibile presso la Fondazione della RSI: Borsani, quel tragico 23 Marzo, non era a Milano (come si era ipotizzato), ma nella Capitale! Infatti, alla presenza del Battaglione “Roma o Morte” schierato compattamente per l’occasione, insieme al Battaglione Paracadutisti “Nembo”, Borsani tenne il discorso ufficiale per l’anniversario della Fondazione dei Fasci presso la Federazione dell’Urbe, ospitata al Ministero delle Corporazioni, in Via Vittorio Veneto. Quando esplose la bomba gappista gli intervenuti alla manifestazione scesero in strada e corsero a vedere cosa era accaduto: il Ministero, infatti, dista circa duecento metri dal luogo dell’attentato. Tra questi vi furono gli Ufficiali del Battaglione “Roma o Morte” che, per l’appunto, vennero ritratti nelle fotografie scattate in quei drammatici momenti. Così anche l’unica fotografica conosciuta dei Militi del “Tevere” deve essere interpretata come l’unica fotografia conosciuta dei ragazzi del “Roma o Morte”, schierato il 23 Marzo 1944, alla commemorazione della Fondazione dei Fasci di Combattimento tenutasi presso la Federazione dell’Urbe in Via Vittorio Veneto.

Tutto ciò testimonia come, ancor oggi, la storia della Repubblica Sociale Italiana sia avvolta da misteri e sia un mondo ancora tutto da scoprire…

Autori: Alberto Sulpizi e Pietro Cappellari

 

Editore: Herald Editore (Roma 2013)

 

Formato: 24×17 (100 pagine)

 

Euro 25

 

Per info: cappellaripietro@gmail.com

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L’EPOPEA DEI CARABINIERI REALI ALLA CONQUISTA DELL’IMPERO

La storia per immagini di un’esperienza straordinaria

di Claudio Cantelmo

E’ uscito il nuovo libro di Pietro Cappellari e Alberto Sulpizi Carabinieri in Africa Orientale Italiana. Immagini da un Impero, pubblicato dalla Herald Editore di Roma. Non solo una storia raccontata ma, soprattutto, un storia da vedere. Si tratta, infatti, di un vero e proprio album fotografico della conquista dell’Abissinia vista con gli occhi di un giovane Ufficiale dell’Arma. Il Prof. Sulpizi è riuscito a salvare un gruppo di foto degli anni 1936-1938 destinate alla distruzione e dall’incontro con il  Dott. Cappellari è nata l’idea di pubblicare un libro che ripercorresse quella storia dimenticata che fu l’impresa d’Etiopia, cercando, attraverso le immagini di vita quotidiana, di riscoprire quei valori che animarono milioni d’Italiani in quegli anni di passione patriottica. Si tratta di foto inedite dall’alto valore storico e anche antropologico, che ci dipingono un terra affascinante, misteriosa, romantica e ci raccontano della vita di quei giovani soldati che “fecero l’impresa”.

Il libro è stato presentato Domenica 3 Marzo 2013 nella straordinaria cornice del Forte Sangallo di Nettuno. Tra il numeroso pubblico presente, una delegazione ufficiale del Comando Compagnia Carabinieri di Anzio e della Stazione Carabinieri di Anzio. Presenti anche il Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia il reduce di El Alamein Sante Pelliccia, e delegazioni dell’Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori, dell’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo e dell’Associazione Nazionale Carabinieri. Ospiti d’onore: l’Assessore alla Cultura del Comune  di Nettuno Carla Giardiello, il Presidente della Pro Loco Dott. Marcello Armocida, la Dott.ssa Rita Dello Cicchi, l’Assessore Ernesto Flamini, l’ex-Sindaco di Ardea Prof. Carlo Eufemi, il Consigliere Comunale Prof.ssa Anna Ferrazzano, il Dott. Vincenzo Monti, il Prof. Giancarlo Baiocco e il Dott. Massimo Temperilli. Il Sindaco di Nettuno Dott. Alessio Chiavetta ha inviato ai convenuti un augurio di buon lavoro.

L’opera è un omaggio al valore del soldato italiano, ma anche alle orgogliose popolazioni abissine e all’Africa Orientale, terra dai legami indissolubili con l’Italia. In quegli anni, la Nazione italiana riuscì ad adempiere i postulati del Risorgimento, esercitare cioè un “primato”, compiere una “missione”. A tanti anni di distanza, triste è vedere le condizioni del continente africano in balia di epidemie, della povertà, del malgoverno. I nipoti di coloro che cacciarono gli Europei dal suolo africano, fuggire essi stessi dall’Africa per raggiungere l’opulenta Europa. Qualcosa non è andato nel verso dovuto… e ad un’epoca d’avventure, di spedizioni, di scoperte, di progresso civile e sociale è subentrata un’epoca di sfruttamento economico e politico ancora peggiore dello stesso colonialismo di stampo franco-britannico. Ancor oggi, le uniche opere di qualche interesse in Africa Orientale sono quelle che costruirono in cinque anni gli Italiani, anche se qualcosa sta cambiando. Fuggita dalle proprie responsabilità l’Europa, nel continente africano è piombata la Cina, con tutti i suoi spregiudicati – per non dire altro – investimenti. E tristi risuonano le parole di un Ingegnere cinese impegnato alla costruzione di una delle più grandi dighe africane a un giovane Italiano impegnato, invece, nella promozione dei diritti civili: «Voi Europei avete fatto tanto, in passato, per l’Africa. Oggi siete assenti. Qui il vostro posto è solo nei musei».

Eppure vi fu un passato in cui l’Italia seppe esercitare un “primato” e una “missione” da tutto il mondo invidiati.

Ecco, questo libro serve proprio a questo. A ricordare il sacrificio di migliaia di volontari italiani, a ricordare una più grande Italia, più unita e più libera di quanto non sia oggi.

 

Claudio Cantelmo

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